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Fronte del cuore. L’amore ai tempi delle trincee
Fronte del cuore. L’amore ai tempi delle trincee
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Fronte del cuore. L’amore ai tempi delle trincee

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Fronte del cuore è un romanzo storico ambientato durante la prima guerra mondiale e si articola intorno a una serie di lettere tra un giovane di Pescara, Gabriele de Marinis, e una ragazza di Castellamare, Antonietta Franceschini.
I due giovani, innamorati, hanno una relazione epistolare ed è proprio intorno a circa cento lettere che è costruito il romanzo che si basa anche su vicende, ambientazioni e sensazioni vere, reali.
La storia ruota intorno alla vicenda amorosa del giovane, tra l’altro nipote di Gabriele D’Annunzio, in quanto figlio della sorella Anna, e la giovane castellamarese. Ovviamente risaltano le vicende locali e quelle del fronte, nonché gli aspetti legati ai momenti bellici con, in primo piano, Cadorna, Diaz, Badoglio e Gabriele D’Annunzio, zio e padrino di battesimo del protagonista.
Le lettere vanno dal luglio 1917 al dicembre del 1919, quando il giovane torna in congedo per vivere finalmente con tranquillità la storia d’amore. Ma non sarà così.

Licio Di Biase, laureato in Storia all’Università Gabriele D’Annunzio di Pescara-Chieti, si è dedicato alla ricostruzione della storia di Pescara, pubblicando vari libri e saggi tra cui La grande storia. Pescara e Castellamare dalle origini al xx secolo (2010). È autore, tra l’altro, dei volumi L’era della balena. La storia della dc abruzzese dal dopoguerra al 1992 (2003), Giuseppe Spataro. Una vita per la democrazia (2006), Remo Gaspari. La politica come servizio (2012), L’onorevole D’Annunzio (2013), I tempi di Aldo Moro (2015), Il mio Flaiano con Enrico Vaime (2018), La piazzaforte di Pescara (2020) e Pescara 1910 (2022). Ha pubblicato, inoltre, tre romanzi storici, tra cui recentemente Il processo a Carmela (2021), aggiudicandosi una decina di premi letterari. È stato per 35 anni amministratore del Comune di Pescara.
LanguageItaliano
Release dateOct 31, 2022
ISBN9791255370185
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    Fronte del cuore. L’amore ai tempi delle trincee - Licio Di Biase

    INTRODUZIONE

    1914

    Nell’ottobre del 1914 con la prima guerra mondiale in corso, che aveva già coinvolto le maggiori potenze europee, l’Italia, divisa tra neutralisti ed interventisti e ancora alla ricerca di una posizione, aveva inviato in Albania delle truppe in missione umanitaria per fronteggiare una grave epidemia di colera. Tutto era iniziato quel 28 giugno del 1914, quando l’erede al trono dell’Impero austro-ungarico l’Arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia, in visita a Sarajevo, furono uccisi da alcuni colpi di pistola sparati da Gavrilo Princip, membro di Mlada Bosna (Giovane Bosnia), un gruppo di idealisti che lottava per l’unificazione degli Slavi del Sud e che vedeva negli Asburgo il principale ostacolo al proprio disegno. Fu la famosa scintilla che fece esplodere la Grande Guerra, ma fu solo una scintilla in quanto in Europa vi era già da tempo il sentore che sarebbe potuto accadere qualcosa di tragico, alla luce del clima di tensione e di nervosismo che serpeggiava tra i vari Stati e al loro interno. Come la maggior parte delle guerre, anche nell’avvio di questa che sarà definita Prima Guerra Mondiale, furono i problemi delle aree di confine a determinare gli scontri a fuoco e, in quella fase, di fuochi se ne erano accesi troppi e il coinvolgimento fu a livello mondiale. Iniziò la potenza austro-ungherese che il 28 luglio dichiarò guerra alla Serbia. E le tensioni tra i due blocchi, ricoperte da una coltre, per nulla spessa, di pesanti atteggiamenti diplomatici, esplosero.

    Nel volgere di una settimana l’Europa prese fuoco: il 1° agosto la Germania dichiarò guerra alla Russia e il 3 alla Francia, al cui fianco si schierò l’Inghilterra e, dunque, da una parte il blocco dell’Europa Centrale, con la Germania, la potenza Austro-ungarica e l’Italia, dall’altra quello delle forze dell’Intesa con la Francia, l’Inghilterra e la Russia che con il Patto di Londra del 4 settembre 1914 stabilirono una vera e propria alleanza, di fronte al dilagare dei focolai che stavano investendo vari Paesi europei, molti dei quali speravano di risolvere i loro problemi sociali ed economici interni con una forte azione militare esterna. La Francia e l’Inghilterra, inoltre, volevano bloccare il micidiale sviluppo economico della Germania. E l’Italia, che il 2 agosto con Salandra dichiarò la sua neutralità, pur alleata delle forze austro-germaniche, non entrò nel conflitto, ma si ritrovò spaccata tra neutralisti (una parte dei socialisti, i cattolici, ma soprattutto Giolitti con il raggruppamento liberale) e interventisti (l’altra ala socialista con Benito Mussolini, che abbandonò il Partito e la direzione del giornale L’Avanti, Gabriele D’Annunzio, Gentile, Salvemini, Prezzolini, il Re ed altri). I neutralisti erano sicuramente in maggioranza, soprattutto nel Parlamento, ma gli italiani non si volevano schierare con gli austriaci che occupavano ancora territori che mancavano all’Italia per completare l’unificazione del Paese, in particolare Trento e Trieste. Gli interventisti, pur se minoranza nel Paese, riuscirono a far leva sull’orgoglio nazionale in maniera passionale, sostenuti da una parte della stampa e facendo breccia nella politica e nelle istituzioni.

