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Il diritto di esistere
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E-book343 pagine4 ore

Il diritto di esistere

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Info su questo ebook

Ethan Wells, giovane avvocato afroamericano nato a Vicksburg, in Mississippi, è perseguitato dal ricordo dell’efferata strage della sua famiglia, perpetrata per motivi razziali. Vent’anni dopo lo sterminio, è la melodia di un violino ‒ udita in un pub newyorkese ‒ a riportare a galla un particolare della sua vita che pensava di aver sepolto per sempre: per un caso fortuito, proprio in quello stesso pub, Ethan si ritrova faccia a faccia con l’assassino dei suoi familiari.

Inizia così una lunga caccia al nemico, senza esclusioni di colpi. Durante le sue indagini, Ethan conosce Julia, la sua futura moglie, e ritrova Tommy, un amico d’infanzia. Nella febbrile ricerca di elementi incriminanti a carico dell’assassino, Ethan si troverà a fronteggiare le insidie degli apparati criminali e a scoprire sconcertanti verità, anche sulle persone a lui più vicine.

In un susseguirsi di avvenimenti e inquietanti retroscena, la strada per ottenere giustizia appare tortuosa ma Ethan non si arrenderà fino alla risoluzione finale.
LinguaItaliano
Data di uscita21 apr 2022
ISBN9788831399791
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    Anteprima del libro

    Il diritto di esistere - Elettra G. Cormak

    1

    NEW YORK

    Ethan ritornò a casa e si preparò del caffè. Distolse lo sguardo dal fumo che usciva dalla brocca colma, che continuava a sbuffare, ricordandosi di doverla togliere dal fuoco.

    Tornò sull’involucro che qualche giorno prima David gli aveva lasciato insieme a un biglietto con la frase: Per Ethan: solo se lo ritieni necessario… aprilo.

    Ethan fissò il pacchetto.

    Si alzò e si sporse dalle scale antincendio che immettevano nel cortile, aperto solo da un’unica via d’uscita. Guardò il chiarore della sera, che lentamente si affacciava all’orizzonte.

    Il buio era arrivato, improvviso. Accese la lampada e la puntò sul pacchetto: era indeciso se aprirlo o se aspettare David, suo socio in affari. Dopo ciò che Frank gli aveva rivelato, c’era una vocina che gli ronzava per la testa e lo spingeva ad aprirlo, anche se lui, per il momento, non aveva nessuna intenzione di farlo.

    Qualche minuto dopo, la torcia puntata sul pacchetto cominciava a fare i capricci.

    «Quanto ci mette a tornare!» esclamò riferendosi all’improvviso guasto che aveva gettato tutta la palazzina, incluso il suo appartamento, nel buio. Non ne aveva un’altra di ricambio. Quella sera, anche la luna faceva fatica a uscire da alcuni nembi che oscuravano il cielo. L’aria metteva i brividi. La temperatura era scesa di colpo. Si diresse in camera da letto, tirò fuori un maglione dall’armadio e se ne ritornò nell’angolo cottura.

    Non si rese conto delle ore in cui rimase inerte a fissare l’involucro. La mattina dopo si ritrovò con la testa riversa sul tavolo della cucina e con il pacchetto ancora chiuso.

    Alzò lo sguardo sulla città ancora addormentata, rimasta ferma, fuori dal tempo, ad aspettare che si ripopolasse di suoni e di luci.

    Sebbene non da subito, New York gli era piaciuta.

    Si stiracchiò. L’odore del caffè appena fatto saliva ancora dal bollitore spento. Si alzò e se ne versò dell’altro. Lentamente se lo portò vicino alle labbra e iniziò a sorseggiarlo.

    Si sporse ancora dalle scale antincendio: un uomo era fermo nel cortile e stava leggendo un giornale. Prima di quel giorno non lo aveva mai notato. Ipotizzò che non doveva essere un inquilino del suo palazzo.

    I pensieri di Ethan ritornarono sul pacchetto: quell’involucro chiuso in modo così ermetico doveva contenere qualcosa di importante.

    Lo girò sottosopra. Notò subito il messaggio.

    «Che cosa c’è scritto?» Ethan si sforzò di decifrarlo, ma le lettere erano sbiadite e non riusciva a distinguerle bene. Cercò di aiutarsi con una lente di ingrandimento: Per Ethan. Aprilo solo quando sei solo.

