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Le stagioni della vendetta: Regnum
Le stagioni della vendetta: Regnum
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Le stagioni della vendetta: Regnum

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Giustizia, vendetta e redenzione sono la stessa cosa per Raniero. Egli intende portare coloro che hanno insanguinato il Regno innanzi al tribunale divino… egli persegue l’obiettivo di dare riposo all’anima uccisa di suo fratello... egli sa che solo così potrà espiare la sua colpa: aver amato Violante, moglie di suo fratello, sin dal primo momento, sin da prima che questi la sposasse. 
Siamo nella seconda metà del XIV secolo. Guerre civili e soprusi di ogni genere caratterizzano il Regno di Sicilia. L’assenza di un forte potere regio determina l’ascesa della nobiltà feudale, vera padrona e profittatrice di questa anarchia. In particolare sono le famiglie dei Chiaramonte, degli Alagona, dei Peralta e dei Ventimiglia a farla da padroni, spartendosi in quattro il Regno, senza curarsi dei diritti della piccola nobiltà, delle città e del demanio in generale. Risucchiati in questo vortice del malaffare finiscono anche i Rossavilla, di cui Raniero fa parte. 
“Esistono nondimeno cose che non possono prevedersi; persino chi studia il cielo e stila calendari e oroscopi prova sorpresa per l’apparizione di una cometa! Già, una cometa, una variabile senza alcuna previsione e regola… una variabile è pronta a stravolgere i precari equilibri su cui si regge il governo dei quattro vicari.”
Una notte Guglielmo Moncada, escluso dai patti dei quattro, rapisce dal castello degli Alagona la principessa Maria, erede al trono di Sicilia che aspetta il compimento della maggiore età. È pronto ad approfittarne il re d’Aragona, intenzionato a riportare l’isola sotto il proprio dominio… ed è pronto ad approfittarne Raniero, desideroso soltanto di portare a compimento la sua vendetta contro i quattro baroni che hanno usurpato il Regno, distrutto la sua famiglia e strappato dalle sue braccia la bella Violante.
LanguageItaliano
Release dateFeb 20, 2023
ISBN9791222067872
Le stagioni della vendetta: Regnum

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    Le stagioni della vendetta - Giovanni Mongiovì

    PREMESSA

    10 luglio 1391, Castronovo

    Un cuore dorato batte al centro del Mediterraneo… da sempre, da che l’uomo mise piede sull’isola di Sicilia. Sì, proprio un cuore, perché capace di pulsare ricchezza… e dorato, proprio come il colore del grano maturo.

    Ovviamente sarebbe un errore considerare come qualcosa di assoluto il binomio Sicilia-grano, ma esso, alla fine del XIV secolo sembrava non essere mai stato così rispondente alla verità. Erano stati i greci e poi i romani, ai tempi della Repubblica, ad individuare in tale binomio uno degli ingredienti della propria grandezza. Erano stati i normanni, dopo la frammentazione araba, a ripristinare il latifondo, creando così dal nulla l’aristocrazia terriera siciliana. C’erano però voluti più di duecento anni prima che la nobiltà si emancipasse dal rigido controllo regio e diventasse padrone di sé stessa, arricchendosi, inizialmente con la guerra, ed ora rispolverando il vecchio binomio Sicilia-grano. Infine ci aveva pensato la peste, l’epidemia terribile del 1347, quella del 1355 e altre ancora, a mutare la via per la quale la ricchezza giungeva nelle tasche del baronato.

    Era successo che, crollando drasticamente il numero degli abitanti a causa della pestilenza, ora, per la prima volta dopo un lungo periodo, i villani riuscivano a produrre più di quanto la popolazione dell’isola potesse consumare. E seppure grazie alla mancanza di forza lavoro i contadini ci avessero guadagnato, pretendendo quote più alte e contratti d’affitto più bassi, coloro che veramente dalla devastazione della morte ne erano usciti vittoriosi erano stati i grandi casati della nobiltà. Quell’avanzo di grano prodotto e la possibilità di commerciarlo fuori, con chi invece non ne produceva abbastanza, costituivano gli ingredienti della nuova grandezza del baronato. Catalani, fiorentini, genovesi e pisani, tutti giungevano ai caricatori 1 siciliani per fare il pieno di cereali, pagando al padrone di quel grano, signore dei feudi in cui era stato coltivato e del caricatore stesso, la tratta 2 per l’esportazione. Sciacca, Girgenti 3, Licata, Terranova 4, Siracusa, Augusta, Catania… accrescevano la loro ricchezza proprio in quel tempo, così come le famiglie che di tal luoghi si erano insignorite.