    A pesare a favore del neutralismo vi era la posizione di Giolitti, che aveva lasciato la Presidenza del Consiglio e sperava che l’Italia riuscisse a recuperare i pezzi dei territori occupati dall’Austria attraverso una grande operazione diplomatica. In Italia, nella primavera c’erano stati sommovimenti nel Partito Socialista da cui Mussolini uscì trionfatore e fece espellere i massoni dal partito: questo fu il tentativo di Mussolini di condurre il Partito su posizioni più intransigenti, togliendolo dalle mani dei riformisti ad iniziare da Turati, e infatti l’espulsione dei massoni aveva determinato un distacco ideologico del Partito Socialista da radicali e da repubblicani. In questo scenario Salandra, che aveva sostituito Giolitti alla guida del governo, si trovò a fronteggiare una situazione difficilmente governabile.

    Gli interventisti, che trovarono un grande alleato che si pose in prima fila e cioè l’agitatore delle masse per eccellenza, Gabriele D’Annunzio, riuscirono a movimentare il Paese attraverso molte manifestazioni di piazza. Questo fu il periodo in cui Mussolini uscì dal Partito Socialista che Turati, una volta recuperata la guida, condusse su posizioni neutraliste. Appena esplose il conflitto l’Italia rimase a guardare, con l’atteggiamento tipico del Paese pronto a sedersi a tavola dopo che questa è stata apparecchiata, come aveva sentenziato Bismarck qualche tempo prima: gl’italiani hanno pessimi denti, ma eccellente appetito. Frutto di culture e sensibilità diverse. I cattolici e i socialisti erano per la Pace e volevano non solo evitare di coinvolgere il Paese nella vicenda bellica, ma lavorare per bloccare l’espansione della guerra stessa. Alla fine gli interventisti, anche per la grande disponibilità del Presidente del Consiglio Antonio Salandra e del Ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, ebbero la meglio. Il Re e il Governo trovarono le motivazioni per scendere nel campo minato della guerra. L’Italia si avvicinò al momento dell’ingresso nella vicenda bellica mettendo in discussione e poi rigettando l’accordo con l’Austria e con la Germania, schierandosi con la Triplice Intesa e ottenendo ampie garanzie per la presenza in Albania e la possibilità di riconquistare le aree di confine, annesse ancora all’impero austro-ungarico. Anche prima dell’ingresso nel conflitto, però, l’Italia aveva mandato in Albania il 30 ottobre 1914 dei militari per una missione sanitaria; successivamente, nel dicembre 1914, fu inviato un Reggimento di bersaglieri che si insediò a Valona: era l’undicesimo Reggimento, con l’obiettivo sia di portare il sostegno umanitario alle popolazioni colpite dalle epidemie, che di tutelare l’area dinanzi ad un’eventuale invasione del Montenegro da parte dell’Austria, già da mesi in guerra, e per creare anche i presupposti del controllo del territorio. Intanto, Luigi Cadorna, uno dei pochi ufficiali che non apparteneva alla Massoneria, era diventato Capo di Stato Maggiore dopo la scomparsa del Generale Pollio che nel 1908 era stato preferito da Giolitti proprio a Cadorna.

    1915

    Nei primi mesi del 1915, l’Italia, comunque, trasformò la propria presenza col Corpo d’Operazione Italiano in Albania, il cui obiettivo era non solo di garantire la salvaguardia delle condizioni igieniche di Valona, costantemente condizionata dalla malaria e da altre epidemie, così come per il resto dell’Albania, ma anche di sistemare il suo importante porto per tentare, inutilmente purtroppo, di pacificare le diverse tribù albanesi. La Francia riconobbe all’Italia il diritto di occupare Valona, per assicurare il possesso e la difesa del porto, per cui, poco dopo anche i governi di Inghilterra e Russia convennero su tale diritto. Questo riconoscimento per l’Italia fu inserito nel Patto di Londra, stipulato il 26 aprile 1915 in modo segreto, determinando la discesa in campo dell’Italia che il 4 maggio uscì dalla Triplice Alleanza. Infatti, poco tempo dopo l’Italia entrò in guerra a fianco della Triplice Intesa. Era il 24 maggio del 1915, alla fine delle radiose giornate di maggio.

    Una delle prime imprese fu quella di assumere la direzione delle operazioni navali nell’Adriatico oltre che, ovviamente, iniziare a nord-est la lunga e logorante guerra di trincea contro l’Austria. Il Patto di Londra aveva creato aspettative nell’Interventismo italiano. Gabriele D’Annunzio, rientrato in Italia dopo cinque anni di esilio in Francia, dove si era rifugiato pressato com’era dai creditori, divenne un agitatore delle masse per sollecitare l’entrata in guerra dell’Italia, ma quando il Vate iniziò, in quel maggio, il suo percorso propagandistico l’Italia aveva già sottoscritto, il 26 aprile 1915, l’accordo ad intervenire con le forze dell’Intesa. Gabriele D’Annunzio seppe, tuttavia, mobilitare le coscienze ed iniziò da Quarto il 5 maggio 1915 con un comizio in cui esaltò il genio militare di Giuseppe Garibaldi, in occasione del cinquantesimo anniversario della partenza dell’impresa dei Mille garibaldini. Qui venne raggiunto dal cognato Nicola De Marinis, marito di Anna, la prediletta sorella di D’Annunzio, deceduta il 9 agosto 1914. Il cognato portò con sé la figlia Marina e il Poeta colse l’occasione per inviare in dono al nipote, Gabriele De Marinis, una sua foto mentre teneva il comizio a Quarto con questa dedica: A Gabriele che portando il mio nome sarà il giovane soldato eroico che io vorrei essere. Infatti il giovane De Marinis era partito volontario qualche mese prima. D’Annunzio era molto orgoglioso del giovane, in quanto ne era stato padrino di battesimo, come ricordò in una lettera inviata a sua madre Luisa il 12 ottobre 1914:

    Cara cara mamma,

    penso a te così continuamente e parlo a te con la mia anima così spesso che la materialità di una lettera quasi mi offende. Perciò preferisco mandarti parole più rapide, che ti giungano nel giro di un giorno. Immagina che le lettere di Francia sono trattenute al confine dodici giorni!

