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La Figlia Del Re - 2. L'Ombra Nascosta Del Faraone
La Figlia Del Re - 2. L'Ombra Nascosta Del Faraone
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Ebook361 pages4 hours

La Figlia Del Re - 2. L'Ombra Nascosta Del Faraone

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About this ebook

Inaspettatamente, Kazimierz Kornick riceve un papiro che narra l’infanzia della figlia di Tutankhamon, faraone d’Egitto. Da quel momento, persone prive di scrupoli cercheranno di impossessarsi del prezioso cimelio per farne merce di scambio. Richard Bernwell e Mary Jones sono chiamati a compiere un’ardua missione che potrebbe stravolgere il corso della storia. In un crescendo di tensione e colpi di scena, il lettore sarà indotto a restare incollato al libro fino all’ultima pagina. 

Gianni Montalto è nato a Formia il 16 dicembre 1961. 
Da sempre attratto dai fasti dell’antico Egitto, L’ombra nascosta del faraone è il seguito del suo romanzo d’esordio (Il manoscritto), ed entrambi fanno parte della mini-saga de La figlia del Re. Il finale inaspettato potrebbe costituire il preludio a una nuova e avvincente avventura.
LanguageItaliano
Release dateOct 31, 2022
ISBN9791220134361
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    La Figlia Del Re - 2. L'Ombra Nascosta Del Faraone - Gianni Montalto

    Nota dell’autore

    Alcuni luoghi indicati nel romanzo sono frutto

    della pura immaginazione e i riferimenti

    a fatti realmente accaduti

    sono citati per specificare il periodo storico cui essi si correlano per dare risalto alla narrazione.

    L’omonimia e/o il ruolo rivestito da taluni personaggi,

    rispetto a persone realmente esistite o ancora in vita,

    sono assolutamente casuali.

    Personaggi principali e ruoli

    (in ordine alfabetico)

    1

    Kazimierz Kornick, assurto alle cronache per aver abbandonato il palco durante un convegno al British Museum, dopo aver salutato il corriere che gliel’aveva recapitato, esaminò a dovere il pacco che teneva tra le mani. Lo soppesò cercando di intuirne il contenuto, senza tuttavia riuscirvi. Recava il timbro postale del Cairo, ma era privo dell’esatto indirizzo di origine. Lo colse un presentimento e quando lesse il nome del mittente ne ebbe la conferma: Lester Davis.

    Ancora lui! Ma allora è una persecuzione! Ora che ci sarà qua dentro? Ricordini dei templi di Luxor e Karnak? ironizzò.

    Qualcuno l’aveva preventivamente avvisato dell’arrivo di un altro plico e il ricordo di quell’anonima telefonata lo inquietò. Su quell’involucro, ricevuto alcuni giorni prima, era impresso il sigillo dell’ambasciata degli Stati Uniti di stanza al Cairo.

    La dogana e la polizia di Washington poterono ispezionarlo previo consenso del destinatario e in presenza di questi. Al suo interno vi trovarono solamente riproduzioni scadenti della sfinge e delle piramidi, mentre quello attuale ne era sprovvisto, nonostante il nome del mittente fosse lo stesso della volta precedente.

    Kazimierz aveva spiegato alle autorità di non aver mai conosciuto personalmente Lester Davis - segretario particolare dell’ambasciata statunitense presso la capitale egiziana - e di averne appreso il nome e l’incarico rivestito soltanto dai notiziari dopo il suo assassinio.

    Sull’omicidio indagava la polizia del Cairo. Se ne stava occupando anche una delegazione nominata dal Presidente degli Stati Uniti e l’FBI, attesa la mansione conferita alla vittima.

    Il capo della polizia di Washington, Robbie Keller, dopo aver avuto l’assenso della superiore gerarchia, rese partecipe l’ambasciatore americano al Cairo, Wilson Martin, degli esiti ispettivi sul primo pacco e quest’ultimo, a sua volta, ne informò i delegati presidenziali e i funzionari dell’FBI incaricati.

    Appena in casa, Kornick posò il pacco sul tavolo del salotto. Esitò, poi lo aprì. Strabuzzò gli occhi dalla sorpresa e le parole gli si strozzarono in gola quando vide un papiro rilegato.

    Sulla copertina campeggiava il cartiglio di Tutankhamon.