    Era cominciata così, dopo la crisi di inizio secolo, la nuova epoca d’oro del binomio Sicilia-grano e dell’aristocrazia siciliana… Ovvero l’epoca delle sopraffazioni, delle faide e dei soprusi, perché dove c’è denaro e nessuno che ne regoli l’afflusso, ne risultano anarchia, rapina e violenza.

    Forse le grandi famiglie dell’isola avevano fatto un voto al Cielo, visto che ricchezza e potere erano inaspettatamente aumentati… Forse avevano fatto un patto col Diavolo, visto che era stata la morte di centinaia di migliaia di persone la causa di tutto questo… visto che i principali garanti della redistribuzione della ricchezza, della pace del Regno e della giustizia se n’erano andati al Creatore proprio per mezzo della peste. Nel 1348 il morbo si era portato via Giovanni di Randazzo, zio e reggente del giovane Re Ludovico. Nel 1355 era stato proprio il giovane Re a morire di peste, anticipando di pochissimi giorni sua sorella Costanza, reggente, e lasciando il posto al fratello Federico, che invece dalla stessa malattia era guarito. Nel 1359 la morte aveva colto Eufemia, sorella di Federico e anch’essa reggente.

    Chi avrebbe potuto ridimensionare lo strapotere della nobiltà quando la sventura colpiva la famiglia reale con una simile regolarità? Chi avrebbe potuto far rispettare i diritti delle città regie e combattere l’usurpazione delle terre demaniali quando ogni cosa era controllata dal baronato? Chi avrebbe potuto porre un freno alle lotte intestine della nobiltà e ancor peggio ai loro accordi di pace, dal momento che ciò che muoveva quell’apparente bontà era l’egoismo e l’usurpazione?

    Ed ecco il loro ultimo patto, l’unione contro il nemico comune, perché il loro prestigio, ovvero la possibilità di governare i propri stati a proprio arbitrio, era minacciato dall’avvento di un nuovo re.

    A Castronovo erano giunti i quattro maggiori possidenti del Regno, coloro che già da anni si contendevano il primato e l’egemonia dell’intera Sicilia. I Chiaramonte, conti di Modica e signori di Palermo… gli Alagona, già conti di Mistretta ed ora di Paternò, signori di Catania… i Ventimiglia, conti di Geraci e di Collesano… e i Peralta, conti di Caltabellotta e signori di Sciacca. Due famiglie della parzialità latina e due della parzialità catalana, proprio a sottolineare il compromesso al quale era necessario giungere per aggiudicarsi la vittoria, ovvero la tutela dei propri privilegi innanzi all’avvento di un re che potesse sopprimerli. Essi si erano combattuti per anni, insanguinando i valli siciliani, devastando i reciproci possedimenti e dando modo al nemico storico, gli angioini di Napoli, di intrufolarsi nelle loro controversie per strappare il Regno alla casa d’Aragona e ricucire l’isola alla terraferma. Ora, però, dopo decenni di anarchia e guerra civile, risultava chiaro come l’essersi combattuti non avesse portato alcun profitto… come l’affare della guerra avesse senso solo se esercitato contro un nemico comune, al di fuori del Regno. Ora risultava chiaro che bisognava unirsi e fare fronte comune contro l’avvento del duca di Montblanc, fratello del re d’Aragona, e di suo figlio Martino, aspirante sovrano di Sicilia. Sì, perché la minaccia alla loro libertà non proveniva più dall’altra sponda del Faro 5, essendo i re angioini impegnati nelle loro questioni dinastiche, ma dall’altra parte del Mediterraneo, da quel regno d’Aragona i cui sovrani erano così strettamente imparentati con quelli di Sicilia da ritenere il trono isolano cosa loro. E non era un caso che il nuovo accordo tra baroni, atto a respingere gli ultimi usurpatori e le loro pretese dinastiche, fosse benedetto dal papa, il quale vedeva per un momento la possibilità di poter ristabilire le proprie prerogative feudali sulla Sicilia, ad indicare come il vecchio contenzioso tra impero e papato, poi ereditato dai sovrani siculo-aragonesi in opposizione agli angioini, non si fosse mai risolto completamente.