    Quello era il momento buono. Non c’era anima viva: poteva benissimo scoprirne il contenuto. Allora, perché tentennava?

    Lo rigirò più volte tra le mani. Lo annusò: era inodore. Ora quel pacchetto acquisiva, per Ethan Wells, un certo valore.

    Le mani gli tremarono nel momento in cui fu tentato di slegarne i lacci. Qualunque cosa contenesse, c’erano alcune persone più interessate di lui a volersene impossessare.

    Si guardò attorno con circospezione: nessuno. Il timore che qualcuno potesse entrare all’improvviso e saltargli addosso per appropriarsene lo rendeva nervoso.

    Si affacciò di nuovo: era quasi giorno. Il rumore dei figli dei vicini che si preparavano ad andare a scuola lo ridestò dai suoi pensieri fissi su quale decisione prendere.

    Sospirò passandosi la mano sulla fronte. Lo ritastò: era malleabile al tatto, non propriamente duro, fattore che lo distolse dal pensare che vi fosse contenuto qualcosa di legnoso o ferrugineo.

    Considerò che potesse contenere un’arma. Ethan rifletté a lungo anche su quella possibilità.

    Stava per vestirsi e uscire, quando il telefono iniziò a squillare: era David.

    «Ethan, l’hai aperto?»

    «Non ancora. Che cosa c’è sotto?»

    «Aprilo e lo saprai…»

    Nella voce di David, Ethan sentì un qualcosa di misterioso che lo impensierì.

    «Lo farò al tuo ritorno.»

    «Sicuro? Non so quanto ti convenga. Ci sono…»

    «Pronto? David?»

    Nessuna risposta. Probabilmente era caduta la linea.

    «Pronto! David?»

    Niente. Poco dopo aver riattaccato il ricevitore, il telefono riprese a squillare: questa volta era Frank.

    «Ethan, con chi stavi parlando?»

    «Dove sei?»

    «Rispondi. Era David? Se sì, ascoltami. Se ti ha consegnato qualcosa… non aprirlo per nessuna ragione, o ci andranno di mezzo persone innocenti! Dammi retta.»

    Frank sembrava ansioso di riattaccare.

    «Che diavolo sta succedendo?»

    «Julia… non farlo!» Appena sentì il nome di sua moglie, Ethan cedette.

    «Okay, non lo farò.»

    «David, non ha aggiunto nient’altro?»

    «Mi ha detto solo di aprirlo. Di che cosa si tratta? Vuoi spiegarmi?»

    «Non ora. Ho fretta. E non chiedermi come ho fatto a scoprirlo…»

    La storia si stava complicando.

    «Devi fare attenzione. Ci sono persone che non scherzano. Faresti meglio a seguire il mio consiglio. Aspetteranno il momento opportuno per appropriarsene. È gente che non si fa scrupoli ad ammazzare.»

    Ethan riattaccò il ricevitore e si sedette su una sedia in cucina. Fissò ancora il pacchetto.

    Anche se a fatica, avrebbe aspettato, ma prima o poi avrebbe dovuto dar voce all’ istinto che gli suggeriva di scoprire cosa ci fosse contenuto al suo interno e aprirlo…

    Sdraiato sul letto, i ricordi del passato ritornavano a torturarlo. La sua infanzia era trascorsa diversamente da come di solito la vive un adolescente. Una cosa ricordava con precisione: la musica di un violino…

    Con il senno di poi, non aveva nessuna intenzione di pensare a cosa avrebbe fatto, se le cose fossero andate in modo diverso. Doveva vincere l’ostilità che gli impediva di comunicare con chi gli viveva accanto.

    Suo padre gli aveva insegnato ad avere coraggio.


    Ethan si chiese se il coraggio significasse anche questo: non spaventarsi, affrontare la realtà. Ma il dramma vissuto in quegli anni disgraziati, no, non poteva dimenticarlo.

    Dopo la tragedia in cui furono assassinati tutti i membri della sua famiglia, si era trasferito a New York. Lui non era mai stato bravo a narrare i fatti. Ci aveva provato tante di quelle volte! Tuttavia la sua mente centellinava come un sommelier scrupoloso ogni scena, ogni dettaglio del giorno in cui tutto gli era crollato addosso.