    Lo sfogliò delicatamente. Non poteva crederci: era davvero quel manoscritto? Lo stava rincorrendo da secoli ed ora eccolo lì, a portata di mano, e per procurarselo non aveva dovuto nemmeno faticare!

    Più lo osservava e più ne era convinto. Respirava gli effluvi che esso emanava e se ne stava inebriando.

    Certo che spedirlo dentro un pacco senza nessuna cautela è stato un bel rischio! A meno che non si tratti di un altro scherzo! meditò il polacco.

    Il plico includeva anche una busta al cui interno trovò un foglio compilato a mano. Lo lesse: Carissimo Kazimierz, non ci siamo mai conosciuti, ma credo che un giorno ci incontreremo, in questa o in un’altra vita. I nostri nonni condivisero una fantastica avventura molti anni fa in Egitto. Quando il mio me la raccontò ne rimasi affascinato. Fu un’esperienza epocale. Immagino che tu abbia capito di cosa io stia parlando: sì, il ritrovamento della tomba di Tutankhamon. Nonostante le testimonianze e i fiumi di parole spesi, credo resti ancora molto da scoprire. Uno dei misteri che non sono stati ancora risolti è proprio la sparizione di un papiro la cui leggenda vorrebbe che narrasse della figlia del faraone, prima censito fra i reperti presenti nella tomba, poi inspiegabilmente cancellato dai documenti ufficiali. Molti credettero, e ne sono convinti tuttora, che si tratti di un errore di trascrizione e che quindi non fu mai ritrovato un papiro con l’emblema di Tutankhamon con quelle caratteristiche. Be’, io penso, forse come te, che non si tratti di una leggenda, però senza prove il mondo non ne sarà persuaso. Ma per non alimentare questa credenza, proprio per la mancanza di riscontri tangibili, pur mentendo, dissi sempre a tutti che non credevo alla sua esistenza. Ed ecco che, un giorno, un mio carissimo amico, Richard Bernwell - te ne faccio il nome perché un giorno tu possa conoscerlo e incontrarlo -, mi chiese il favore di custodire quel papiro, ritrovato proprio nei pressi della tomba di Tut dalla sua compagna, Mary Jones, durante gli scavi. Io accettai, conscio d’essere tacciato di complicità nel furto di un cimelio, perché sono certo che loro avevano intenzione di trafugarlo! Una reliquia di inestimabile valore che potrebbe modificare il corso della storia, qualora ne fosse dimostrata l’autenticità. Ebbene, ho deciso di fartene dono, consapevole tuttavia che da questo momento anche tu potresti subire accuse per il suo indebito possesso. Forse un giorno capirai il vero motivo del mio gesto.

    In calce una semplice firma: Lester Davis. Non c’era scritto altro.

    Non può essere vero!

    Urgevano conferme che soltanto un profondo conoscitore della cultura egizia, di indubbia e provata serietà professionale, poteva assicurargli.

    Ricordava che tempo addietro ebbe modo di conoscere Howard Chapman, uno stimato egittologo inglese famoso per aver smascherato, fra l’altro, un sodalizio criminoso costituito da esperti falsari che stavano facendo un mucchio di soldi con reperti archeologici spacciati per veri, messi sul mercato con la compiacenza di avidi finanzieri disposti a tutto pur di far quattrini. Riuscì nell’impresa esaminando con cura alcuni oggetti, posti al suo vaglio da parte di clienti sospettosi, con l’ausilio di sofisticati macchinari progettati da alcuni ingegneri di sua fiducia.

    L’incontro avvenne a Washington durante una conferenza, a cui Chapman partecipò come uno dei mirabili relatori presenti all’evento, sul tema: Egitto. Innovazioni tecnologiche e scienza dinamica: il futuro al servizio del passato, al termine della quale Kornick riuscì a intrattenersi per un’amabile conversazione.

    Il polacco, con abili manovre di approccio - l’eloquio non gli mancava -, riuscì a carpirgli un biglietto da visita su cui era indicato il numero di cellulare.

    Era giunto il momento di riesumarlo e di farne uso, ammesso che non fosse cambiato. Nella malaugurata ipotesi, poteva sempre rintracciare l’esimio dottor Chapman presso il Supreme Analytical Laboratory che questi dirigeva a Washington in qualità di presidente.

