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Eppur si muove
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Eppur si muove

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Un processo e una condanna ingiusta della verità scientifica: si parla di Galileo Galilei e dell’umiliante abiura cui fu costretto in seguito alla pubblicazione del Dialogo. L’episodio storico che ha portato il grande scienziato all’iniquo processo e all’assurda condanna davanti ai giudici dell’Inquisizione può essere riletto come una condanna alla verità scientifica, al vero che Galilei professava con le sue scoperte. Questa è la storia, romanzata, di un processo e di un uomo geniale, seguendo le fonti dell’epoca, nei suoi anni forse più bui, circondato da personaggi immaginati secondo gli usi e i costumi dell’epoca.

Giorgio Bianchi è nato a Varese nel 1938. È laureato in Economia e Commercio. Ha ricoperto per diversi anni le cariche di direttore finanziario e di amministratore, dapprima presso una società industriale multinazionale e in seguito per un gruppo di società di servizi quotato in borsa.
Ha insegnato Diritto commerciale, Revisione aziendale e Risk management presso l’Università Cattolica di Cremona e l’Università Cattolica di Piacenza. Ha ottenuto recentemente la laurea magistrale in Psicologia.
Ha pubblicato una ventina di volumi, di contenuto professionale (economia e diritto). Ha pubblicato opere di narrativa che hanno ricevuto numerosi primi premi. Con Europa Edizioni ha pubblicato il romanzo Quel che viene donato, premio speciale al concorso di Assisi, Amici dell’Umbria.
LanguageItaliano
Release dateOct 31, 2022
ISBN9791220134514
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    Eppur si muove - Giorgio Bianchi

    1. Dieci giudici. Il processo. Padre Maculano. L’interrogatorio. Il latino.

    Il silenzio nella vasta sala poco illuminata è irreale. I dieci giudici dell’Inquisizione in abito cardinalizio e il notaio vestito di nero hanno un aspetto austero, come fossero chiamati a giudicare fatti gravi da cui dipendono i destini dell’umanità.

    L’intento di rendere l’atmosfera severa e intransigente ha sorpassato il segno creando un ambiente lugubre e cupo.

    L’Inquisizione è l’alto Tribunale della Chiesa Cattolica. È stata in funzione per tutto il Medioevo. Agisce in segreto, per mezzo di agenti operanti in città cattoliche, sottopone a indagini, processa e condanna chiunque sia sospettato di eresia, cercando di estinguerla prima che possa diffondersi tra i fedeli. Collabora con la Congregazione dell’Indice dei libri proibiti. Nessun libro può essere pubblicato senza un’apposita autorizzazione. Le condanne vengono pronunciate anche sulla base di sospetti: non sono le prove a decidere ma il convincimento dei giudici, anche se non unanime.

    Per le pene capitali, generalmente consistenti nel rogo in una pubblica piazza, occorre l’assenso del Papa, che non ha, non essendo membro del collegio dei giudici, motivi validi per negarlo. Il condannato viene consegnato al braccio secolare e la sentenza viene eseguita in tempi brevissimi. Negli ultimi anni sono aumentate: l’imputato è costretto a confessare sotto tortura i delitti di cui è sospettato e in base alla confessione è sottoposto alla pena adeguata.

    Il processo che inizia questo giorno, il 12 aprile 1633, è stato preceduto da molte discussioni e dubbi: l’imputato è molto conosciuto e apprezzato nel mondo scientifico. Si deve procedere con cautela per non suscitare reazioni negative nelle numerose personalità che lo conoscono per le sue scoperte.

    I giudici sono seduti dietro la cattedra sulle loro sedie dagli schienali esageratamente alti ed esaminano con sguardi duri l’uomo seduto su uno scranno con la testa abbassata, confuso e umiliato dalla condizione a cui viene sottoposto.

    Alle sue spalle due guardie armate l’hanno scortato fino alla tetra sala il cui soffitto è così alto da essere quasi invisibile alla scarsa luce delle fiaccole, disposte ai lati della lunga cattedra coperta da un drappo nero.

    Rompe il silenzio la voce inflessibile del Commissario generale del Sant’Uffizio, padre Vincenzo Maculano di Firenzola, un uomo dall’aspetto ascetico e severo, con un’improbabile lunga capigliatura, forse dovuta a una parrucca. Dopo aver puntato un dito verso l’uomo seduto di fronte, chiede: «Alzatevi e dichiarate le vostre generalità».

    «Sono Galileo Galilei, del fu Vincenzo, fiorentino, di anni settanta.»