    Il suo desiderio più grande non era crescere e affrontare la vita adulta in una città che non sentiva sua. Poi c’era sempre quel crimine irrisolto, unito alla tragedia della sua cara amica d’infanzia, Melissa, che lo legava ancora alla sua terra.

    Era difficile restarsene in solitudine.

    Socchiuse gli occhi: il fischio del treno, che correva lungo la ferrovia di Vicksburg e che collegava il Mississippi all’Illinois, lo immerse nei ricordi della piantagione di cotone.

    I primi tempi l’impatto con la grande città non era stato dei migliori. Ethan se ne rimaneva chiuso in camera a fissare la gente che passava sotto la sua finestra. Un viavai continuo al quale difficilmente si sarebbe abituato.


    I suoi pensieri viaggiarono indietro nel tempo, a zia Martha: una donna bella, con quei suoi capelli ricci e neri, lunghi fino alle spalle.

    «Che fai? Piangi?» gli chiese una sera di tanti anni prima. «Dai, salta su!»

    Ethan si era fermato ai piedi del letto, aspettando che Martha spostasse le coperte per farlo entrare.

    «Che cosa ti ho insegnato? Non devi lasciare che i ricordi prendano il sopravvento condizionando il tuo futuro.»


    A quell’ennesima rievocazione, Ethan sospirò. Guardò oltre i vetri della finestra, e per un attimo ci vide riflesso il volto di sua zia.


    «Smettila di essere imbronciato. Ovunque si trovino, regala loro un sorriso. Senti come batte il tuo cuore? E, finché pulserà, essi rimarranno vivi dentro di te…»

    Ethan rammentò di aver appoggiato il viso sul seno di Martha e di aver pianto.


    I colori e le luci di New York lo quietarono un poco, anche se li percepì diversi e più accesi di quelli della sua terra. Non si era ancora abituato del tutto al viavai newyorkese, sebbene la città fosse affascinante. Ciò nonostante, le sfumature che gli regalava il Mississippi erano le note che preferiva, come il cool jazz era il genere musicale favorito di quasi tutti i neri d’America.

    Dopo la prima settimana passata dai vicini, si era trasferito a casa dell’unica parente che gli era rimasta, benché quel trasferimento improvviso gli stesse stretto, vivendolo in modo distaccato dall’affetto che lei gli dimostrava.

    New York era una gabbia per un ragazzino di soli dieci anni; uno spazio limitato che lo costringeva a giocare in un’area grigia e senza luce al posto dei campi di mais in cui spesso si perdeva: a occhi chiusi, il colore dorato delle spighe scorse come un flashback a rammentargli le sue radici.

    Ogni giorno Martha gli dimostrava quanto amore provasse nei suoi confronti, ma più il tempo passava, più Ethan sentiva la sua anima non trovare conforto.

    «Non ti piace vivere qui con me? Vedrai che con il tempo ti ci abituerai.»

    A cena sedevano in silenzio, qualche volta rotto dalla musica di un giradischi dei vicini. Una sera lui rammentò di averla fissata negli occhi.

    I pensieri di Ethan si alternavano all’implacabile risentimento, radicatosi nell’animo di un bambino che aveva perso tutto in poche ore. Non doveva arrendersi. Suo padre glielo ripeteva spesso.


    «La speranza è l’unica arma per non cedere ai ricatti. Non farti sopraffare dalla voce dell’odio. Ci sono uomini che seminano il male su questa terra, ma rammenta: la vendetta non è un buon rimedio per migliorare la propria condizione sociale. Tu hai il diritto di esistere come tutti…»


    Si disse che niente o nessuno avrebbe potuto costringerlo ad amare la vita. Ethan sperava che con il tempo il dolore si attenuasse e che anche gli incubi, prima o poi, sparissero.

    Non sapeva se fosse veramente vivo, se ce l’avesse fatta davvero.

    Accadde una mattina di tanti anni prima, quando ancora adolescente si sentiva così fiducioso verso la giustizia, che sentì svanire come la polvere degli zoccoli dei cavalli che avevano oltrepassato il recinto di alcune fattorie senza curarsi di calpestare i campi di mais e di cotone. Ethan socchiuse gli occhi, e come il vento che quel giorno fece frusciare le foglie sui rami, i suoi pensieri si abbandonarono ai ricordi…

    Quell’estate se la ricordava calda, intensa nel modo in cui i grilli assetati si affollavano nell’erba bagnata di rugiada.

