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Una vita normale
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Ebook372 pages5 hours

Una vita normale

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About this ebook

Kevin Graves è un grafico giovane ma già molto insofferente e a disagio con se stesso. Lavora per una grossa agenzia pubblicitaria di Los Angeles e la sua divisione è composta da cinque persone. Ha dei buoni rapporti con tutti, eccetto che con Noah Cooper, un collega coetaneo che non potrebbe essere più diverso da lui.
Kevin è intollerante e sarcastico nei suoi confronti, appare quasi disgustato dalla personalità di Noah e infastidito dal fatto che non faccia niente per nascondere la propria omosessualità. Noah, dal canto suo, sembra perfettamente a proprio agio e non perde occasione per flirtare e divertirsi; non sempre però riesce a ignorare le pessime battute di Kevin.
I loro battibecchi raggiungono, a volte, livelli così eccessivi che persino il calmo e maturo team leader, Patrick Foley, finisce per spazientirsi e posizionare le loro scrivanie ai lati opposti dell’ufficio. Forse è arrivato il momento di trasferire Kevin in un’altra divisione, lontano da Noah. Ma è quello che Kevin desidera?
Si può davvero trovare un equilibrio se non si è onesti con se stessi e con le persone che sostengono di amarci?
LanguageItaliano
Release dateMay 12, 2022
ISBN9791220703048
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    Una vita normale - Diana D.P.

    1

    LOS ANGELES, OGGI

    Mi guardai allo specchio, inforcai gli occhiali da sole e uscii di casa, ignorando la vibrazione del cellulare. A quell’ora era sempre mia madre a chiamare e io, ovviamente, non avevo alcuna voglia di parlarle.

    Il traffico di Los Angeles era intenso e, nelle ore di punta, poteva diventare un vero incubo. Così mi armai di pazienza e mi misi in viaggio.

    Lavoravo in una grossa agenzia pubblicitaria, la Muse&Martin: facevo parte di un team di grafici che aveva il compito di selezionare il materiale fotografico e proporre idee vincenti per importanti marchi. A parole sembrava un lavoro molto figo e io lo trovavo figo anche nei fatti. Era quello che avevo desiderato fare tutta la vita.

    Quel giorno dovevamo presentare le nostre proposte alla divisione design e la pubblicità era importante: si trattava di Stella McCartney e dei suoi accessori per la stagione primavera-estate.

    La mia squadra era composta da cinque persone. Oltre a me, c’erano Julia Page, Anne Foulger, Noah Cooper e il nostro team leader, Patrick Foley, un irlandese di trentadue anni che aveva deciso di trasferirsi a Los Angeles da qualche tempo e che ci aveva asfissiati per settimane sulla scelta del materiale. Era stata Julia a risolvere la questione: aveva selezionato sfondi che si abbinavano perfettamente con gli accessori da pubblicizzare e avevamo composto tre proposte che sarebbe toccato a Noah esporre.

    La sola idea mi faceva uscire fuori di testa.

    Avrebbe dato di matto fino alla presentazione, prevista per le undici di quella mattina, e poi avrebbe stupito tutti con la sua parlantina fluida e senza insicurezze.

    Alla fine, io avrei sbavato interiormente e grugnito esteriormente. Tutto nella norma, insomma.

    Ogni giorno era una lotta con me stesso per evitare che i nervi mi esplodessero, ma non avrei scelto di lavorare in nessun altro posto.

    Ero costantemente incazzato e prendevo pasticche per la gastrite a soli venticinque anni: ero certo che non sarei riuscito ad arrivare ai quaranta se avessi continuato su quella strada.

    Ai quaranta e oltre c’era arrivato il capo delle risorse umane del nostro dipartimento, Russell Mills. Un figo allucinante, sexy in maniera indegna, che continuava a tormentarmi con le sue frecciatine insopportabili. La mia voglia di tirargli un cazzotto in piena faccia era pari solo alla stima che avevo di lui. Mi faceva impazzire di rabbia perché ero assolutamente consapevole che avesse ragione su tutto.