    Rovistò nella cassettiera in camera da letto dove era convinto di averlo riposto, e dopo un’estenuante ricerca lo trovò quando ormai stava perdendo la speranza.

    La fortuna gli arrise: dopo appena tre squilli ebbe risposta. «Sì, pronto…».

    «Parlo con Sir Howard Chapman?». Già, perché lo stimato egittologo era stato nominato baronetto dalla Regina d’Inghilterra per i suoi innegabili meriti sul campo e per aver dato lustro alla Nazione.

    «Chi lo vuole sapere?».

    «Mi chiamo Kazimierz Kornick… ci siamo incontrarti qualche anno fa durante una conferenza a New York…».

    «Mi scusi, ma avrei degli impegni abbastanza urgenti. Chi le ha dato questo numero?» domandò Chapman tradendo un certo fastidio.

    «È stato proprio lei durante quella conferenza…».

    «Mah, francamente non ricordo. Del resto incontro molte persone… Comunque, a cosa devo questa chiamata, signor…?» Chapman si era già dimenticato il nome del polacco.

    «Kornick, Kazimierz Kornick… L’ho chiamata perché volevo chiederle se poteva esaminare un reperto per verificarne l’autenticità».

    «Di che si tratta?».

    «Di un papiro rilegato a libro».

    «Be’, se vuole soltanto appagare la sua curiosità, le consiglio di rivolgersi a un laboratorio più a buon mercato. Gli accertamenti che svolgiamo qui al Supreme le costerebbero molto caro».

    «Immagino, però credo che il mio papiro meriti particolare attenzione. Sono disposto a pagare qualunque cifra. È importante che io abbia la certezza che si tratti di un reperto archeologico genuino e penso che soltanto il suo laboratorio lo possa decretare». Eccedere in lusinghe poteva essere utile.

    «La ringrazio per la fiducia. Però, mi dica, quel documento è legittimamente in suo possesso? Sa, non vorrei essere coinvolto in qualcosa di illegale…».

    «L’ho ricevuto proprio oggi con un pacco dal Cairo. Il mittente sarebbe Lester Davis, il segretario dell’ambasciata…».

    «So di chi sta parlando» lo interruppe bruscamente Chapman. «Ho seguito i notiziari. Ascolti, viste le circostanze, non sono sicuro di essere interessato… Del resto stiamo parlando di un omicidio… Non voglio nemmeno sapere il motivo per cui abbia ricevuto questo pacco… Lei capirà…».

    «Certo, comprendo il suo disagio, però insisto. Se lo ritiene necessario, le firmerò una liberatoria che possa dimostrare la sua estraneità in merito al papiro…».

    «Sarebbe già qualcosa, però se la polizia lo venisse a sapere potrebbe comunque svolgere delle indagini nei miei confronti e la cosa mi disturberebbe… Senta, facciamo così, lei mi porti il reperto, poi deciderò se accettare l’incarico».

    «La ringrazio. Potrei essere da lei già domani».

    «Per me va bene. L’aspetto nel pomeriggio, signor…».

    «Kornick, sono sempre Kazimierz Kornick».

    «Sì certo, signor Kornick. A domani allora. Ma sia chiaro, non le garantisco niente».

    2

    Scoprire che la cassetta di sicurezza, presso l’aeroporto JFK di New York, era vuota fu un duro colpo per Richard Bernwell e Mary Jones; anche Ethan Wayne e Karim ne rimasero sorpresi.

    Non c’era nemmeno verso che Patricia Stanton rispondesse al cellulare.

    «Proviamo a sentire la compagnia per cui lavora» propose Bernwell. «Magari sanno dirci qualcosa».

    Gli altri convennero.

    Patricia, pregata da Karim, si offrì di aiutarlo. Fu lei a trasferire in quella cassetta di sicurezza aeroportuale il plico consegnatole dall’amico egiziano. Almeno questo sarebbe stato il suo compito. Il fatto che l’avesse portato a termine restava un mistero, anche se la donna confermò il buon esito dell’operazione.

    Si diressero all’ufficio informazioni della compagnia aerea per la quale Patricia prestava servizio come hostess, il cui responsabile si mise in contatto con i colleghi di Washington, sede principale della società di riferimento.