    «Ethan Wells! Scendi subito dall’albero e torna in casa!» La voce di sua madre prese vita nei suoi pensieri. Madies aveva ricavato uno scudiscio da un ramo d’albero e glielo aveva mostrato, agitandolo simile alle ali delle libellule quando le sbattono per sfuggire ai predatori.

    Doveva ammetterlo: era stato sempre un gran disubbidiente, e ancora di più quando il tempo era buono, le giornate miti e la voglia di uscire talmente forte che non ce la faceva a resistere, soprattutto alla voce di Tommy che gli urlava di seguirlo. Si era sempre chiesto come si potesse tenere un bambino tappato in casa a studiare. Così andava a rifugiarsi sul suo albero.


    Dalla pianta scorgeva suo padre tornare dai campi di mais trainando a fatica il carretto pieno di pannocchie, che avrebbe poi sistemato nel fienile.

    Per Ethan era facile arrampicarsi sul ramo più alto; aveva iniziato fin da quando Bill Jones, un ragazzo di soliti tre anni più grande di lui, glielo aveva insegnato. Da quella volta ormai lo faceva tutti i giorni. Dalla cima, i suoi occhi seguivano la signora Saide, la mamma di Tommy, la quale viveva insieme al suo unico figlio e al marito ubriacone, nella fattoria poco distante da quella di Ethan.

    La madre di Ethan, appoggiata al tronco, girava lo sguardo attorno farfugliando tra sé certe frasi dettate più dalla rabbia che dal buonsenso. In quel momento a Ethan era apparsa come una pazza da poco uscita da una scarica di elettroshock.

    Un po’, doveva ammetterlo, gli dispiaceva. Ma suo padre gli ricordava spesso di essere un Wells, e lui non voleva di certo arrendersi a una donna! Quella fu una delle poche volte in cui Ethan poté osservarla in silenzio, ridendo della sua aria buffa e delle mani sui fianchi larghi, gli occhi fuori dalle orbite. Sopra il suo albero si sentiva imprendibile, al punto da continuare a beffarsi di lei sottovoce.

    «Ma’! Non riuscirai mai a prendermi!» Si ricordò di averle detto un giorno.

    «Ah sì? Ne sei sicuro? Se non scendi subito le prenderai fino a che non saremo arrivati a casa!»

    «E io rimarrò quassù per sempre!»

    Seduto su un ramo, il viso di Ethan riverberava sul fogliame, reso lucido dai riflessi del sole che filtravano tra le fronde.

    A volte, per dispetto, cominciava a tirare verso di lei piccoli rametti rinsecchiti che andavano a impigliarsi nei suoi capelli crespi e folti.

    «Lo so che sei ancora lassù! Non puoi restarci per sempre! Vedrai, quando il tuo stomaco inizierà a brontolare…»

    Ma ogni volta Ethan scrollava le spalle. Certi giorni, per non dargliela vinta, rimaneva arrampicato fino a sera. Tanto c’era Tommy che pensava a rimediargli qualcosa da mangiare.


    «Dai! Tirami giù il cesto…» Ethan obbedì alla voce perentoria di Tommy, e lasciò andare la corda con cui teneva legata una piccola cesta di vimini.

    «Fatto.» Tommy diede due tirate alla fune affinché Ethan la tirasse su.

    «Un’altra volta mais e pollo?»

    «Ethan, di che ti lamenti? Oggi sono riuscito a trovare solo questo. Che colpa ne ho io se in casa mia siamo costretti a tirare la cinghia? Guarda. L’ho dovuta stringere di un altro buco. Quel lurido bastardo di mio padre ci sta affamando!»

    «Scusami… Tommy, ringrazia tua madre…»

    «Lei dice che non dovresti fare arrabbiare la tua in questo modo. Ti vuole bene. E poi, ma che cazzo ci stai a fare continuamente arrampicato su quell’albero?»

    «Da quassù ti appare tutto diverso, Tommy. Ti sembra di toccare il cielo e di volare insieme agli aironi. Perché non provi anche tu?»