    Gli avrei presentato volentieri la mia famiglia di trogloditi per vedere se anche con loro avrebbe avuto lo stesso atteggiamento.

    I miei sopportavano a malapena che lavorassi in quell’agenzia e che vivessi a Melrose Place che, per quanto grazioso, certo non era Bel Air, il quartiere in cui ero cresciuto.

    Mio padre era il presidente della Graves&Co, una società dal fatturato miliardario che si occupava soprattutto di assorbire aziende in difficoltà, smantellarle, rivenderle a pezzi e mandare a gambe all’aria un numero spropositato di dipendenti. Niente nell’attività di mio padre era illegale, solo che lo avevo sempre trovato molto poco etico. Ma si sa, l’etica ha ben poco a che vedere con il dio Denaro e l’impero dei Graves era ricco quanto quello di Mark Zuckerberg, solo che io non andavo in giro con certe ridicole t-shirt a tinta unita, fingendo di essere un figlio del popolo mentre guidavo una Corvette.


    Parcheggiai al solito posto riservato ai dipendenti dalla mia azienda e, appena arrivato al piano terra dell’enorme edificio di vetro che ospitava i nostri uffici, trovai Anne davanti all’ascensore che mi aspettava con l’immancabile caffè di Cosmo, il locale che, per qualche motivo, tutti amavano molto e che si trovava a pochi metri dall’entrata del palazzo. Era venerdì e, presentazione delle proposte pubblicitarie a parte, sapevo che mi sarebbe servita una tisana calmante alla fine della giornata: i venerdì erano un incubo, una via di mezzo fra Non aprite quella porta e Venerdì 13.

    «Buongiorno, Hannibal!» cinguettò la mia amica e collega. «Pronto per la giornata?»

    «Buongiorno un cazzo!» le risposi, prendendo il caffè dalle sue mani e bevendone un abbondante sorso mentre entravo in ascensore con lei.

    «Appunto.»

    «Anne, non sono in vena di battute ridicole stamattina.»

    «Ma va’? Nessuno lo direbbe guardando la tua faccia.»

    «Piantala,» borbottai, schiacciando il tasto del trentaseiesimo piano, sperando che mi si chiudessero le orecchie e non fossi costretto a sentire altro.

    Mi scrutò con i suoi occhi neri come la notte e intravidi biasimo, come al solito. Aveva i capelli raccolti in un morbido chignon e abiti alla moda ma comodi.

    «Kevin, un giorno o l’altro finirai in ospedale con l’ulcera se non la smetti di comportarti come un deficiente.»

    «E chi ti dice che non ci sia già finito? Il medico ha detto che rischio di farmela sanguinare.»

    «Questo succede perché sei una testa di cazzo fuori dal comune.»

    Ogni mattina era sempre la solita storia, ma non riuscivo a essere socievole prima di mezzogiorno e, anche a quell’ora, al massimo mi trattenevo dal mandare a fare in culo qualcuno. Più specificatamente, Noah.

    Patrick Foley era una persona molto educata, ma persino lui non sopportava i nostri continui battibecchi e così eravamo finiti ai lati opposti dell’enorme openspace in cui lavoravamo: la mia scrivania era la più lontana da quella di Noah.

    «La Regina dei Drammi è pronta o ci toccherà mettere i tappi alle orecchie?»

    Anne alzò gli occhi al cielo e si sistemò la borsa sulla spalla. «A volte mi domando perché continui a lavorare con noi. Chiedi al signor Mills di trasferirti in un’altra divisione, se proprio non riesci a sopportarlo.»

    «Non chiederei al signor Mills un favore nemmeno se ne dipendesse la mia vita!» affermai. E almeno quella era la verità. Più o meno.

    «Allora faglielo chiedere da Patrick.»

    «Perché vuoi cacciarmi dalla mia divisione?»

    «Sei tu che non sopporti di starci, Kevin!» sbottò, proprio mentre l’ascensore si apriva al nostro piano.

    Percorremmo in silenzio metà del corridoio prima che la voce di Noah, cristallina e acuta come il gorgheggio di un soprano, mi arrivasse alle orecchie.