    Profitto della partenza d’un amico per l’Italia, e ti mando questo saluto che certo ti troverà sana e tranquilla. Penso che tu debba aver ricevuto la somma inviata da Milano. Appena potrò - e qui, come altrove, l’angustia è grande - ti manderò altro con lo stesso mezzo. Io non ho potuto abbandonare Parigi nell’ora del pericolo. Ho voluto rimanere qui per una necessità ideale.

    Se fossi rimasto chiuso e se la desideratissima guerra fosse scoppiata alfine in Italia, avrei potuto escire da Parigi in velivolo e raggiungere una stazione ferroviaria per rientrare nel mio paese.

    Bisogna, cara mamma, bisogna che io ritorni nel giorno che invano per tanti anni ho affrettato coi vòti. Tu prega per questo. E sarai benedetta due volte.

    Non posso vincere la tristezza del nostro lutto recente. So che il mio figlioccio Gabriele si offre volontario. Bravo! Abbraccialo da parte mia.

    Arrivederci, arrivederci su l’Adriatico! Ti bacio tenerissimamente, e mi ricordo a tutti i cari. Il tuo tuo Gabriele.

    Dopo il comizio di Quarto fu soprattutto a Roma, nei giorni seguenti, che mobilitò frange sempre più tese all’interventismo, con comizi ricchi di esaltazione della Patria e dell’importanza della partecipazione alla guerra. E così, in quelle radiose giornate di maggio D’Annunzio arricchì l’entrata in guerra dell’Italia con motivazioni ideali che esaltavano il senso della Nazione come quando a Roma, ormai certo dell’entrata in guerra dell’Italia, dal balcone del Campidoglio, urlò: L’onore della Patria è salvo. L’Italia è liberata. Le nostre armi sono nelle nostre mani. Non temiamo il nostro destino, ma gli andiamo incontro cantando (…). Ben questo coraggio, ben questo impeto, ben questo vigore sono le vere virtù della nostra razza. Tutto il resto è infezione straniera propagata in Italia dall’abbietta giolitteria…. Anche Mussolini si espresse duramente contro i neutralisti asserragliati nel Parlamento: Il Parlamento è il bubbone pestifero che avvelena il sangue della Nazione. Occorre estirparlo. Qualche anno dopo lo fece! Il concetto di Mussolini era in sintonia con quanto aveva affermato D’Annunzio all’inizio degli anni ’90 dell’Ottocento, quando aveva definito il Parlamento "la Bestia elettiva".

    Appena l’Italia entrò nel conflitto si crearono due fronti: quello del Nord-Est, le cui operazioni furono affidate al Generale Cadorna, Capo di Stato Maggiore, e quello dell’Adriatico, il cui comando fu assunto dal Duca degli Abruzzi, già alla guida dell’armata navale. Sul confine con l’Austria tra il giugno e l’agosto ci furono varie azioni belliche: la Brigata Torino si schierò a fianco del battaglione alpini nell’Alto Cordevole, fu conquistata la Forcella del Col dei Bos, la Coma Bos ed il gruppo del Cristallo, ma ci furono anche azioni disastrose sulla Cima di Falzarego, a Forcella Travenanzes e in altre località minori.

    Gabriele D’Annunzio, intanto, oltre all’azione propagandistica nelle Piazze per sostenere l’intervento iniziò anche le sue azioni militari, a cui dava loro sempre un risvolto di carattere propagandistico, sia per galvanizzare le truppe, sia per demotivare gli avversari. Rientra in questo contesto il Volo su Trieste, al termine della seconda battaglia dell’Isonzo. Era il 7 agosto 1915.

    L’aereo su cui volava D’Annunzio si alzò alle 15.30, pilotato dal comandante Giuseppe Miraglia. Dopo un’ora giunse su Trieste e ad attenderlo vi erano mitragliatrici e velivoli nemici. Due aerei italiani e due francesi erano comunque in coda, a protezione dell’iniziativa di D’Annunzio che riuscì nel suo intento, cioè gettare a terra bandiere italiane appesantite da piombo e con allegati messaggi chiusi in sacchetti impermeabili. Nella relazione che il Comandante in capo del Dipartimento marittimo di Venezia inoltra al Ministero e allo Stato Maggiore a Roma esalta l’impresa:

    "Tel. N. 159 del 7 agosto1915. 6746 - Ore 15,30 eseguita azione dimostrativa offensiva sopra Trieste da due idrovolanti italiani due francesi (stop). Da apparecchio guidato da Miraglia meccanico D’Annunzio … lanciato sulle città bandiere tricolori proclami del Poeta quindi fu lasciata cadere una bomba esplosione sulla tettoia magazzino Maria Teresa vicino sanità … Per avaria tubo quattro bombe di cui tre visto esplosione con buon esito vicino stesso molo … Un apparecchio francese lanciato quattro su deposito gas senza accertamento risultati … Secondo apparecchio francese riservato a Grado eventuale protezione idrovolanti inseguiti … Contro operatori fu aperto da terra vivo fuoco mitragliatrici fucili cannoni apparecchi nemici si alzarono ad inseguirli … Malgrado tutto ciò tutti ritornarono  incolumi a Venezia apparecchio Miraglia D’Annunzio colpito palla mitragliatrice esplosivo ebbe dritto poppa fusoliere fracassato…"