    «Oggi no. Ho da fare… Poi non ci trovo niente di divertente. Ti saluto.»

    «Dove vai?»

    «Al solito posto, a fumare. Ho rimediato più di un mozzicone di sigaro. Uno da mio padre e uno da quel vecchio bavoso di Sammy Mason, che proprio oggi è venuto a casa nostra a trovarlo.»

    Ethan se ne stava appollaiato a gustarsi la cena con avidità, mentre con lo sguardo seguiva Tommy dirigersi verso lo Swan, il vecchio battello, preda delle molteplici scorribande nonché loro rifugio quando volevano nascondersi, lui dalle punizioni di sua madre e Tommy dalle frustrate di suo padre.

    Qualche volta Ethan lasciava Tommy di vedetta, affinché lo avvertisse nel momento in cui sua madre avrebbe svoltato l’ultimo tratto del sentiero che conduceva alla loro fattoria.

    «Dai! Accidenti, Ethan. Fa’ in fretta!»

    Quando sua madre spariva risucchiata dalla penombra dell’ambiente interno all’abitazione, per avvisarlo del cessato pericolo Tommy imitava con un fischio il sibilo del treno.


    Ethan si rigirò nel letto, con ancora la voce di Tommy che imitava lo stridore del treno sulle rotaie. Socchiuse gli occhi e smozzicò un bastoncino di cannella. Infine, si alzò e guardò fuori dalla finestra: New York dormiva, sospesa come una ballerina tra i fumi delle ciminiere. Si ributtò a peso morto sul letto.


    L’espressione di Tommy si era riaffacciata alla memoria: lo pregava con il viso sporco di fango e l’aria terrorizzata, perché sua madre, la signora Saide, convogliava nelle sue gambe snelle tutta l’energia per acciuffarlo. Susan Saide era bella, si ricordò: di una bellezza melanconica che rifletteva nei suoi grandi occhi azzurri. C’era stato un periodo in cui Ethan se ne era invaghito, cercando in ogni maniera di rendersi utile, visibile, non come un bambino, ma come un uomo desideroso delle sue carezze. Lei lo aveva intuito. Susan Saide era una donna intelligente e altruista; possedeva quel fascino particolare che distingueva le donne di gran classe dalle altre.


    Sdraiato sul letto, socchiuse ancora una volta gli occhi. La sua mente si perse tra i campi rigonfi di pannocchie, sorvegliati da un cane che sonnecchiava illuminato dai primi raggi rossastri dell’alba.


    Si risvegliò da quel torpore e tirò fuori dalla tasca un altro bastoncino di cannella.

    «Per questa sera me lo farò bastare,» si disse, allungando lo sguardo su New York ancora immersa nelle luci dei lampioni accesi.

    Mentre si gustava il bastoncino di cannella, si ricordò che non si stancava mai di succhiarli. Fin da bambino aveva mostrato un vivo interesse per questa spezie. Era soprattutto nelle prime ore del mattino, dopo averli nascosti sotto il cuscino, il momento buono per tirarne fuori uno o due cercando di finirli prima che sua madre salisse in camera a svegliarlo.

    «Non ti avevo forse ordinato di smetterla?»


    Ethan avvertì un fremito di freddo, come se veramente fosse ritornato alla sua fattoria. Nella sua testa percepiva i passi grevi di sua madre mentre saliva le scale che portavano in soffitta. A queste sensazioni, la voce di suo padre che risuonava nella grande vallata lo scosse dal suo dormiveglia. Quel giorno, la sua eco aveva sovrastato il fiume che scorreva a tratti lento, a tratti rapido nel suo letto frastagliato da innumerevoli insenature finché, stanco del suo lungo viaggio, non si amalgamava all’acqua del mare.

    Ogni giorno Ethan lo aspettava appoggiato alla staccionata che recintava la fattoria, in attesa che raggiungesse un punto preciso e lo caricasse sul carretto pieno di pannocchie. Da lontano sentiva le ruote sgangherate avanzare lungo il sentiero polveroso che costeggiava il fiume. Per punizione, spesso e volentieri sua madre lo rinchiudeva nel solaio. Ethan si affacciava dall’unica finestrella e lo seguiva con lo sguardo, dal sentiero fino a casa.