    Lo scienziato è un uomo massiccio. Il viso è quasi interamente coperto dalla barba che sotto il mento è lunga fino ad arrivare al petto. I capelli, scomparsi nella parte anteriore della testa, sono bianchi, ma conservano ancora qualche ciocca rossiccia. Il viso largo evidenzia un aspetto pallido e sofferente. Gli occhi scuri sono mobilissimi e attenti. Gli sguardi gravi fissi su di lui lo sgomentano.

    «Verrete sottoposto a interrogatorio, in nome di Dio. Giurate di dire la verità?»

    «Giuro.»

    «Leggete la formula.»

    Gli viene fornito un foglio: vi figura una croce e poche parole: «Giuro di dire la verità e di rispondere a tutte le domande senza nascondere alcun fatto a me noto».

    «Galileo, come siete arrivato a Roma?»

    «Sono giunto in lettiga.»

    «È uno strano modo di viaggiare. Come mai in lettiga?»

    «Le mie condizioni di salute non mi permettono di utilizzare una comune vettura, me ne occorre una provvista di lettiga.»

    «Da quanto tempo siete a Roma?»

    «Dalla prima domenica di Quaresima.»

    «Siete venuto spontaneamente o vi è stato ingiunto di presentarvi?»

    «Il padre Inquisitore di Firenze mi ha ordinato di venire a Roma e presentarmi al Sant’Uffizio.»

    «Quando siete venuto a conoscenza di quest’ordine?»

    «A febbraio di quest’anno.»

    «A febbraio? Ormai siamo in aprile, non sembra siate stato molto sollecito.»

    Il tono è di rimprovero. Si volge verso gli altri giudici per sottolineare la sua disapprovazione.

    «Per l’epidemia di peste, sono stato trattenuto a Ponte a Centina in quarantena.»

    Padre Maculano si rivolge agli altri giudici, parlando a bassa voce. Evidentemente vuole accertarsi che la giustificazione fornita sia fondata, poi prosegue: «Non avete ritenuto opportuno avvertire il Sant’Uffizio del ritardo? Non avete pensato che qui vi si attendeva da tempo?»

    L’interrogato non risponde. L’atteggiamento del prelato è provocatorio, sembra diretto a confondere e a mettere in soggezione lo scienziato. Dopo aver allargato le braccia, quasi a voler sottolineare l’atteggiamento irrispettoso, padre Maculano prosegue l’interrogatorio:

    «Galileo, siete a conoscenza del motivo per cui vi è stato ordinato di presentarvi?»

    Lo scienziato ufficialmente non lo sa. L’invito a comparire davanti al tribunale non portava nessuna motivazione; risponde: «Non lo so con precisione, ma immagino che sia a causa del mio libro stampato ultimamente».

    «Volete dirci di che cosa tratta quel libro?»

    «Tratta della costituzione del mondo e dei due massimi sistemi della disposizione dei cieli.»

    «Se questo libro vi venisse mostrato, sareste pronto a riconoscerlo come vostro?»

    «Certamente sì.»

    Una copia del Dialogo viene presentata a Galileo. Gli basta osservarlo distrattamente e sfogliare qualche pagina per affermare: «Riconosco benissimo questo libro. È stato stampato a Firenze e io ne sono l’autore».

    «Ammettete quindi come vostre tutte le affermazioni che vi sono contenute.»

    «Le riconosco come mie.»

    Segue una lunga discussione tra i giudici. Padre Maculano contesta la verbalizzazione fatta dal notaio: vuole che siano riportate le parole esatte pronunciate dallo scienziato. Poi prosegue con l’interrogatorio: «Di solito i trattati scientifici sono scritti in latino. È il linguaggio comune della scienza. Come mai vi siete risolto a scriverlo in volgare?».

    «Ho cominciato ad annotare degli appunti, naturalmente in volgare. In seguito ho mantenuto la stessa lingua nella stesura del libro. Mi è sembrata più opportuna per illustrare meglio alcuni aspetti. Certi termini sconosciuti ai latini si prestano meglio a comprendere il significato del discorso.»

    «Il latino è la lingua dei dotti. La materia trattata dovrebbe essere rivolta solo a loro. Ma voi l’avete redatto in volgare. L’avete fatto per rendere possibile anche al volgo la comprensione del libro? Per assicurare una maggior diffusione?»

    Galileo risponde senza esitazione: «Non mi sono mai preoccupato della diffusione del libro. Altri scritti li ho formulati in latino».