    Eloquente e propagandistico fu il contenuto del messaggio del Vate: Coraggio, fratelli! Coraggio e costanza! Per liberarvi più presto, combattiamo senza respiro. Nel Trentino, nel Cadore, nella Carraia, su l’Isonzo, conquistiamo terreno ogni giorno. Non v’è sforzo del nemico che non sia rotto dal valore dei nostri. Non v’è sua menzogna che non sia sgonfiata dalle nostre baionette. Abbiamo già fatto più di 20.000 prigionieri. In breve tutto il Carso sarà espugnato. Io ve lo dico, io ve lo giuro, fratelli: la nostra vittoria è certa. La bandiera italiana sarà piantata sul Grande Arsenale e sul Colle di San Giusto. Coraggio e costanza. L’alba della vostra allegrezza è imminente. Dall’alto di queste ali italiane, che conduce il prode Miraglia, a voi getto per pegno questo messaggio e il mio cuore, io Gabriele D’Annunzio.

    L’Italia intensificò, inoltre, la propria azione militare in Albania e nel novembre del 1915 venne sostituito il precedente Corpo d’operazione italiano in Albania di carattere umanitario con il Corpo Speciale Italiano d’Albania il cui comando fu affidato al generale Emilio Bertotti. Questa presenza creò dei problemi. Il generale Cadorna fu contrario in quanto questa iniziativa militare sottraeva energie dal fronte settentrionale e poi dipendeva direttamente dal Ministero della Guerra, quindi tolto al suo controllo. Il Corpo Speciale aveva il compito strategico non solo di proteggere Valona e Durazzo, ma anche di evacuare i prigionieri austriaci dei quali i Serbi, non avendo le capacità gestionali, si volevano disfare, ed inoltre di proteggere l’esercito serbo dalle ostilità albanesi e dagli attacchi austriaci, rifornendolo di viveri, armi e munizioni. Una delle prime azioni fu quella di evacuare la popolazione e trasferire i battaglioni di prigionieri austriaci da Valona a Durazzo. Il trasferimento, poi, proseguì da Durazzo a Brindisi tramite la Marina Militare che aveva messo a disposizione dell’operazione diciotto piroscafi scortati da cacciatorpedinieri ed infine ci fu la consegna alla Francia di tutti i militari prigionieri. L’operazione subì una modifica: la Francia chiese un sostegno all’Italia perché le epidemie di tifo e di colera non permettevano ai francesi di gestire con successo l’operazione. E fu individuata un’area che sarebbe diventata un grande Lazzaretto, e cioè l’isola dell’Asinara che, pur potendo ospitare al massimo mille persone, accolse i vari scaglioni di prigionieri e profughi trasferiti dall’Albania trasformandosi in una immensa struttura di accoglienza senza mezzi e senza grandi potenzialità. Il Generale Emilio Bertotti riuscì nel contempo ad avere il sostegno del Ministero della Difesa per completare la presenza di militari italiani in Albania, in quanto c’era il rischio reale di un’invasione austriaca che, infatti, dopo poco tempo violò la neutralità del Regno del Montenegro. E così nel dicembre del 1915 l’Italia con una brigata di circa novemila uomini comandati dal generale Giacinto Ferrero occupò la roccaforte di Durazzo. Anche se poi nel febbraio del 1916 la dovette abbandonare a causa dell’attacco austriaco.

    1916

    L’evacuazione dei serbi, dei prigionieri austriaci e di quanti altri in fuga, venne completata il 9 febbraio 1916 e furono tutti trasferiti sulla costa italiana. Ricoperti di stracci, affamati, stremati dalle malattie, in ottomila circa morirono di colera e tifo. E questo accadeva mentre gli austriaci erano determinati a raggiungere la costa albanese. Infatti a Durazzo ci fu il primo vero scontro tra austriaci e italiani. Il Comandante Ferrero temendo, giustamente, l’avanzata dell’esercito austriaco sostenuto da bande di albanesi, il 14 febbraio 1916, qualche giorno dopo aver completato l’evacuazione, chiese al Generale Bertotti, suo superiore, l’autorizzazione allo sgombero dei militari italiani. Ma le cose andarono in altro modo. Quando era tutto pronto per lo sgombero con quindici piroscafi, due navi ospedale e due cacciatorpedinieri pronti a coprire la ritirata degli italiani, giunse un dispaccio di Bertotti che imponeva a Ferrero di fermare tutto perché a suo dire l’avanzata austriaca era inferiore rispetto al previsto, per cui era il caso di restare a Durazzo. Fu una tragedia. L’esercito italiano, già decimato da una gastroenterite micidiale, venne attaccato dagli austriaci e fu una strage: ottocentoquaranta militari vennero uccisi, Durazzo dato alle fiamme, uccisi novecento muli e tutte le armi rimasero sul campo di battaglia. Gli italiani si ritirarono sulla riva sinistra del fiume Vojussa, a nord-est di Valona. L’Italia dovette decidere in fretta cosa fare.