    «Gesù, è in forma oggi!» esclamai, sbuffando ed entrando finalmente nell’openspace.

    Patrick e Julia cercavano di calmare un melodrammaticissimo Noah che, accasciato su una sedia, si faceva aria con una cartellina fucsia.

    «Non ce la farò mai! Ci sarà il segretario di Stella McCartney e di sicuro mi odierà.»

    Aveva un paio di pantaloni lucidi elasticizzati color lavanda e una delle sue camicie svolazzanti giallo canarino. I piercing alle orecchie, i bracciali e gli anelli che indossava rilucevano dandogli quell’alone di… cazzo! Non avevo idea di che alone avesse, ma mi piaceva da morire. Solo lui poteva avere il coraggio di infilare ai piedi quegli anfibi gialli che, fra l’altro, gli stavano benissimo. Esattamente come gli stava bene tutto il resto.

    Sempre.

    In ogni circostanza.

    Lo odiavo!

    «Dovrà mettersi gli occhiali da sole per guardarti,» borbottai.

    Si girò quando sentì la mia voce e sbuffò, infastidito. «Potete dire al signor Graves che della sua opinione non me ne frega un cazzo?» chiese, rivolgendosi a Patrick e Julia.

    «Non cominciate a rompere le palle,» disse Patrick, guardando prima me e poi Noah. «Non voglio scene da ragazzini decerebrati oggi, chiaro?»

    Il mio personale tormento si limitò a lanciarmi uno sguardo disgustato e a darmi le spalle; Julia tornò a sedersi alla sua scrivania e Anne non perse l’occasione per sussurrarmi: «Dagli tregua, una volta tanto.»

    Era facile per loro, ma non per me. Io non riuscivo nemmeno più a respirare.


    Come previsto, la presentazione andò benissimo.

    Noah assunse quell’aria seria e professionale che ogni tanto gli riusciva bene ed espose le nostre idee davanti allo staff di Stella McCartney, alla divisione di design e grafica, al nostro team leader e a Russell Mills, che doveva sempre impicciarsi dei cazzi nostri. Anche se, alla fine, il suo fu il primo volto che andai a cercare per capire se avessimo fatto un buon lavoro: Russell non sbagliava mai quando sceglieva una squadra e, recentemente, più volte lo avevo sentito lodare il nostro operato.

    Alla fine della riunione, andò da Noah insieme a Patrick per complimentarsi con lui e io tirai il consueto sospiro di sollievo perché, anche se ero consapevole delle qualità di Noah, avevo sempre paura che si facesse vincere dall’emozione e combinasse qualche casino.

    Ma lui non combinava mai casini. Non avevo idea nemmeno di come riuscisse ad apparire tanto serio vestito come un catarifrangente umano.

    Abbassai lo sguardo e osservai per un attimo il mio abbigliamento: pantaloni neri stretti alle caviglie, camicia grigia leggermente aderente e sneakers nere della linea Gucci Men, che avevo comprato alla modica cifra di 425 dollari. Erano belle ma, rispetto agli anfibi di Noah, sembravano scarpe antinfortunistiche.

    Quando i collaboratori di Stella McCartney andarono via, Julia e Anne raggiunsero Noah e Patrick saltellando felici. Era la terza proposta di seguito per una grossa griffe che portavamo a segno e sicuramente qualcuno avrebbe suggerito…

    «Andiamo a festeggiare, stasera?»

    Mi ripromisi di uccidere Anne con le mie mani appena ne avessi avuta l’opportunità, ma ci ripensai in un nanosecondo: tanto mi facevo del male ogni venerdì, perché quello avrebbe dovuto fare differenza?

    Esplose un coro di sì. Io raccolsi la mia cartellina, il mio mini-blocco di appunti e, ignorandoli, uscii dalla stanza senza congratularmi con Noah.

    Lasciai tutti lì a ridere e scherzare e pensai di andare a prendermi un caffè schifoso ai distributori automatici del nostro piano.