    Sospirò lungamente ripensando a sua sorella Liza che apparecchiava la tavola. Ethan seguiva in silenzio ogni movimento senza mai perderla di vista. Sapeva che, alla fine, con una scusa gli avrebbe fatto pagare la pigrizia per non averla aiutata.

    Ogni momento era buono per ritrovarsela dietro la sedia su cui era seduto, a pizzicarlo e a tirargli le orecchie.

    «Mamma!» si ricordò di avere urlato affinché lei intercedesse in sua difesa.

    «La volete smettere voi due? O anche stasera devo lasciarvi senza cena?» Ethan rammentò il mestolo di legno con cui sua madre girava la minestra e che aveva sollevato minacciosa mostrandolo a entrambi.

    Sorrise al ricordo dei genitori che conversavano. La voce di suo padre Jeremia gli piaceva, soprattutto quando dava modo ai suoi figli di intervenire. La solitudine in cui si rinserrava suo nonno Caesar, meno. Nella comunità doveva viveva, Caesar era conosciuto da molti come un uomo stravagante. Quando osservava le persone con i suoi occhi scuri, era come se scrutasse una roccia che brillava sotto i raggi del sole. Ethan aveva imparato che nella sua solitudine lui era in grado di ascoltare il vento spirare sulla loro terra; di scoprire che, nell’azzurro terso di un cielo limpido, gli aironi si alzavano in volo per nidificare altrove e che, quando fissava i campi colmi di erba appena spuntata, il vento che li lambiva gli sussurrava un segreto sconosciuto agli altri. Tuttavia, quando si appisolava sulla sedia a dondolo, Ethan lo scorgeva vulnerabile, attaccabile come quei guerrieri che, dopo aver tolto la corazza prima di andare a riposare, venivano sorpresi nel sonno.


    Caesar sonnecchiava cullato dal dondolio della poltrona e, appena riapriva gli occhi, brontolava perché non c’era niente in tavola.

    «Madies! C’è ancora molto da aspettare per avere un po’ della tua brodaglia?»

    «Avessi solo questo da fare!» Madies alzò gli occhi su suo padre e li riabbassò sul punto in cui aveva iniziato a ricamare un paio di vecchi asciugamani. Ogni tanto si alzava per controllare il pentolone nel quale aveva messo a bollire dell’orzo, insieme a qualche pezzo di cipolla e chicchi di mais.


    Ethan era sempre stato un gran curioso. Si ricordò che anche quella sera, vinto dal desiderio, per l’ennesima volta aveva sbirciato all’interno di un’altra pentola dove sua madre aveva messo a cuocere alcune patate dolci e aveva cercato di afferrare al volo quella che ancora era rimasta a galla nell’acqua bollente.

    Ciò nonostante erano più le volte che prendeva schiaffoni sulla mano rispetto a quelle in cui riusciva ad agguantarla e a filarsela.


    Per un istante, smise di succhiare il bastoncino di cannella, spostò il suo sguardo dai grattacieli di New York al palmo della mano e sorrise.

    La sua grande curiosità non lo aveva mai portato a niente di buono. Anche a New York, ripensandoci, tutto aveva avuto inizio per il suo innato desiderio di conoscere la verità.

    Molto spesso non se ne rendeva conto e proseguiva caparbio nella sua ricerca, domandandosi perché alcune cose succedevano o andavano per un verso invece di un altro. Come quei bambini che trafugano le bambole alle sorelline per guardare cosa c’è dentro.

    Ethan rimase a fissare il palmo delle mani, poi gli infissi della finestra: la voce di sua madre gli risuonò nelle orecchie simile a un rombo di tuono che lentamente si allontana…


    «Pa’, la smetti di lagnarti?» La madre di Ethan a volte era stanca di ripetere sempre le stesse cose. Non le piaceva sentirlo brontolare.

    «Ethan, cerca di non dar noia a tuo padre? Sempre la solita storia. Non ha tempo di raccontarti delle favole. Domani deve alzarsi presto… E anche tu. Finisci di cenare e fila a letto!» urlò verso Liza quella sera. Ethan si ricordò di averle tenuto il broncio, ma aveva aspettato comunque che suo padre iniziasse a raccontargli la vera storia della loro famiglia, di com’era finito in quel paese che non era il suo, costretto a lavorare giorno e notte su una terra che non gli offriva nient’altro che sofferenza.