    Nel casale di San Pietro, a poche miglia da Castronovo, lì nel bel mezzo del val di Girgenti 6, tra le terre coltivate a grano dei Chiaramonte… ad un certo punto un tizio, di fra i tanti baroni pervenuti, si fece avanti per prendere parola… e tutti… tutti, lo fissarono come se uno spettro si fosse manifestato tra i vivi per emettere sentenze di morte…

    PARTE I

    Tra ragione e sentimento

    Capitolo 1

    Primavera 1373, Neopatria, ducato di Neopatria

    Esistono vocazioni nate in seguito ad un evento drammatico, tipiche di chi non riesce a tollerare il sangue in battaglia. Vocazioni nate in vecchiaia, quando si ha davanti l’intero computo della propria vita. E ancora vocazioni generate dallo spirito, sopite in cuore sin dalla nascita, ma pronte ad emergere con l’età adulta, con la consapevolezza del proprio io.

    Era da ascriversi proprio a quest’ultimo genere di vocazione ciò che sentiva Raniero da qualche anno, da quando, adolescente, aveva confessato a suo padre di non provare alcun appagamento nella vita dei giovani nobili. Roberto aveva appreso la cosa passivamente, poiché poco o nessun affetto provava per quel figlio nato dal suo secondo matrimonio. Era stata perciò Leonora, sua madre, a condurlo al cenobio dei cavalieri del Santo Sepolcro, proprio a Piazza, non distante dai loro feudi. Così la povera Leonora sperava di averlo vicino, ma anche di preservarlo dai pericoli della vita riservati ai cadetti… giusto lei che un figlio lo aveva visto portare via dalla peste. Poco le importava d’altronde che suo marito si mostrasse apatico nei confronti di Raniero, perché lei quel matrimonio lo aveva cercato per disperazione, e quel figlio lo aveva accolto come se si trattasse della risurrezione del primo… come se appartenesse a lei e a nessun altro.

    Non sempre una vocazione viene soddisfatta, ma nel caso di Raniero era stato proprio così; per cinque anni aveva temprato mente e spirito vestendo il saio e il mantello, impugnando la croce e la spada…

    Roberto era morto da un anno e mezzo quando Leonora venne a presentarsi al cenobio per chiedere a Raniero di fare qualcosa per la famiglia. Suo fratello Dino, adesso conte di Marittima e padrone di ogni cosa dei Rossavilla, aveva infatti bisogno di trovare moglie, e di qualcuno che per lui la scegliesse. Essendo Dino frutto del precedente matrimonio di Roberto, Leonora temeva di finire eclissata, così come temeva l’intromissione delle famiglie più potenti, per questo aveva pensato bene di pescare la nuova contessa di fra i suoi parenti. Si fidava tuttavia solo di Raniero, e dunque aveva deciso che fosse lui ad andare fino in Grecia, ad Atene e a Neopatria 7, in quei ducati siciliani ove i suoi parenti risiedevano da tre generazioni.