    E con la contrarietà del Generale Cadorna, tra febbraio e marzo del ‘16 l’Italia passò dall’atteggiamento dell’azione umanitaria, di tutela e di protezione delle popolazioni, ad un vero e proprio intervento militare. Furono richiamati molti uomini, vennero organizzate brigate di fanteria e venne inviato il XVI Corpo d’Armata, composto da tre divisioni di fanteria, con squadre trasferite dal fronte alpino, tutti sotto il comando del generale Pietro Piacentini, e la presenza italiana raggiunse le centomila unità. Grazie a questo eccezionale dispiegamento di uomini, si riuscì a salvare il resto dell’esercito serbo in fuga dinanzi all’avanzata degli austriaci, sempre più decisi ed impegnati a penetrare profondamente nei Balcani. Fu chiara l’irritazione di Cadorna, in quanto si vedeva sottrarre delle forze militari dal fronte del nord-est. Partirono tutti da Taranto.

    Fu anche la volta anche del giovane pescarese Gabriele De Marinis, imbarcato per quella che inizialmente pensava fosse ancora un’azione umanitaria, e che invece si trovò al centro di un conflitto serio e pericoloso. In un ambiente invivibile, tra paludi ed epidemie di malaria, tra strade fangose e insetti insopportabili e portatori di malattie. Con l’entrata in guerra l’Italia impresse una forte accelerazione alle operazioni sui vari fronti. Le forze italiane, che erano ad Argirocastro e quelle francesi a Coriza, nel settembre entrarono nel nord dell’Epiro, dopo il consenso della Triplice Intesa. L’esercito italiano rimase dislocato su una linea di cinquanta chilometri lungo il fiume Vojussa. Nel luglio del 1916 l’Italia aveva deciso, inoltre, di rafforzare la propria azione in Macedonia. Il primo scaglione era partito da Taranto l’8 agosto 1916 e sbarcato a Salonicco l’11 agosto, l’ultimo scaglione vi giunse il 19. Il generale Oreste Bandini, nuovo comandante del XVI Corpo d’Armata italiano operante in Albania, mentre accadevano queste cose in Macedonia, estendeva fino a Tepelenë l’occupazione della zona intorno a Valona e occupava inoltre le regioni albanesi vicine al confine, così come stabilito dalla conferenza di Londra: Delvino, Premeti, Argirocastro, Lijaskoviki.

    Nel dicembre del 1916 il generale Giacinto Ferrero sostituì nel comando delle operazioni in Albania il generale Bandini. Gli Albanesi, intanto, s’erano fatti mercenari dell’una o dell’altra parte: il loro governo praticamente non esisteva più e quindi vi erano bande che sostenevano le Forze dell’Intesa e quelle che invece sostenevano gli austriaci. In questo contesto tra la fine del 1916 e il settembre del 1918 l’Italia combatté una lunga e logorante guerra di trincea contro l’esercito bulgaro e contro i tedeschi. Poi, nell’ottobre del 1918 i bulgari si arresero. Nel dicembre del 1916 a Chantilly, e nel gennaio del 1917 a Roma vennero assunte delle decisioni che permisero al comando supremo italiano di approfittare della stasi invernale per riorganizzare le truppe e migliorare l’addestramento e la logistica, in vista della ripresa del conflitto e, mentre in Albania accadevano questi fatti, sul fronte nord-orientale, con Cadorna sempre più contrariato, proseguiva ormai la statica guerra di trincea dove continuavano a morire tanti giovani. Ogni tanto c’era qualche tragico episodio come la mina sul Col di Lana del 17 aprile o quella dell’11 luglio a Castelletto, con la morte di centocinquanta austriaci.

    1917

    L’inizio del 1917 fu caratterizzato da vari tentativi di avviare azioni di compromesso per un cessate il fuoco. L’imperatore Carlo, successore del defunto imperatore austro-ungarico Francesco Giuseppe, fece balenare ipotesi di contatti preliminari per concludere la guerra, a cui si unirono Germania e Stati Uniti ed anche il Primo Ministro inglese Lloyd George e Bissolati. Ci fu anche l’intromissione del Papa Benedetto XV che, con la lettera ai capi di popoli belligeranti, tentò di invitare ad un confronto per il ritorno alla pace ma i generali francesi, i comandi inglesi e Sonnino e Cadorna la pensavano in modo diverso. E si perse l’opportunità di impostare trattative serie che evitassero le tragedie del 1917 e del 1918. Il 1917 deve essere considerato l’anno decisivo comunque per le sorti dell’Europa e per le grandi novità, di cui furono poste le basi e che condizioneranno il futuro assetto geopolitico del mondo: ad ottobre finì in Russia la stagione degli Zar e iniziò la dittatura del proletariato, con protagonista Lenin che condizionerà la politica globale, aprendo la strada alle ideologie di sinistra. Gli Stati Uniti entrano nel conflitto e per la prima volta questo Paese uscì dai propri confini. Ecco, basterebbero solo questi due fattori per comprendere come questo anno abbia segnato i destini del mondo nel ventesimo secolo. Il conflitto in questo anno subì delle accelerazioni improvvise e l’Italia subì l’onta di Caporetto, un disastro al limite del collasso, ma anche momento di forte unità del Paese che ne indusse una grande capacità di reazione.

    PESCARA, GIOVEDÌ 3 MAGGIO 1917

    Quel profumo all’improvviso richiamò la sua attenzione: profumo di pane che aveva invaso il tratto di strada di quel borgo di case vecchie, da sempre raggruppate in un lembo di territorio, ma che da qualche decennio si stava espandendo verso sud. Quel borgo lo avvolgeva. E dopo un’assenza di oltre un anno, camminare per quella strada, per Corso Manthonè che da ragazzo lo aveva visto protagonista di scorribande con i suoi coetanei, gli aveva dato la possibilità per un attimo di riassaporare profumi dimenticati, anche se a quell’ora della giornata era ormai invaso, come accadeva ogni giorno, dai miasmi della residuale palude.