    Mi incamminai lungo il corridoio con la testa piena di pensieri di ogni tipo e feci il mio solito esercizio di training autogeno per scacciarli. Cominciai a pensare al blu, al rosso, alle stelle e alle strisce della nostra bandiera, alle elezioni presidenziali, al numero di repubblicani presenti al Congresso, al mio vecchio compagno di squadra, Lonnie, che era diventato il braccio destro di suo padre nell’azienda di famiglia.

    Arrivato al distributore, ero quasi tornato in me ma, naturalmente, Mister Culo-di-marmo Mills doveva venire a rompermi i coglioni, altrimenti come poteva essere un venerdì di merda?

    «Noah ha fatto un figurone, vero?»

    La sua voce mi fece sobbalzare e mancai la fessura per inserire le monetine per il caffè. Lo stronzo ne approfittò per rubarmi il tempo e infilare le sue. Non contento, mi diede una spallata per farmi spostare. Era alto quanto il distributore stesso e mi chiesi, per l’ennesima volta da quando lo conoscevo, perché non avesse scelto di fare l’attore per vivere. Ce lo vedevo benissimo sul palco del Kodak Theatre a ritirare il suo Oscar sbrilluccicante e a fare un discorso di ringraziamento che avrebbe fatto arrossire tutti.

    Grugnii una risposta alla sua domanda e mi girai dall’altra parte, in attesa che prendesse il suo caffè e ci si strozzasse.

    «Il tuo team ha ottenuto una vittoria, dovresti essere con loro a festeggiare,» continuò, imperterrito. «Non sei contento?»

    «Non vede quanto esulto?»

    «No.»

    «Evidentemente comincia ad avere problemi alla vista,» dissi sfacciato, riferendomi alla sua età. Magari ci fossi arrivato io a quarantatré anni come lui. Ero certo che scopasse come un ventenne, sicuramente meglio di un ventenne e senz’altro molto, molto, molto più di me.

    Conviveva con il mio team leader, Patrick, da mesi ormai e non mi risultava difficile immaginarmeli mentre si attorcigliavano sul letto della loro camera.

    Che cazzo di fastidio!

    Naturalmente scoppiò a ridere e sorseggiò il suo caffè osservandomi con quegli occhi scuri e magnetici.

    «Spero che andrai a festeggiare con loro, stasera.»

    «Ma certo. Non me lo perderei per niente al mondo,» risposi, sarcastico. «E spero che mi lascerà in pace a godermi un cocktail con i miei colleghi.»

    A volte, il venerdì, lui e Patrick trascorrevano un paio d’ore con noi, dopo il lavoro.

    A dire il vero erano bellissimi insieme, ma io non riuscivo a tollerare a lungo la loro presenza perché l’invidia mi divorava le budella. Quando non si scambiavano occhiate di fuoco o finché Russell non cominciava a smaniare per portarselo via – e sicuramente scoparselo – la loro compagnia era piacevole. Certo, Russell mi lanciava sguardi divertiti ogni volta che Noah iniziava a dare il meglio di sé, ma tutto sommato non era così male.

    «Patrick e io abbiamo da fare, stasera,» disse lui.

    «Oh, quindi non ci sarete? Che peccato!» esclamai, ironico.

    «No, non ci saremo. Magari, però, disdico la cena a casa di Mike Spencer e vengo a sganasciarmi dalle risate da Cosmo.»

    «Non credevo fossimo così divertenti.»

    «Non parlavo degli altri, ma di te.»

    «Di me?»

    «Ma certo! È esilarante osservarti mentre il tuo cervellino bacato fa a botte con il tuo cuore…» sussurrò, «e con il tuo cazzo,» aggiunse.

    Serrai la mascella e chiusi i pugni lungo i fianchi. Se solo non fosse stato così più in alto di me in quell’azienda, lo avrei preso a schiaffi.

    «Lei è veramente un…»

    Non mi lasciò finire l’insulto e si girò, ridendo come sempre e dicendo: «Domani mi farò raccontare da Noah com’era il tizio che sicuramente rimorchierà stasera. Tu goditi il caffè, coglione!»

    2

    DA COSMO

    Cosmo era ancora vivibile quando arrivammo.