    Benché molto giovane, Raniero era coscienzioso e perspicace, capace di scegliere per il meglio analizzando le virtù e i difetti, i pregi e le cattive inclinazioni. Nel caso di Violante fu tuttavia la sua bellezza ciò che lo colpì per prima, giusto a lui che non aveva mai saputo celebrare la natura femminile. Si accorse di lei in chiesa, la rivide poi in casa sua… Si trattava della figlia di un cugino di sua madre e di una nobildonna greca, una fanciulla non ancora diciottenne che Leonora non aveva mai conosciuto. Violante aveva viso rotondo, occhi castani e capelli bruni dai riflessi tendenti al rossiccio. Aveva inoltre un incedere energico, non elegante ma sì vivace, e un’espressione intelligente, per niente pudica ma sveglia. Raniero voleva molto bene a Dino e avrebbe scelto solo per il suo bene. Sapeva quindi che al suo fianco era necessaria una donna capace, in grado di compensare i limiti evidenti che Dino stava dimostrando riguardo all’amministrazione del feudo. Non poteva sbagliarsi Raniero, perché così era stato anche nel caso dei suoi genitori.

    Quando per la prima volta gli occhi del giovane Rossavilla e quelli di Violante s’incrociarono, lui stava già conversando amabilmente con il padre di lei, accomodato con questi davanti a cibo e vino, intenzionato a concludere l’affare.

    «Non mi stupisce affatto che Leonora abbia mandato voi, don Raniero.»

    «Vi prego, don Eleuterio, chiamatemi frate Germano.»

    «Ma siete qui come portavoce dei Rossavilla, non di Gesù Cristo!» scherzò il nobile siciliano trapiantato a Neopatria.

    Raniero si fece prontamente il segno della croce per l’impudenza. Poi esclamò:

    «Ah, eccola vostra figlia!»

    Violante si avvicinò ai due ed esordì:

    «Spero che sotto il saio non nascondiate la malizia di certi mercatanti che bazzicano presso i nostri porti. In tal caso sappiate che io non sono merce, e che la compravendita che state stipulando con mio padre sarà sorvegliata in ogni suo aspetto.»

    Don Eleuterio sorrise e allargò le braccia, lasciando supporre che la frase della figlia fosse stata concordata in famiglia.

    Una domestica greca in quel momento serviva del formaggio caprino e olive, dunque Raniero non riuscì ad accorgersi dello sguardo d’intesa scambiato tra i due.

    «È questo il carattere che cerco nella sposa di mio fratello!» esclamò quindi, ancor più convinto che Violante fosse la ragazza giusta, specie ora che la vedeva da vicino.

    Raniero sapeva che non avrebbe dovuto basare la sua scelta sull’aspetto esteriore, ma non riusciva a restare indifferente di fronte a Violante.

    «Vieni, figliola, avvicinati. Tuo cugino Raniero vuole sapere perché porti questa strana acconciatura.» invitò don Eleuterio.

    «Chiedevo solo se è costume di queste parti o se è una scelta vostra.» si giustificò l’ospite, imbarazzato.

    Violante allora si approssimò fino ad un palmo dal viso di lui, lo fissò negli occhi e spostò il ciuffo che portava sulla fronte.

    Raniero spinse la mano in avanti, come per accarezzare quella brutta cicatrice, ma poi la ritrasse, ricordandosi che il peccato era in agguato, sebbene solo nel pensiero.

    «Come ve la siete fatta?»

    «Una scheggia, giocando alla giostra.» spiegò don Eleuterio.

    «Lo trovate indecente?» chiese perciò lei, quasi con aria di sfida.

    «La cicatrice, o che una nobile fanciulla si dedichi agli svaghi degli uomini?»

    «Suvvia, si tratta di una stupidaggine di gioventù, avvenuta prima che fosse in età di matrimonio.» sminuì il problema don Eleuterio.

    «Siete onesto, non posso che apprezzarlo...» concluse il giovane Rossavilla.

    «Adesso vai, figliola… io e don Raniero dobbiamo parlare di affari.»

    Essendo stata congedata, Violante si accinse a lasciare la stanza, sennonché gettò un ultimo sguardo a Raniero, breve, ma di un intensità tale da far rivoltare le budella. Non si trattava di uno sguardo di malizia, e nemmeno di appagamento, ma di inquietudine, una richiesta d’aiuto insperata, lanciata dall’anima senza che la mente se ne rendesse conto.

    «Veniamo a noi, don Raniero. È chiaro che abbiate già deciso riguardo a mia figlia... Un terzo dei diritti sulle vostre tratte e l’affare sarà fatto!»

