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Prima che il buio
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Prima che il buio

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About this ebook

Il racconto di una generazione. Una storia d’amore, di amicizia, e di guerra.
“Prima che il buio” di Nico Priano è il racconto di una generazione cresciuta troppo in fretta tra fame e guerra, un’umanità fragile, dunque, ma tutt’altro che arrendevole.
 
Michele e Giulia sono due adolescenti. Lui figlio di contadini, lei unica figlia di una famiglia benestante, di origini ebraiche. Le loro vite si incontrano e si legano in un’unione tenace, irrinunciabile. Ci penserà la guerra a dividere i due ragazzi, tra angosce e speranze, tra la paura di non farcela e la voglia di vivere. Attraverso la loro vicenda, il romanzo racconta il decennio compreso tra il 1935 e il 1945, legando gli eventi della Provincia Piemontese, dell’Ovadese in particolare, con quelli nazionali e internazionali.
Dal crollo della Diga di Molare, all’entrata in Guerra dell’Italia, dalla disfatta sul fonte della Cirenaica, agli episodi della guerra resistenziale combattuta sui monti dell’Appennino Ligure-Piemontese. Tra le pagine del libro affiorano figure celebri e altre poco conosciute, ma altrettanto decisive e determinanti.
 
Il libro si conclude con un’appendice che riporta il lettore ai giorni nostri e riavvolge il filo della narrazione.
Michele ormai vecchio, racconta la sua storia ai nipoti. È una sera di giugno proprio come quella che dà il via alla vicenda, sessantacinque anni prima. Una casa di campagna, un prato, il volo di una lucciola. È il suo chiarore intermittente ma ostinato a rappresentare la Memoria, ciò che resta al cospetto del Buio dove l’aneddotica svanisce e i ricordi si spengono.
Resta una Storia che chiede di essere raccontata. Ancora una volta.
LanguageItaliano
PublisherNua Edizioni
Release dateJul 15, 2021
ISBN9788831399548
Prima che il buio

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    Prima che il buio - Nico Priano

    1

    Giugno 1935

    L’alba si era presentata all’Oriana con l’abbaiare di un randagio e il volo di una gallina. Un volo che non portava da nessuna parte e soprattutto non avrebbe mai permesso alla rossa di vedere la cascina dall’alto, di planare sui filari coltivati a Dolcetto, sui campi di erba medica e sulla stalla, di fare un verso da lassù alle capre e alle oche.

    Era un volo, quello delle galline, che ricordava certi slanci della fantasia, in particolare lì, dove la vita era dura per tutti e spazio per fantasticare ce n’era poco. Si volava basso, per inerzia, sognando tempi migliori. Così era stato fino ad allora, pensava Michele, sveglio nel letto, mentre il sole s’infilava piano dentro la stanza.

    Adesso però c’era qualcosa di nuovo in lui e pure nelle cose che aveva intorno. Un nome da dire e da ridire all’infinito, un’immagine che non se ne andava nemmeno quando chiudeva gli occhi, anzi.

    Si alzò e sul tavolo della cucina trovò una tazza di latte di capra ancora tiepido. Nel cortile, gli strumenti da lavoro poggiati qua e là: una carriola, una cesta, un paio di scarpe vecchie addossate al muro.

    Il cielo prometteva burrasca e il vento di mare sembrava volere entrare nelle case e tirar fuori quello che trovava dentro, persone, oggetti e storie, e mettere tutto insieme, come si faceva quando si bruciavano le cose vecchie e inservibili.

    Ma lì tutto era vecchio. Un universo intero, un mondo che si trascinava in una specie di penombra, con le sue case antiche, le aie sassose, i pozzi, le cantine, le stanze piene di arredi miseri, di vettovaglie e utensili destinati a lavori faticosi e desueti.

    Poi, però, sarebbe ritornato il sole, quello di giugno. Avrebbe sedotto persone e cose con parole irripetibili. Frequentava quei posti da chissà quanto tempo. E così la gente, di generazione in generazione. Ne conosceva i nomignoli, tramandati di padre in figlio, le avventure, le sventure, le occasioni, i passi falsi. E le rughe, le voglie, le cicatrici. Conosceva quelli nati con la camicia e quelli venuti fuori con l’itterizia, gialli come limoni, e i settimini e i gemelli biovulari. Tutti a gridare, sotto quel cielo monferrino, tra le vigne e i campi d’erba medica. Un universo che sembrava marginale, dimenticato, lontano dalle grandi città, dove le notizie arrivavano già chiacchierate, dove il presente era un tratto di fiume così distante dalla sorgente. E lì, in quelle case contadine, vivevano fino all’estinzione famiglie di esseri umani e di animali: capre, mucche, cani. Lignaggi poveri, spesso unica eredità per i nuovi arrivati. Gli Scarzurein, i Balurdon, i Badul, i Bugianent, quei d’Michè e tutti gli altri, fino a giungere a Giovanni delle Corriere, perché È la funzione che crea l’organo, diceva Lamarck, e a volte non solo quello ma anche il nome che ti porti appresso.

    Michele c’era nato all’Oriana, così come c’erano nati suo padre e suo nonno.

    Anche Mina, la capra, aveva visto la luce lì, e pure i maiali, il vitello e decine di conigli, tutti grigi, come l’autunno.

    Il ragazzo osservò la casa dalla soglia: l’intonaco rosa pallido, le persiane verdi, il tetto e la porta, anche quella verde ma di un colore sbiadito, stancato dal tempo. E poi più in là gli alberi da frutto: il ciliegio, i peri e il noccioleto, che scendeva a sbalzi verso lo spiazzo coltivato a orto, con il pozzo in muratura, precisamente nel mezzo.