    Anne e Julia si accordarono per offrire il primo drink a Noah e io finsi di non averle ascoltate mentre ne parlavano, ma alla fine tirai fuori la mia parte, scegliendo di non brontolare nel farlo.

    Era stato bravo sul serio e, anche se tutti avevamo contribuito al lavoro, lui aveva avuto il compito di esporlo al cliente e non era mai una cosa semplice.

    Io non ero abile con le parole e sicuramente non ero in grado di essere professionale, sexy e sorridente quanto Noah o la stessa Julia.

    Julia Page era una ragazza stupenda: bella, intelligente, calma e disponibile nei confronti di tutti. Era la tipica ragazza che avrei frequentato a scuola, quella che avrebbe capito quando avessi scelto di mollarla e mi avrebbe chiesto di rimanere amici. E lo saremmo rimasti sul serio.

    Dall’esterno apparivamo come un team affiatato e, se non fosse stato per i miei continui malumori e il mio costante muso lungo, saremmo stati una squadra equilibrata.

    A volte non capivo perché continuassero a invitarmi alle loro uscite. Noah tollerava a malapena la mia presenza e io non facevo niente per nascondere quanto mi scocciasse il suo essere così… gay.

    Ci sedemmo al solito tavolo e brindammo al successo del nostro lavoro.

    Per un attimo i miei occhi incontrarono quelli di Noah e scorsi qualcosa di seducente nell’azzurro del suo sguardo.


    «I tuoi occhi sono blu come l’oceano visto dall’alto…»


    Scacciai quel ricordo inopportuno e mi concentrai sul mio Martini Dry, distogliendo lo sguardo dal suo e fissando il porta-tovaglioli sul nostro tavolo.

    Feci un respiro e provai a godermi la serata.

    Non era necessario che fossi sempre tanto rigido, in fondo. Eravamo fra colleghi, stavamo festeggiando ed ero stanco di impormi di non sorridere alle sue battute anche se avrei voluto farlo.

    Parlammo del nostro lavoro, di quanto ci avessimo faticato sopra e di come fossimo contenti di essere stati apprezzati.

    Noah continuò a ciarlare del suo nervosismo durante la presentazione, mentre con il dito indice tracciava il bordo del bicchiere che aveva davanti. Persino il movimento delle sue mani era ipnotico per me.

    «Pensavo sul serio che non ce l’avrei fatta,» concluse, prendendo finalmente quel dannato bicchiere e portandoselo alle labbra. E quello fu persino peggio, perché i miei occhi si spostarono sulla sua bocca e, senza accorgermene, mi passai la lingua sul labbro inferiore.

    Per fortuna, riuscii a riprendermi prima che qualcuno lo notasse e, più per dimostrare che ero perfettamente padrone di me stesso che per altro, commentai: «Sei stato molto bravo.»

    La mia affermazione era assolutamente sincera, solo che nessuno a quel tavolo era abituato ai miei complimenti pubblici a Noah, quindi rimasero a fissarmi sconcertati: Julia giocherellava con la sua collana, Anne sogghignava e Noah… lui aveva le labbra incollate al bicchiere e i suoi occhi si erano sgranati a tal punto che temetti sul serio di aver detto troppo.

    «Be’?» finsi di stupirmi, muovendomi a disagio sul divanetto che occupavamo. «Avete detto anche voi che è stato bravo, perché se lo dico io non va bene?»

    Guardai Anne, proprio accanto a me, sperando che dicesse qualcosa.

    «Ma certo che va bene, tesoro,» disse. «È giusto fare i complimenti quando sono meritati.»

    «Ecco, appunto,» borbottai, tornando a rivolgere la mia attenzione agli altri due.

    Per fortuna, la tensione finì lì e, dopo tre drink, avevamo cominciato a ridere, raccontandoci episodi assurdi capitati in ufficio. Naturalmente, uno dei motivi di maggiori chiacchiere erano Patrick e Russell. Era il pettegolezzo più divertente in azienda e loro erano così discreti che beccarli a farsi effusioni era motivo di enorme gioia per tutti.