    «Sappiamo che finora avete sempre formulato le vostre ipotesi in latino. Perché questo sia stato scritto in volgare resta un mistero. Neppure voi sapete dare una spiegazione credibile.»

    «La spiegazione è quella che ho detto. Non pensavo che potesse essere motivo di censura.»

    «Non è la lingua utilizzata a essere in discussione. Potrebbe esserlo il contenuto, cioè le teorie sostenute. Questo tribunale non si è mai occupato di problemi linguistici, è piuttosto attento che i concetti divulgati non possano costituire motivo di eresia.»

    «Nel mio libro si trattano argomenti scientifici, del tutto inidonei a formulare idee eretiche.»

    «È quello che tenderà ad accertare questo tribunale. Il sospetto sussiste. Se non fosse così non si giustificherebbe la vostra convocazione in questo luogo.»

    A Galileo la parola sospetto provoca una nuova agitazione: sa bene che le decisioni dell’intransigente tribunale si basano spesso anche su semplici sospetti. Cerca di assumere un atteggiamento collaborativo: «Cercherò di fugare ogni dubbio. Sono pronto, se voi me lo chiederete, a rendere più esplicite le affermazioni contenute nel testo, perché sia possibile a chiunque comprenderne il vero significato».

    «Conosciamo il testo. Non siamo a un convegno scientifico in cui ciascuno debba dibattere il proprio punto di vista o addurre prove alle sue conclusioni. Desistete quindi dal proporre una esposizione esegetica di quanto avete scritto. L’esame cui verrà sottoposto il libro riguarda unicamente la sua difformità dalle Sacre Scritture. La colpa che viene contestata a chi si presenta davanti a noi è solo e sempre quella. Limitatevi quindi a rispondere alle domande che permettano a questo tribunale di accertare se tale orribile delitto è stato commesso.»

    Anche delitto non sembra pronunciato a caso: padre Maculano calca la voce sulla parola.

    «Sono pronto a rispondere a qualunque chiarimento. Vi assicuro fin d’ora che non ho mi avuto intenzioni in quel senso.»

    I giudici riprendono a discutere tra loro. Alcuni sembrano dissentire dalle conclusioni che vengono tratte in quel momento dall’esito delle risposte dell’imputato. Padre Maculano fatica a mantenere l’ordine degli interventi.

    Il più critico sembra un cardinale seduto all’estremità della lunga cattedra. Si alza dal suo posto e si pone davanti a padre Maculano, voltando le spalle a Galileo, che non riesce a capire che cosa stia dicendo.

    Viene ordinata una pausa del processo. I giudici si ritirano. Galileo resta in aula, sempre più turbato per la strana situazione in cui è capitato. Rimane solo con i suoi pensieri, preoccupato per gli sviluppi che va assumendo la sua posizione nei confronti del Tribunale.

    2. Il Dialogo. Sagredo, Salviati e Simplicio. Aristotele. Il moto di rotazione e il moto di rivoluzione.

    Quale è stato il libro che ha trascinato Galileo Galilei davanti al tribunale speciale dell’Inquisizione? Si tratta del volume intitolato Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano scritto sotto forma di colloquio fra tre personaggi riuniti per quattro giornate di discussioni intorno alla teoria di Copernico.

    I tre personaggi sono: due amici di Galileo, Sagredo e Salviati, che è l’io narrante e rappresenta lo stesso Galileo, e Simplicio, un personaggio immaginario, chiaramente il più sprovveduto di tutti, che sostiene con argomentazioni banali la teoria di Tolomeo, cioè del moto del Sole intorno alla Terra.

    I nomi di Sagreto e Salviati non sono inventati: entrambi sono stati amici di Galileo. Soprattutto con Sagredo lo scienziato ha mantenuto un lungo rapporto di amicizia. Di qualche anno più giovane di Galileo, Sagredo apparteneva a una nobile famiglia veneziana. Per Galileo nutriva grande ammirazione e affetto e usò più volte la sua influenza per migliorare la posizione del giovane insegnante, durante la sua permanenza all’Università di Padova. Era sempre pronto anche a partecipare assieme all’amico a divertimenti, a scherzi e a scappatelle, di cui Galileo avrà per tutta la vita nostalgici ricordi. Conserverà intatto il dolore per la morte prematura dell’amico.

    La distribuzione delle parti nel Dialogo (riservando quella di contrarietà alla tesi copernicana al più ingenuo e sciocco degli interlocutori) dimostra chiaramente da che parte stia Galileo: non c’è dubbio che sostenga la teoria eliocentrica secondo la quale è la Terra a girare intorno al Sole e non viceversa e che il libro intenda dimostrarlo.