    «Mi hanno detto che la signorina Stanton non si è presentata al Dulles per il volo di stamattina delle 11:30 per Miami. Stanno cercando di rintracciarla, ma finora senza esito» fu il responso al termine della comunicazione. «Non so dirvi altro».

    Karim ricordava che l’amica gli parlò di un appartamento che occupava nei pressi dell’aeroporto newyorkese. Frugando nel portafogli trovò il bigliettino su cui si era appuntato l’indirizzo.

    Furono sul posto in pochi minuti. Si trattava di un edificio a tre piani situato in una via secondaria. Sul citofono i nomi non apparivano. Karim suonò un campanello a caso. Gli rispose una voce maschile a cui chiese se sapesse dell’alloggio occupato dalla hostess. «Secondo piano, l’appartamento sulla destra» fu la risposta.

    Vi si recarono. La porta d’ingresso era socchiusa. Dall’interno nessun apparente rumore. Presero coraggio e si introdussero prudenti. Non vi trovarono nessuno.

    L’alloggio era di ridotte dimensioni, in pratica un ampio monolocale e servizi igienici. A giudicare dal disordine, pareva che qualcuno lo avesse esplorato a dovere. Anche il bagno era sottosopra.

    Setacciarono l’appartamento in subbuglio ma non rinvennero nulla di particolare, a parte un foglio su cui c’era scritto un numero di telefono con il prefisso dell’area metropolitana di New York, senza riferimenti in corrispondenza, e una nutrita schiera di libri sparsi alla rinfusa. Controllarono se ci fossero cellulari, ma non li trovarono.

    «Che facciamo ora?» domandò Wayne adagiandosi di peso sul divanetto appena liberato dai panni.

    «Teniamoci questo numero, poi decidiamo cosa farne. Per il resto, aspettiamo e vediamo che succede» rispose rassegnato Richard. «Certo che se l’appartamento è in queste condizioni, Patricia avrà ricevuto la visita di qualche sgradito ospite».

    «Se così fosse, vuol dire che stavano seguendo anche me al Cairo, e hanno studiato tutte le mie mosse!» dedusse Karim.

    «Credo proprio di sì» affermò Wayne rivolgendosi all’egiziano. «È probabile che abbiano assistito anche al nostro incontro».

    «Speriamo almeno che non le sia successo niente di grave» replicò Karim con aria mesta.

    «Ce lo auguriamo tutti» chiosò Mary prima che lasciassero l’appartamento.

    3

    L’immobile che ospita il Supreme Analytical Laboratory è imponente, un multipiano con vetrate a colori, molto suggestivo nel suo aspetto estetico, e si trova in un punto strategico della Independence Avenue, a breve distanza dalla Casa Bianca.

    Dal marciapiede pubblico, alcuni scalini in marmo conducono alla porta di accesso riservato ai visitatori. Il logo aziendale, impresso sul cartello metallico adiacente l’ingresso principale, è costituito da una stella a sei punte al cui interno campeggiano le iniziali stilizzate in argento su sfondo bronzeo.

    Kornick si presentò all’appuntamento verso le quattro del pomeriggio. Il manoscritto l’aveva riposto in una valigetta impugnata con vigore.

    Si presentò alla reception e l’addetta, a cui si era rivolto declinando generalità e scopo della visita, lo invitò ad aspettare nella saletta antistante, allestita per ricevere gli ospiti, dove avevano già preso posto a sedere due persone, apparentemente lì per motivi di lavoro, visto l’abbigliamento che indossavano e il portamento professionale.

    Kazimierz rimase in piedi e per ingannare l’attesa si mise ad ammirare i quadri appesi ai muri, degne riproduzioni di capolavori di pittori famosi del rinascimento italiano, fra cui spiccavano dipinti del Giorgione e del Pinturicchio. Probabilmente una delle passioni di Sir Howard Chapman.

    Dovette aspettare soltanto alcuni minuti, poi un inserviente, molto discreto nell’agire, lo pregò di seguirlo e Kazimierz si accodò diligentemente, dopo essersi sistemato il nodo della cravatta e abbottonato la giacca.

    Si stavano recando al primo piano ove erano allocati gli uffici dirigenziali e amministrativi; il laboratorio di analisi si trovava al livello superiore.