    «Mi sono fatto le ossa qui. In questo paese la maggior parte della gente non ci considera esseri umani…»

    Suo padre era un uomo molto religioso, e Ethan si aspettava che prima o poi pronunciasse parole che gli avrebbero risollevato il morale.

    «Ethan… Non ho mai smesso di sperare. Mi sono sempre detto: Jeremia, pensa al domani, pensa che un giorno tu sarai un uomo libero e rispettato da tutti …»

    «Pa’, che ti prende?»

    «Niente, figliolo…» sussurrò. Gli occhi neri di Jeremia si distolsero da quelli di suo figlio.

    Tutto sonnecchiava; l’ambiente sembrava fermo, sospeso in due dimensioni parallele. Si sentiva soltanto lo scoppiettio del fuoco nel camino e il tintinnare leggero delle vettovaglie.

    Ethan era in grado di percepire quel piccolo universo come un qualcosa di magico, come un qualcosa in grado di armonizzarlo con la realtà. Questo era il solo modo che conosceva per continuare a vivere.

    L’estate, in Mississippi, era considerata una bella stagione. A volte, invece, scoppiavano dei terribili temporali e l’acqua inzuppava i tetti delle capanne di paglia dove vivevano i raccoglitori di cotone. Perfino i batuffoli bianchi si impregnavano al punto che bisognava aspettare che si asciugassero ai primi raggi di sole. Il difficile era capire quando raccoglierli, per non farli ammuffire. Tutti aspettavano la fine di giugno, poiché i campi di cotone iniziavano a infoltirsi.


    Il rumore di un aereo distolse Ethan da quei pensieri.

    Sui vetri della sua camera da letto, a New York, si riflesse il volto di suo padre. Pioveva. Quel giorno il cielo aveva deciso di scaricare giù tanta di quell’acqua, che nemmeno i pesci erano più convinti di voler nuotare nel fiume. Ciò nonostante, Jeremia era rimasto chino a vangare il suo orto.

    «Pa’. Sono arrivati!» Ethan era accoccolato sul suo albero e allungava lo sguardo sulle auto nere che avevano già varcato la staccionata della fattoria.

    «Insistono e insistono. Non l’avranno, né ora né mai!»

    Jeremia si girò verso gli uomini che avanzavano. Per pochi secondi aveva smesso di zappare, piantando lo sguardo sui loro vestiti eleganti. Era visibilmente contrariato quando venne a sapere che alcune famiglie avevano ceduto alle generose offerte affinché vendessero la propria fattoria. Jeremia aveva scosso la testa ed era tornato a lavorare nell’orto.

    «La mia non l’avrete!» disse ricominciando a vangare più forte.

    «Stia tranquillo, Wells: nessuno oserà ostacolarci. Siamo qui per aiutarvi.»

    Ma Jeremia Wells non si fidava di nessuno.


    Erano passati circa vent’anni da quando Ethan era stato costretto a trasferirsi nella città di New York. Sdraiato sul letto, il trillo del telefono fece sì che i suoi pensieri si rivolgessero altrove.

    Non doveva più pensarci, era acqua passata… ma pur desiderandolo, difficilmente i ricordi lo abbandonavano. Era come se il cervello ogni notte ne inserisse di nuovi e sempre di più, fino a quando lui non se ne ricordava degli altri. Un intreccio di rimandi e significati che ogni tanto riemergevano dal suo inconscio. Come il volto dell’uomo che quella mattina si era appostato sotto il tronco dell’albero dove lui si arrampicava e aveva trucidato la sua famiglia.


    «Queste sono le ultime balle di cotone.» Era la voce di suo padre che, come una musica lontana, ritornava a farsi strada tra i ricordi.


    «Quest’anno siamo stati fortunati. Non possiamo lamentarci.»

    Un uomo tutto d’un pezzo, il quale non sarebbe mai sceso a compromessi. Jeremia non era abituato ad arrendersi tanto facilmente alle difficoltà che la vita gli proponeva. Tenace se c’era da lottare; irremovibile quando decideva di tramandare ai suoi figli quei valori umani di rispetto verso tutte le cose e le persone, perché ogni vita, diceva, ha il suo peso nella società.


    «Ascoltami, figliuolo. Non

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