    Ma il forno Flaiano, tuttavia, mitigava il disagio inondando tutti i vicoli del profumo del pane appena sfornato; era la seconda cottura. La prima avveniva alle sei. E poi c’era la seconda, appunto, quella delle undici. Era il forno più antico di Pescara. I miasmi della palude e il profumo del pane si contendevano la supremazia dell’attenzione.

    Ma Gabriele De Marinis quella mattina non riusciva a distaccarsi dall’inebriante profumo che era avvolgente, metteva allegria e calore e gli rammentava i giorni della fanciullezza.

    Il giovane pescarese Gabriele Stella Renato De Marinis era nato a Pescara il 30 luglio 1896, da Nicola De Marinis e Annina D’Annunzio. Volontario ordinario, arruolato il 16 ottobre 1914 per tre anni nel Reggimento Cavalleggeri di Lodi con matricola 40380. Abitava a Pescara, nel Largo Panificio n.1 ed era figlio di Anna la sorella di Gabriele D’Annunzio, di cui era il nipote preferito perché portava il suo nome, ma soprattutto perché lo aveva battezzato.

    La sorella Anna era la più anziana, era nata nel 1859, e Gabriele D’Annunzio le era molto legato e rimase straordinariamente colpito quando morì nell’agosto 1914. Il Vate in occasione della prima gravidanza della sorella le dedicò un sonetto, inviato come fosse una normale lettera:

    Quant’è bbelle lu juorne de Sant’Anne

    Quant’è bbelle lu juorne de Sant’Anne,

    la sante che prutegge la panzette!

    E già m’a l’ome ditte, e nen m’inganne,

    ca lu bustine già t’arrevà strette!

    Arcuójete su cunte: prime d’anne

    cacche quadrare bbelle le prumette

    su matrimonie vostre senz’affanne.

    Che Di’ le benediche, sa crapette!...

    Sant’Anne mè, tu a sta sposa belle

    fàjjela scì senza che se n’addone,

    falle fetà sotta a ’na bona stelle,

    e che facce nu bbelle cucciulone

    c’a da tené na bbelle piccarelle

    sopra nu belle pare de fasciulone.

    Gabriele, mentre era preso dal profumo del pane, vide uscire dal forno una giovane con in testa una cesta piena di pagnotte: era Laura Massimi. La rivide dopo oltre un anno. Aveva avuto con lei una storia d’amore profondamente coinvolgente, ma il carattere possessivo della ragazza e, sembra, l’avvio di una relazione con un altro giovane, aveva indotto Gabriele a staccarsene e la partenza per il fronte albanese aveva facilitato il distacco e il disinnamoramento.

    La giornata era calda, anche se era l’inizio di maggio, e assolata. Gabriele, che preferiva il freddo, avrebbe desiderato un’altra circostanza per incontrarla: nel borgo, poi, il caldo si avvertiva ancora più pesantemente. Fino alla fine dell’Ottocento, quando Pescara conservava ancora le mura della cinquecentesca Piazzaforte spagnola, accadeva che, da mezzogiorno, non spiravano più le correnti e dentro le mura il caldo diveniva insostenibile, amplificando i miasmi che inondavano tutti i vicoli. Non c’era ricambio. E lì, la calura determinava una condizione di incredibile invivibilità. Ora, senza le mura e con la città che iniziava a svilupparsi oltre quel perimetro, la situazione stava diventando più vivibile. In quel momento, però, prevaleva su tutto la fragranza che si sprigionava dal forno dei Flaiano. E poi, quell’apparizione. Sempre in quel suo perfido splendore, con lo sguardo tagliente, che trafigge appena gli occhi ti sfiorano. Ti trafigge il cuore: pensò Gabriele. Ella aveva i capelli sciolti a coprire in parte quelle fossette che dominavano il viso. Capelli scuri. Occhi da cerbiatto. Fascino truce e duro. In quell’attimo i desideri e le amarezze fecero capolino nell’anima del giovane. Ripercorse tutte le fasi della loro relazione. Era una bella donna, ma quel carattere così assurdamente geloso e possessivo e poi quel probabile tradimento, avevano reso impossibile la prosecuzione del rapporto.

    Ed egli, lì, in quell’attimo ad interrogarsi.

    Sul perché di quel casuale incontro. Inutile. Futile. Equivoco.

    Ancora lì, però. E si interrogava. E si chiedeva. E si giustificava.

    È bella. È coinvolgente, pensò in quell’attimo.

    Ciao. Come va? È da tanto che non ci vediamo!

    Pensi?, gli rispose ritieniti fortunato. Oggi mi vedi, cosa vuoi?.

    Pensò: Ora le urlo in faccia tutta la mia rabbia!.

    Ma poi, si fermò. C’era gente che stava in strada e i due stavano davanti al Ristorante Duilio, di fronte alla Caserma borbonica.

    Nell’attimo del mancato urlo, mille idee, confuse, l’assalirono.

    Vado via, pensò e le voleva gridare: Perfida.

    Ormai, l’idea dell’urlo era stata accantonata, e non solo per la presenza della gente. Era più forte di lui. Non avrebbe mai usato simili atteggiamenti con qualsiasi donna.

    Anche se quel comportamento era inaudito e fuori da ogni logica.

    Si girò e se ne andò!

    Si incamminò lungo la strada che costeggiava la caserma. Senza girarsi. Lei rimase un attimo esterrefatta perché, forse, non si aspettava quella reazione. Non ebbe il coraggio di chiamarlo. Forse avrebbe voluto: ma non poté. L’orgoglio la trattenne.