    L’ufficio che occupava Chapman, contrariamente a quello che si poteva pensare trattandosi del gran capo, era sobrio e ridotto all’essenziale: una semplice scrivania di medie dimensioni, una poltrona in pelle per il dirigente molto spartana, due sedie di legno destinate ai visitatori e per finire un piccolo divano. Sui muri pochi ornamenti, soltanto alcuni ritratti di personaggi ottocenteschi in bianco e nero, simboli nostalgici di un passato ormai lontano.

    L’inserviente, dopo aver annunciato l’arrivo dell’ospite, si congedò salutando con deferenza.

    «Benvenuto» fu il saluto di prammatica di Chapman. «Prego, si accomodi».

    Kornick, un po’ impacciato, si introdusse nell’ufficio con la valigetta ben salda nella mano destra. Prese posto su una delle sedie accanto alla scrivania che brulicava di fogli e penne. Non poteva mancare la fotografia di famiglia: Chapman sorridente in affettuosa compagnia di una donna. Non c’era traccia della figliolanza.

    Il polacco non indagò oltre. Comunque, dopo aver eseguito una rapida ricognizione dell’ufficio, notò la mancanza del crocifisso; assai curioso come dettaglio, visto che il padrone di casa sarebbe un fervente cattolico, stando almeno agli articoli apparsi su internet.

    Dopo i soliti convenevoli, arrivarono al sodo.

    «Allora, posso vedere il reperto?».

    «Ma certo» si affrettò a rispondere Kornick estraendolo dalla valigetta.

    L’esimio presidente lo consultò in silenzio; posò una mano sulla copertina soffermandosi sui dettagli in rilievo, poi lo aprì e l’esaminò. A tratti, i geroglifici che componevano il testo erano logorati dal tempo. Alcuni segni apparivano a colori - probabilmente l’estensore volle dare maggior enfasi a una particolare circostanza che stava descrivendo in quel frangente.

    «Interessante» fu il responso al termine di una rapida analisi. «Molto interessante».

    «Sì, lo credo anch’io».

    «Come le avevo già detto al telefono, per quanto lei mi ha riferito» riprese a dire Chapman, «il fatto che il mittente sia identificabile nel segretario particolare della nostra ambasciata al Cairo, poi assassinato, mi mette un po’ a disagio».

    «Certo, però forse siamo di fronte a qualcosa di unico e penso, quindi, che valga la pena analizzarlo approfonditamente. Qualora ne fosse dimostrata l’autenticità, la circostanza potrebbe dare ancor più lustro al suo laboratorio, non crede?».

    Chapman non rispose e replicò con un’altra domanda. «Lei sa come Davis ne sia venuto in possesso?».

    «Nel pacco che mi è stato recapitato c’era una lettera».

    Kornick gliela esibì e l’egittologo, dopo averla letta, disse: «Be’, se quello che è stato scritto è vero, siamo di fronte a un vero e proprio reperto archeologico e come tale dovrebbe essere consegnato alle autorità egiziane, altrimenti mio caro Kornick, saremmo di fronte a un furto».

    «Tecnicamente sì, però è anche vero che, non conoscendo tutti i dettagli della vicenda, si potrebbe rimandare la pubblicità sugli eventi…».

    «Non voglio perdere la reputazione facendomi coinvolgere in qualcosa di illegale» sostenne fermamente Chapman guardando dritto negli occhi il suo interlocutore. «Senta» proseguì dopo una pausa di riflessione, «voglio comunque darle credito, sperando di non dovermene pentire. Lo farò analizzare, ma se non fosse una volgare contraffazione si dovrà subito diffondere la notizia e restituire il cimelio agli egiziani. Siamo d’accordo su questo?».

    «Sicuro. Vorrei però prima tradurlo».

    «Mi sembra giusto» convenne Chapman. «L’aiuteremo noi a farlo».

    4

    Prima di diventare un facoltoso finanziere, il giovane Andy McDermott conduceva, lontano dal clamore cittadino, una fattoria insieme al fratello maggiore, Louis, dopo aver raccolto l’eredità dei compianti genitori, entrambi morti prematuramente a causa di un infarto nel volgere di pochi mesi l’uno dall’altro.

    Andy l’amministrava con sagacia dimostrando fiuto negli affari.