    Quando Patrick era arrivato a Los Angeles, mi aveva infastidito il suo rapporto con Noah. Erano andati d’accordo subito; Noah lo adorava e, all’inizio, avevo sperato che i due mesi in cui sarebbe dovuto rimanere con noi per formarci passassero in fretta.

    Dopo un po’, però, ci eravamo tutti resi conto che Patrick era interessato a qualcun altro e ci eravamo stupiti nel realizzare che la sua attrazione era assolutamente ricambiata. E quando avevamo saputo che quei due si erano messi insieme ufficialmente ne eravamo stati tutti contenti, persino io.

    La verità era che invidiavo Russell e la sua vita libera. Era un uomo di successo, non nascondeva le sue inclinazioni e lo studiavo per cercare di capire come avesse fatto a ottenere tanto senza che la sua sessualità lo intralciasse. Mi ero convinto che avesse avuto un coraggio incredibile, un coraggio che a me forse sarebbe mancato sempre.

    «Ho sentito Mike Spencer che diceva che hanno preso una casa a Venice,» disse Noah. «Lo trovo così romantico!» concluse, poggiando la testa sulla mano e fissando un punto a caso davanti a sé.

    «Romantica Venice?» intervenni io, sbuffando. «C’è il delirio su quella spiaggia.»

    «Non sono andati a vivere sulla spiaggia, ma nel quartiere dietro, dove ci sono i canali. È un posto stupendo.»

    Be’, sì, aveva ragione. Era davvero un posto stupendo quello.

    «Mi piacerebbe vedere la loro casa,» intervenne Julia. «Chissà come l’hanno arredata.»

    «Conoscendo un po’ Patrick,» disse Anne, «sicuramente è piena di fotografie.»

    «Magari hanno anche una stanza piena zeppa di giochini erotici,» mormorò Noah che, improvvisamente, aveva iniziato a fissare un punto oltre la mia spalla, in direzione del bancone.

    Si mordicchiò il labbro inferiore, si passò una mano dietro al collo e capii.

    Ci siamo, cazzo. Ci siamo. Ha puntato qualcuno.

    Il mio stomaco si contrasse e sentii il nervosismo, che avevo tenuto a bada fino a quel momento, salirmi fino alla punta dei capelli. Strinsi il bicchiere che avevo fra le mani e mi imposi di non voltarmi per vedere a quale stronzo avesse deciso di concedersi quella sera.

    «Perché non andiamo da qualche altra parte?» proposi, nella speranza di distogliere la sua attenzione da chiunque l’avesse catturata.

    «Voi andate dove volete,» sussurrò languido, leccandosi le labbra senza nemmeno guardare dalla mia parte. «Io penso che fra un po’ mi farò una cavalcata… E spero di farmela da rodeo.»

    Anne e Julia sghignazzarono, Noah si rimise dritto e, tre secondi dopo, un coglione alto almeno un metro e ottantacinque, con i capelli castani leggermente lunghi, il fisico da palestrato impenitente e un tatuaggio che gli copriva metà braccio destro, si fermò proprio accanto a me.

    «Ciao,» salutò, sorridendo a Noah.

    «Ciao a te.»

    «Se ai tuoi amici non dispiace, posso offrirti qualcosa da bere?»

    Ma vaffanculo! Avrei apprezzato di più se tutti quei maschi arrapati non si fossero presi il disturbo di spendere soldi per un drink quando sarebbe bastato dirgli: «Ciao! Andiamo a casa mia che voglio piantartelo nel culo?»

    «Ai miei amici non dispiace,» disse lui, con quel sorriso incredibilmente sexy che avrebbe eccitato pure un monaco castrato.

    Si alzò, sistemandosi i capelli, la camicia gialla canarino e i bracciali ai polsi e, dopo aver fatto l’occhiolino a Julia, sculettò via, seguendo l’energumeno di turno.

    Ogni venerdì era sempre la stessa storia.

    E ogni venerdì mi fustigavo, perché volevo vedere i volti degli uomini che preferiva a me. A me, cazzo!