    Raniero saltò dalla sedia; quello che don Eleuterio chiedeva era tanto.

    «Sapete come i Rossavilla si guadagnarono quelle tratte…»

    «Due anni fa vostro padre si prese le coltellate destinate a Re Federico, e questo vi fece entrare nei suoi favori.»

    «Questo ci tolse un padre! Quel 13 ottobre lui non doveva essere a Messina, e soprattutto non toccava a lui frapporsi tra il Re e quel francese armato di pugnale, ma agli uomini degli Alagona che lo scortavano.»

    Ricordare quel giorno fece intristire Raniero. Strinse inoltre i pugni, segnale di una rabbia non del tutto sopita.

    Nessuno sapeva spiegarsi cosa ci facesse Roberto il 13 ottobre del 1371 a Messina, perciò in famiglia si erano convinti che questi sapesse dell’attentato e che volesse sventarlo. Roberto d’altronde era un uomo pieno di turbamenti e inquietudini, al limite dello squilibrio mentale, e non sarebbe stato strano se avesse voluto riscattarsi ai suoi stessi occhi compiendo un gesto eclatante nei confronti del Re senza dir niente a nessuno. Ciò che era più complicato comprendere era invece come facesse a saperlo… ma anche riguardo a questo Dino e Raniero avevano tratto le proprie conclusioni. Prima di essere condannato al rogo, l’attentatore aveva confessato sotto tortura che il mandante fosse un cavaliere catanese vicino agli Alagona, guarda caso gente che Roberto frequentava abitualmente. Artale Alagona si era rifiutato di fare arrestare quell’uomo, ritenendo la confessione non attendibile, ma per i due figli di Roberto la cosa puzzava parecchio. Ecco la tristezza di Raniero di fronte a quell’evento, ed ecco la sua rabbia…

    «Dio ricompensa, figliolo, ed oggi i Rossavilla sono più ricchi di due anni fa.» commentò don Eleuterio.

    «Sicuramente più ricchi dell’invidia delle grandi famiglie… In Sicilia non è possibile che dei piccoli baroni ottengano privilegi direttamente dal Re… non è possibile senza attirarsi l’odio di questo o di quel conte. Siete fortunato a starvene qui, don Eleuterio… qui che il vostro duca è Federico IV in persona.»

    «Non è forse per questo che Neopatria e Atene sono ducati più prosperi rispetto a dieci anni fa, mentre la Sicilia va incontro allo sfacelo? Federico è un buon amministratore. Se solo dalle vostre parti deterrebbe lo stesso potere che ha qui… Alla luce di tutto questo non è stata una mossa intelligente staccarvi dall’intermediazione degli Alagona.»

    «Che dirvi, don Eleuterio… preferiamo giurare fedeltà solo alla casa d’Aragona noi Rossavilla. Sono sicuro che prima o poi Federico riuscirà ad imporre la piena sovranità sull’isola, seppure siano molti anni che ci prova. Lo credono semplice, ma se solo le grandi famiglie gli si sottomettessero, al pari di quanto succedeva col terzo Federico ad inizio secolo, sono sicuro che riuscirebbe a dare lustro al Regno. I risultati raggiunti in questi ducati, ove governa direttamente, dimostrano proprio questo.»

    Ovviamente Raniero non avrebbe mai ammesso di avere dubbi sulla fedeltà degli Alagona, i quali si vantavano d’essere i principali sostenitori del Re.

    «Parlate bene, don Raniero. Spero che vostro fratello abbia le vostre stesse virtù.»

    «Vostra figlia sarà in buone mani.»

    «Ed io ci avrò guadagnato un terzo dei diritti sulle vostre tratte.»

    «Un quinto in cambio della cifra che avete promesso per la dote di vostra figlia… o altrimenti dovrete aumentare la posta.»

    Don Eleuterio sorrise, stupito dal modo diretto con cui Raniero conduceva l’affare, inusuale per un ventiduenne.

    «Oro in cambio della possibilità di venire a caricare le mie navi esentato dal pagamento della tratta.»