    Louis, aiutato dalla manovalanza, si occupava invece dell’allevamento del bestiame i cui capi, periodicamente, venivano venduti nei mercati del Paese e i profitti, col tempo sempre più cospicui, reinvestiti in gran parte nell’azienda familiare.

    La fiorente attività s’interruppe drasticamente quando un ciclone, abbattutosi con violenza sulla fattoria e nei pressi, distrusse i caseggiati e soltanto pochi animali sopravvissero.

    I McDermott, dopo aver versato lacrime sulle macerie e venduto i bovini rimasti in vita, emigrarono in città con la speranza di un’occupazione, cercando di far leva sulla loro esperienza e sul gruzzolo che, saggiamente, avevano depositato in banca, con la speranza, un giorno, di ricostruire ciò che la natura aveva inesorabilmente annientato.

    Andy, grazie alle doti da contabile, fu assunto come impiegato amministrativo nella fabbrica metalmeccanica cittadina - i titolari ebbero già modo di testarne la levatura, mentre Louis si riciclò come cameriere in un ristorante di periferia: di meglio non riuscì a trovare.

    Trascorso quasi un anno, la fortuna li arrise: il denaro, investito in azioni, triplicò di valore e la somma disponibile consentì, in breve tempo, la ricostruzione della fattoria, dalle stesse ceneri di quella precedente - la terra su cui insisteva era di loro proprietà, quindi perché andare altrove?

    Louis tornò così a fare l’allevatore reclutando nuovi abili campagnoli capaci di governare a dovere il bestiame.

    Andy, dopo essersi licenziato, continuò ad amministrare l’attività agricola del fratello, ma rimase in città dove aprì uno studio di consulenza finanziaria - anni addietro conseguì la laurea in economia -, convinto di spiccare il volo nel mondo degli affari speculativi.

    La natura, ora benevola nei loro confronti, restò a riposo e così Louis McDermott prese coraggio e mise su famiglia: si sposò con la donna dei sogni, conosciuta nel locale in cui aveva lavorato, ed ebbe due figli. Il fratello, incline a una vita meno morigerata, al contrario, non si legò a una donna in particolare, nonostante gli piacesse l’avvenente titolare della lavanderia - divorziata senza prole -, dirimpettaia al suo studio, a cui spesso dispensava sorrisi e loquaci ammiccamenti, peraltro condivisi.

    Passarono alcuni anni in un’apparente serenità, fino a quando al povero Louis, non ancora quarantenne, fu diagnosticato un tumore al pancreas che non gli diede scampo.

    Fu sepolto accanto ai genitori nel piccolo cimitero di periferia. La vedova e i figli continuarono a gestire la fattoria, sempre con l’ausilio di Andy.

    Lo studio di McDermott andava a gonfie vele e la mole di lavoro obbligò il suo titolare, fino ad allora anima solitaria, a procurarsi una segretaria. Mise un annuncio sui giornali locali. Al colloquio preliminare si presentarono dodici pretendenti. Fu lo stesso Andy a valutarne le capacità e alla fine fece la sua scelta: il posto lo assegnò a una ventisettenne laureatasi da poco in scienza delle finanze.

    Un giorno si presentò nello studio il presidente della più grande banca cittadina. La clientela era perlopiù costituita da commercianti di media borghesia, capaci comunque di corrispondere somme cospicue in cambio di consigli su come investire al meglio i risparmi; quindi, assistere l’istituto di credito più in auge sarebbe stato di certo un salto di qualità.

    Gli venne chiesto se avrebbe gradito partecipare, come collaboratore esterno, alla ricerca di immobili da acquistare - evidentemente, qualcuno aveva speso parole di elogio sul suo conto, tanto da indurre la dirigenza ad avocarne i favori.

    In buona sostanza, si trattava di investire un’ingente somma di denaro giacente nelle casse sociali. Se avesse accettato l’incarico, si sarebbe aggiunto ad alcuni dipendenti dell’istituto di credito già deputati allo scopo.

    Trentamila dollari l’onorario per sei mesi di lavoro, con un eventuale extra nel caso in cui gli investimenti si fossero rivelati particolarmente redditizi.

    L’occasione fu così ghiotta che Andy non se lo fece ripetere: accettò senza riserve e sottoscrisse il contratto.

    Terminato

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