    Se non fosse successo da Cosmo, sarebbe successo nel locale in cui avremmo concluso la serata, ed era pazzesco perché non frequentavamo mai locali esclusivamente gay.

    Deglutii a vuoto un paio di volte e, dopo qualche minuto, dissi alle mie amiche che andavo in bagno. Lì tirai due pugni violenti alla porta, come al solito. Prima o poi, Cosmo in persona mi avrebbe fatto ripagare i danni: si vedeva ancora la crepa che un mio cazzotto aveva procurato a una delle porte dei cessi tre mesi prima.

    Perché continuavo a uscire con loro? Perché continuavo a farmi del male? Perché la mia testa, il mio cuore e il mio uccello non si decidevano a dimenticarlo?

    Tornai al tavolo e mi misi accanto a Julia, nel posto lasciato libero da Noah. Da lì riuscivo a osservare il bancone e la tortura era senz’altro migliore.

    Noah ci dava le spalle e rideva di qualcosa che quel maledetto figlio di puttana gli stava dicendo. Non riuscivo a impedirmi di immaginare il suo corpo, morbido e perfetto, fra le mani di quel mostro dai bicipiti spropositati.

    Anne e Julia parlavano, a malapena riuscivo a distinguere qualche parola e non feci che grugnire durante tutta la mezz’ora successiva. Riuscii a distogliere lo sguardo da Noah solo quando lo stronzo lo abbracciò e gli ficcò la lingua in gola. Dovetti voltarmi dall’altra parte, perché quello era un dolore che non riuscivo mai a tollerare.

    Provai a parlare con Julia che mi stava chiedendo cosa avrei fatto il giorno dopo. Le risposi che non ne avevo idea ma che, di sicuro, sarei andato a correre da qualche parte. Era l’unico sistema per riuscire a svuotare la mente per qualche ora.

    Quando tornai a guardare verso di lui, lo vidi alzarsi, sussurrare qualcosa all’orecchio del disgustoso macho e andare verso il bagno da solo.

    Non riuscii a resistere. Presi il portafoglio e diedi a Anne la mia carta di credito.

    «Vai a pagare anche per me,» le dissi. «Io vado un attimo in bagno.»

    «Abbiamo già pagato,» mi fece notare la mia amica.

    «Ci sei stato poco fa in bagno,» disse Julia, con molta logica.

    «Che posso dire? Troppi drink,» farfugliai.

    Lo sapevo che stavo agendo come un completo idiota, ma la mia psiche non reggeva più lo stress.

    Quando aprii la porta del bagno degli uomini, lui era in piedi, davanti agli specchi, a sistemarsi i capelli. Mi guardai intorno per assicurarmi che fossimo soli e Noah si accorse subito del mio sguardo furtivo che vagava per il bagno: mi stava osservando attraverso lo specchio.

    Fece uno sbuffo, sciacquandosi le mani.

    «Siamo soli, imbecille!» disse, afferrando della carta assorbente. Si asciugò velocemente e la gettò in un cestino accanto al lavandino.

    Dopodiché, si voltò e incrociò le braccia sul petto, si appoggiò con un fianco al lavandino e mi fissò, in attesa che dicessi qualcosa. Qualcosa che sicuramente lo avrebbe fatto infuriare.

    «Devi farlo proprio tutti i cazzo di venerdì?» gli chiesi, cercando di mantenere un tono basso. Ero rimasto accanto alla porta, così se fosse arrivato qualcuno me ne sarei accorto per tempo.

    «Fare cosa? Divertirmi? Comportarmi come un normale ragazzo senza problemi psichiatrici?»

    «No, comportarti come una troia da rimorchio!» esplosi.

    Rimase immobile a fissarmi, con quel piglio serio che stonava tanto su un viso così angelico ed elegante. Mi odiavo quando mi comportavo in quel modo. Mi odiavo così tanto che non sarei mai riuscito a dire quanto.

    «Siamo ancora a questo punto?» domandò, la sua voce bassa e dal consueto tono rassegnato.