    Lo scritto inizia con un prologo in cui l’autore plaude diplomaticamente alla censura anticopernicana della Chiesa del 1616 quel salutifero editto, che, per ovviare ai pericolosi scandali dell’età presente, imponeva opportuno silenzio all’opinione della mobilità della Terra, definendola una prudentissima determinazione di cui dichiara di aver ricevuto antecedente informazione.

    Giustifica il proprio scritto come un modo di far vedere al resto d’Europa, dove si muovevano accuse d’ignoranza alle gerarchie ecclesiastiche, che a Roma come altrove si potevano trattare certe materie scientifiche con cognizione di causa.

    Galileo conclude riprendendo il motivo (caro al papa Urbano VIII) dell’incertezza delle conoscenze umane, sottoposte all’incognita del libero e onnipotente volere di Dio.

    Inizio evidentemente scritto per tentare di predisporre misure difensive contro eventuali attacchi delle autorità ecclesiastiche, senza riuscire tuttavia a mascherare la sottile ironia di alcune osservazioni.

    Gli interventi di Sagreto e Salviati contestano alcuni capisaldi della dottrina aristotelica e tolemaica. Mentre i cieli si muovevano per Aristotele secondo un moto circolare non soggetto a modificazioni, nella materia terrestre erano presenti solo moti rettilinei. Nella cosmogonia sostenuta da Salviati, la Terra condivide con tutti gli altri «globi» del sistema solare il moto circolare che conserva l’ordine del cosmo.

    Alla mobilità terrestre lo sprovveduto Simplicio contrappone confusamente le tesi aristoteliche sul moto rettilineo degli elementi (terra e acqua verso il basso, fuoco e aria verso l’alto) e l’immobilità della Terra al centro dell’universo. Ma Salviati spiega quegli stessi fenomeni con la teoria copernicana della gravità, secondo cui le parti di tutti i pianeti tendono a dirigersi verso il proprio centro.

    Oppone Simplicio la distinzione aristotelica tra la materia celeste perfetta e incorruttibile e quella terrestre esposta a mutamenti, derivandone un argomento contrario alla mobilità della terra.

    Salviati e Sagredo contestano l’immodificabilà dei cieli, citando i riscontri empirici che la smentiscono: la comparsa di stelle novae e comete, l’osservazione delle macchie solari, evidenti mutamenti della sfera celeste. Inoltre la similitudine fra Terra e Luna, inequivocabilmente osservata al telescopio, nega la presunta differenza radicale tra il nostro pianeta e gli altri astri.

    Tema principale della seconda giornata è il moto di rotazione diurno della Terra. Salviati espone che una rotazione su se stesso del nostro pianeta è più plausibile rispetto a una circonvoluzione dell’intera immensa sfera celeste che dovrebbe essere rapidissima, per completare il ciclo in sole ventiquattro ore; inoltre se la terra fosse immobile, il moto della sfera celeste dovrebbe essere da est a ovest, ma i pianeti procedono da ovest a est come si muove la Terra. Da ciò, conclude Salviati, non si ottengono prove certe del moto diurno della terra ma considerazioni che lo rendono non del tutto improbabile.

    Vengono poi confutate le argomentazioni contrarie sostenute da Aristotele e Tolomeo i quali, a riprova dell’immobilità della Terra, affermano che il comportamento dei corpi in caduta, in caso di movimento della Terra, non dovrebbe essere quello che si verifica nella realtà: un sasso lasciato cadere da una torre non atterrerebbe ai piedi dell’edificio ma spostato a Oriente perché, nel tempo impiegato a cadere, la Terra si sarebbe già spostata. Salviati sostiene sulla base dell’esperienza che le prove degli anticopernicani sono false, perché un peso caduto dall’albero di una nave batte nello stesso punto sia che la nave si muova, sia che stia ferma. Chi stia all’interno di un certo sistema di riferimento (sia una nave o sia la Terra) non è in grado di stabilire se il sistema di cui è parte sia in quiete o in movimento, perché il suo eventuale moto resta impercettibile per le sue singole parti, che si muovono con lui.

    La giornata si conclude con il tentativo di Simplicio di negare i movimenti della Terra in quanto si registrerebbero in superficie dei venti impetuosi causati dal moto diurno della Terra e produce, infine, il più ingenuo argomento secondo il quale la Terra, essendo un essere vivente, dovrebbe ogni tanto riposarsi, fiaccata da questo moto perpetuo.

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