    «Fino a un quinto dei diritti che il Re ci ha concesso.»

    Don Eleuterio spinse in avanti la mano, per stringere quella dell’ospite, certo di star concludendo un buon affare.

    Raniero invece ripensò a quell’ultimo sguardo lanciatogli da Violante. Qualcosa tormentava quella ragazza, ne era certo, una ferita nell’anima ben più profonda e nascosta della cicatrice che segnava il suo volto.

    Capitolo 2

    Primavera 1373, Cithonia, ducato di Neopatria

    L’impero di Costantinopoli non era mai stato così lontano da quelle terre di Grecia occupate due secoli prima dai regni europei ed ora detenute da veneziani, siciliani e angioini. Uno scempio della romanità orientale perpetrato nei secoli, sia con la conquista diretta e sia approfittando della debolezza del basileus, impegnato com’era a respingere l’avanzata turca oltre il Bosforo. Sopravvivevano di mille e cinquecento anni di storia imperiale la lingua, greca… come quella dell’imperatore; la religione, orientale… come quella originatesi a Costantinopoli ai tempi dello scisma; e l’appartenenza, in quanto gli abitanti, che fossero sudditi del duca d’Atene, del principe d’Acaia o del doge di Venezia, si consideravano tutti romani, in barba alle rivendicazioni identitarie del papa o dell’imperatore tedesco.

    Una di queste romane di Grecia era una donna sulla trentina di nome Panagiota, una serva di don Eleuterio nativa di Cithonia 8, città a poche miglia da Neopatria. Panagiota era anche l’ancella di Violante, e, essendo al suo fianco da sempre, ormai viveva solo motivata dall’affetto che provava per lei.

    Non c’è da stupirsi che giunti a Cithonia, sulla strada per il porto e per la nave che avrebbe dovuto condurre Violante in Sicilia, fosse proprio Panagiota ad organizzare il finto rapimento della sua signora, evento che avrebbe dovuto impedire il matrimonio.

    Era notte fonda quando i passi di un uomo penetrarono all’interno della stanza in cui Violante riposava. Panagiota dormiva lì accanto mentre le mani di quello sconosciuto si apprestavano a tappare la bocca della giovane nobile.

    Un urlo squarciò a quel punto il silenzio, perché del sangue era stato versato nell’oscurità e secondo i piani delle due complici questo non sarebbe dovuto accadere.

    Raniero allontanava il corpo del rapitore trascinandolo per le ascelle in un angolo, mentre Violante e Panagiota cercavano coraggio l’una nell’altra, tremanti e terrorizzate per l’intervento improvviso del cavaliere siciliano.

    «State bene, madonna?» chiese Raniero a Violante, porgendole intanto una coltre per coprire l’abbigliamento indossato, non certo il più consono da sfoggiare alla presenza di un uomo.

    «Che avete fatto?» rispose invece lei, priva di forze al punto da non riuscire ad afferrare l’oggetto portole.

    «Vegliavo su di voi, così come ho promesso a vostro padre. Quell’uomo era intenzionato a farvi del male.» spiegò Raniero, indicando, ora che il locandiere veniva dentro con una torcia, il corpo dell’ucciso.

    «Voi, serva… dite a quest’uomo che volevano far del male alla vostra signora, e che lasceremo ora stesso la locanda, perché in questi casi è certo che non può esistere pericolo che il locandiere non voglia...»

    Mentre Panagiota si avvicinava al locandiere per riportare le parole di Raniero, questi afferrò le braccia di Violante e le disse:

    «Dovete disfarvi della vostra serva. È perché l’ho seguita che ho scoperto tutto. Volevano rapirvi… per un riscatto.»

    Violante però piangeva e scuoteva la testa, sentendosi minacciata da un solo individuo: Raniero.

    Ora il Rossavilla la trascinava per le stradine di Cithonia, alla luce fioca delle lanterne, facendosi spazio tra le pecore che i pastori conducevano ancor prima dell’alba ai pascoli sulle colline che circondavano la città. Quando poi si accorse che Panagiota

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