    Non riuscii a far altro che deglutire, rimanendo fermo nella mia posizione e dandogli, in quel modo, la risposta alla domanda che mi aveva fatto.

    «Vaffanculo, Kevin!»

    Si diede una leggera spinta con il fianco e si rimise dritto. Lanciò uno sguardo distratto allo specchio e venne verso di me, con l’intenzione di uscire dal bagno.

    «Fammi passare,» disse, quasi annoiato.

    Era incredibile come fosse cambiato poco nel corso del tempo. Era sempre lo splendido ragazzo che mi aveva fatto girare la testa appena lo avevo visto. Il suo profumo mi stordiva, i suoi capelli mi sembravano fili di seta, biondi e lucenti come quelli di un angelo. I suoi occhi, che adesso erano piantati nei miei, erano contornati da ciglia troppo lunghe per essere vere. La sua bocca era a forma di cuore, carnosa e appetitosa, e mi faceva venire voglia di mandare al diavolo tutte le mie paranoie.

    Non volevo che uscisse da quel bagno, perché sapevo che sarebbe finito a letto con uno che non ero io e mi faceva male da morire.

    Gli afferrai un braccio e mi avvicinai a lui. Non si ritrasse ma dovette alzare la testa per continuare a guardarmi negli occhi. E sapevo che non aveva alcuna paura di farlo.

    «Resta con me, stasera…» soffiai sulle sue labbra.

    I nostri corpi si sfiorarono, ma lui premette le mani sul mio torace, allontanandosi con un sospiro.

    Lo sapevo che mi voleva, che sentiva quanto lo volessi anch’io, e non poteva essere così stupido da pensare che non avessi percepito benissimo il suo sesso contro la mia coscia.

    «Smettila, Kev…» ansimò. «Lasciami passare.»

    «Non andare con lui stanotte, Noah.»

    Mi fissò per un attimo le labbra, tentennando, ma poi alzò di nuovo lo sguardo e mi ritrovai a fissare due splendidi occhi azzurri, pieni di disapprovazione.

    «Hai parlato con la tua omofoba famiglia di ricconi repubblicani?» mi chiese.

    Non risposi e abbassai lo sguardo.

    «Rispondimi, Kev! Hai parlato con loro?»

    «No,» mi trovai costretto ad ammettere.

    «Mmm… E pensi di farlo nel prossimo futuro?»

    «Lo sai quant’è difficile.»

    «Certo che lo so, lo so da quando avevo tredici anni, cazzo!»

    Rimasi zitto, perché non c’era niente che potessi dire: aveva ragione e basta.

    «Lo hai detto almeno alle persone che frequentiamo ogni giorno?»

    Scossi la testa, in segno di diniego. Quella tortura me la meritavo, quindi dovevo solo subirla.

    «Pensi di dire almeno a tua sorella Delia che sei gay?»

    «Io… non…»

    Fece un passo indietro.

    «Allora lo sai benissimo che andrò. Fammi passare!»

    Non potei fare altro che spostarmi dalla porta e sopportare, come sempre, che lui andasse via.

    Non capivo perché, ciclicamente, dovevo infliggermi quel dolore immenso.


    Rimasi a fissare il soffitto della mia camera da letto fin quasi all’alba.

    Riuscii a pensare solo a Noah e allo stronzo con il quale stava passando la notte. Una notte che avrebbe potuto trascorrere con me, se solo fossi stato meno vigliacco e meno idiota.

    Come l’avevano fatto?

    Aveva usato quella meravigliosa bocca su di lui?

    Quell’uomo, tutto muscoli e sesso, era stato delicato oppure lo aveva sbattuto sul letto e via?

    Come gli aveva sfilato i pantaloni e la camicia gialla che indossava?

    Avrebbero fatto la doccia insieme?

    Avrebbero dormito insieme?

    Quelle domande mi tormentavano tutte le volte che vedevo sparire Noah con qualcuno.

    Era così che trascorrevo i miei venerdì da troppo tempo, ormai.

    3

    IN TRAPPOLA

    Uscii prestissimo quel sabato mattina, praticamente senza aver chiuso occhio.

    A

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