    Con passo veloce, Gabriele raggiunse la strada che costeggiava la casa di Gabriele D’Annunzio e che conduceva verso la piazza principale del borgo, Piazza Garibaldi. Girò nel vicolo e scomparve alla vista. Non riusciva a trattenere la rabbia per quel comportamento così assurdo, immaturo. L’aveva desiderata. Fortemente. Con ardore. Con passione. E lei, impermeabile, ma follemente innamorata. Intanto, dalla Caserma erano usciti dei soldati per un pattugliamento. Lei si trovò in mezzo al plotoncino. Tutti la guardarono con attenzione. Qualcuno, con atteggiamento un po’ rozzo. Si allontanò appena ebbe la chiara sensazione di essere oggetto di quelle particolari attenzioni da parte dei soldati. Percorse la stessa strada di Gabriele e girò dove lui aveva voltato, senza rendersene conto. Se lo trovò dinanzi. Sussultò. Gli sguardi si incrociarono.

    Il silenzio si impadronì di quel lungo, interminabile attimo. All’improvviso. I due rimasero muti. Tutt’intorno il rumore fragoroso dei militari rimbalzava lontano. Le grida, il rincorrersi e gli schiamazzi dei ragazzi che giocavano nei vicoli, erano distanti dai due che si erano rinchiusi nei loro silenzi. E i loro sguardi provocarono un fragore incredibile nei loro cuori. C’era la passione, ma, forse, lei voleva altro. E Gabriele non sopportava la gelosia né la perfidia. E poi, quelle chiacchiere su una relazione di Laura con un giovane pescarese, mai verificata: ma la gente mormora e poi amplifica e quindi per Gabriele era stato impossibile constatare la veridicità di quel mormorio che era divenuto fragoroso.

    Ognuno proseguì per la propria strada, senza salutarsi. Fu la fine.

    Gabriele De Marinis, che dal marzo del 1916 era stato mandato in Albania per quell’operazione umanitaria, successivamente trasformatasi in un’operazione di occupazione, ebbe un colpo diremmo di fortuna: nell’aprile del 1917 fu rimandato a casa perché contagiato dalla malaria. Per molti giovani partire volontari era un modo per trovare lavoro. Per altri, era un modo per servire la patria nel momento della necessità: poi, però, di fronte all’allucinante condizione del fronte, una malattia era davvero un colpo di fortuna.

    Abitava a Pescara, dov’era nato, città che alla fine dell’Ottocento aveva provveduto a radere al suolo la Piazzaforte che per oltre tre secoli aveva condizionato la vita dei pescaresi che si sentivano reclusi. Nella seconda metà del 1500 gli spagnoli, per tutelare il confine settentrionale del Regno di Napoli, rappresentato dal fiume Tronto, realizzarono una piazzaforte inglobando l’abitato di Pescara, il cui porto aveva rappresentato nel corso dei secoli un approdo di grande importanza come porto di Roma sull’Adriatico. Infatti, dal ‘43 dopo Cristo era stata sistemata la strada di collegamento tra Roma ed Ostia Aterni, anche se fino a Carsoli la strada era già lastricata da tempo, ma fu l’imperatore Claudio Tiberio Druso a decidere di renderla percorribile fino al Porto di Aterno, che nei secoli successivi divenne Pescara.

    Il toponimo Aterno derivava dal termine latino Ater, scuro, ed era la colorazione che assumeva il fiume a causa del petrolio e del bitume che dalle alture della Vallata si infiltravano negli affluenti del fiume stesso, determinandone la colorazione scura.

    Successivamente la denominazione dell’abitato, in epoca Longobarda, divenne Piscaria, per poi diventare Pescara, e tale fu la denominazione al tempo degli spagnoli.

    La Piazzaforte ovviamente era importante, essendo la prima struttura difensiva a livello costiero che si incontrava dopo il Tronto, a controllo quindi della litoranea adriatica.

    I pescaresi vissero con enormi difficoltà quella presenza, fatta di contaminazioni, in quanto i mille abitanti della cittadina vennero rinchiusi in una struttura mastodontica e inaccessibile e furono in continuo contatto con i vari eserciti che transitarono e si stanziarono al suo interno, dagli spagnoli agli austriaci, dai francesi ai vari soldati dell’Italia meridionale. Pertanto, Pescara anche se rinchiusa in tale struttura, fu una realtà fortemente contaminata, con una strutturazione meticcia.

    Dopo il primo decennio del Novecento, dopo l’abbattimento totale della Piazzaforte, la città si era messa in movimento sia sotto l’aspetto urbanistico, aprendo degli assi verso sud, che sotto l’aspetto socio-economico e culturale, con la realizzazione di importanti infrastrutture, dal Teatro Michetti al Kursaal nell’area della Pineta, dall’acquedotto al Grand Hotel Pescara, sino all’importante avvio dei lavori per la realizzazione della golena fluviale. Però, la grande opera fu l’eliminazione, o il tentativo di eliminazione, delle residue aree paludosi e malariche, di cui aveva parlato nelle sue opere anche Gabriele D’Annunzio.

    CASTELLAMARE, VENERDÌ 4 MAGGIO 1917

    Gabriele, rimandato a casa perché contagiato dalla malaria, aveva ottenuto una convalescenza di tre mesi per curarsi. Le epidemie e le varie malattie rappresentavano per i soldati un’opportunità per tornare a casa e stare per qualche tempo lontani dai pericoli, dalle trincee e dall’invivibilità del fronte.

    Appena tornato a Pescara, i familiari si misero immediatamente al suo servizio: il caldo, le medicine, tutte le attenzioni per ridare forza a Gabriele che era smagrito e le sorelle e le zie, Elvira ed Ernestina, preoccupate, gli avevano immediatamente cucinato le pietanze che sua madre, Anna, morta il 9 agosto del 1914, gli avrebbe preparato. Tre mesi di convalescenza erano tanti e quindi vi era la possibilità di rimetterlo fisicamente a posto: ovviamente era impensabile che il giovane rimanesse rintanato in casa e così, all’inizio di maggio, con il miglioramento delle condizioni climatiche e l’aumento della temperatura, nelle tarde mattinate, quando il sole aveva riscaldato l’aria, egli iniziò a girovagare per la città.

    Era il 4 maggio 1917 e Gabriele, che in casa era chiamato bebè, continuava a godersi la licenza. Il giorno prima era avvenuto il fortuito incontro con Laura, la sua ex fidanzata. E mentre vagabondava per le vie del borgo di Pescara, senza una meta precisa per incontrare i posti e gli amici di sempre, pensava ancora all’incontro del giorno prima. Basta, disse ad alta voce, come se volesse esorcizzare quel ricordo, come se volesse imporsi di dimenticare e di scrollarsi di dosso la tensione dell’incontro, ma non era facile. Voleva godersi fino in fondo i sapori di quella mattina primaverile. Gli sembrava di essere rinato, dopo l’allontanamento dal fronte albanese, dove il pericolo non era insito solo negli eventi militari, ma soprattutto nelle avverse condizioni igienico-sanitarie. Giunse alla fine di Corso Manthonè, nel tratto di Piazza Garibaldi, dinanzi alla casa dei nonni, entrambi morti. Era rimasto colpito dalla recente scomparsa della nonna Luisa De Benedictis, avvenuta il 27 gennaio del 1917, circostanza in cui per l’ultima volta lo zio Gabriele era stato a Pescara. Da quel giorno nell’abitazione era rimasta solo Marietta, la governante da sempre di Casa D’Annunzio.

    Il Vate nel 1897, l’anno dopo la nascita del giovane De Marinis, aveva abbandonato la città e vi era tornato per qualche giorno in quattro circostanze: un giorno il 24 giugno 1904, tre giorni nel marzo del 1910 e nel maggio 1915 quando era andato a salutare la madre prima di dedicarsi agli eventi bellici, e nel gennaio del 1917, in occasione della scomparsa di donna Luisa e quindi il nipote non aveva avuto modo di incrociarlo, anche se, in quelle rare visite a casa, Gabriele D’Annunzio amava farsi vedere nella Piazza Garibaldi antistante la sua abitazione per salutare e abbracciare gli amici di sempre e salutare i parenti e le sorelle, soprattutto Anna, la madre di Gabriele De Marinis.

    Da tanto tempo Gabriele De Marinis non era più entrato in casa dell’illustre zio. Entrò senza bussare: la porta era aperta. Un edificio che altri avrebbero considerato una casa vecchia da abbattere e invece, con i segni del tempo, con i fregi, con gli stucchi, era un emblema di quella parte del borgo che, nel Settecento, aveva conosciuto un nuovo sviluppo.

    La famiglia di suo nonno aveva anche un’altra abitazione a Villa del Fuoco, una frazione che distava qualche chilometro da Pescara ed in cui, nel corso del Settecento, si erano sistemate le famiglie più ricche che continuavano, però, ad avere le attività e l’abitazione di famiglia a Pescara. Per altre, invece, quelle case erano rifugi estivi.

    A Gabriele, appena entrato nell’atrio, grande, spazioso, ricco di decorazioni, sembrò di essere avvolto dal dolce tepore del tempo: era come se avesse improvvisamente indossato uno di quei vecchi cappottoni trovato nella polverosa soffitta, che suo nonno aveva indossato tante volte nella sua vita fino a consumarlo. Quella vecchia casa gli dava calore e gli faceva avvertire emozioni e sensazioni che solo il tempo riesce a produrre. Non tirava un alito di vento e le finestre aperte che, solitamente col vento battevano ad ogni spiffero, quella mattina erano silenziose. Era da tempo che ciò accadeva, ma nessuno aveva voluto metterci riparo, tanto che quei rumori continui e costanti erano diventati sottofondo di quel tratto del borgo e sembrava che ritmassero il tempo che passava. A Gabriele pareva quasi di aver rincorso e ripreso il lungo momento che gli era sfuggito. Era partito a meno di 17 anni, dopo la morte della madre, ed ora quelle settimane di convalescenza gli offrivano la possibilità di riabbracciare i parenti, di incontrare gli amici, di vagare per i luoghi di sempre, cioè in quelle tre strade e due piazze che avevano caratterizzato Pescara per secoli. Una giornata primaverile che faceva profumare quei luoghi di fiori di arance, di liquirizia e di mirto: le piante che davano vita a quei posti paludosi, acquitrinosi, difficili da vivere almeno fino alla fine dell’Ottocento. Il contrasto tra quelle piante che davano gioia e profumo e i miasmi era terribilmente evidente. E poi c’era quell’immensa pineta, quasi a proteggere l’abitato dal mare e dai venti. A ripararlo. L’abbondanza di liquirizia aveva indotto i più poveri della cittadina ad utilizzare quelle piante come legna da ardere. E la povertà era palese, si palpava. Gabriele De Marinis era invece di famiglia ricca, di quella nuova borghesia emergente e il nonno era stato Sindaco di Pescara. Girando per la casa deserta, perché Marietta era uscita, vide sulla stufa a legna una teiera, un semplice contenitore

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