    Dietro la stalla invece c’era il pollaio e ancora dietro la conigliera. Da qualche anno sul lato destro della casa, suo padre aveva costruito la latrina. Un rettangolo di legno e lamiera con una finestrella che dava sul vigneto.

    Quella era l’Oriana. Una cascina a tre chilometri da Molare, mezz’ora buona fatta a passo svelto.

    «Ma sei ancora qui? Non ti sei ancora cambiato?»

    Dusolina, la sorella di Michele, guardava il fratello scuotendo la testa. Capelli scuri, occhi verdi come un fiasco da imbottigliare e una bocca larga e carnosa sempre impegnata in chiacchiere. Diciott’anni aveva Dusolina, ma fidanzati niente. Ché non aveva tempo per quelli, diceva lei.

    «E mettiti la camicia bianca, ma prima lavati un po’. Te lo do io un bel pezzo di sapone.»

    «Sì, sì, neanche si sposasse il Re o il Duce. Piuttosto, me li hai cuciti i calzini? Quelli bucati davanti, ché mi servono, non per oggi, ma…»

    «Cuciti e piegati. Sono nel cassetto, vicino alle canottiere e alle mutande. Adesso fammi andare, ché devo portare l’acqua nella vigna. La mamma e il papà sono lassù dalle sei! Va bene che oggi c’è il matrimonio del tuo amico, ma se non è una cosa è l’altra, sempre una scusa, dovresti vergognarti, e parecchio.» La ragazza guardava il fratello con aria di rimprovero. «Stamattina era ancora buio che ho sentito passare Remigio. Ha due anni meno di te ed è già lì, a Uasina, a seminare zucche e verze. Dovresti lavorarci un po’ anche tu per il marchese, invece di andare in giro di giorno e di sera. A proposito, ieri ho spento la candela che sarà stata mezzanotte e non c’eri ancora. Non lo dico per me, eh, ma la mamma si preoccupa, lo sai.»

    «Hai finito? Ieri sono andato alla fiera di Cassinelle. Ho fatto tardi per colpa della bicicletta. Ho forato. Può capitare a tutti, no? E comunque uscire di casa farebbe bene anche a te. Finirai zitella se continui così, ché già una gran bellezza non sei, se poi ti chiudi in casa è anche peggio. Cosa aspetti? Il principe delle favole?»

    Neanche il tempo di finire la frase che Dusolina se n’era già andata con una bottiglia di vetro per mano verso la cima della collina.

    Era bella la collina dell’Oriana. Da lassù lo sguardo abbracciava le montagne, i castagneti e i campi di grano, fino al fiume che scorreva in fondo alla piana a lambire sponde di tufo, tra acacie e pruni selvatici.

    Al di là di quell’orizzonte c’era Genova, città di gente furba, gente d’affari, abituata al mare, a quel vento che prendeva le cose e le trasformava, le riempiva di profumi, le lucidava come scarpe da ballo.

    Guardando dalla parte opposta, invece, il panorama diventava piatto, come a stendere un lenzuolo matrimoniale, di quelli larghi, fino a Tagliolo, riconoscibile dalla sagoma del castello. Nelle giornate più limpide si riuscivano a scorgere montagne lontanissime, innevate fino a tarda primavera. Posti che non avevano un nome, dove né Michele né i suoi amici erano mai stati e dove probabilmente non sarebbero stati mai.

    L’Oriana si poteva raggiungere in tre modi. Tre strade o per meglio dire tre sentieri.

    Il primo tagliava dalla direttrice Cassinelle-Molare, l’altro lambiva le case dei mezzadri di Campale e il lavatoio, l’ultimo attraversava il borgo dei Pliz, tra oche e galline. Viottoli di puro sterro, buoni per gli uomini e per le bestie, dove i carri passavano a fatica.

    Michele abitava all’Oriana con la sorella e i genitori, Pino ed Eliana, due quarantenni cresciuti troppo in fretta tra fame e guerra. Pino era stato sul Podgora, in trincea, e c’era mancato davvero poco che il suo nome non finisse in mezzo agli altri, sulla lapide dei caduti, in piazza, a Molare. Lui li conosceva bene, uno per uno, i ragazzi citati sulla lapide, ne ricordava la faccia, la voce, i soprannomi.

    Alcuni di loro erano crepati subito, appena arrivati al fronte, altri erano morti in seguito, magari dopo il ritorno a casa, a causa di mutilazioni o malattie contratte in trincea.

    Pino se la sognava ancora adesso la guerra: il freddo, il fango, il buio dei camminamenti, il sangue.

    Ma se la guerra popolava i suoi sogni, restava invece fuori dai suoi discorsi. Anche con Eliana, Pino si limitava alle frasi retoriche, di uso comune, che avrebbe potuto dire chiunque. Ricordi pochi e radi, liquidati in un brivido.

    Eliana l’aveva conosciuta a scuola, su al santuario della Madonna delle Rocche. Una sezione unica che raggruppava i bambini della zona. Lei viveva a pochi passi dal bosco in una cascina di dimensioni modeste. Niente terra, solo un piccolo pollaio. Giovanni, suo padre, era il postino di Molare, sua madre invece si arrangiava con lavoretti di sartoria, giusto per arrotondare il magro salario del marito.

    Pino ed Eliana si erano fidanzati presto e si erano sposati poco prima dello scoppio della guerra.

    Dusolina era nata mentre il padre si trovava al fronte, figlia di una licenza premio conquistata nel macello di un assalto. Una lettera, la grafia stentata, una fotografia.

    Michele, invece, era il figlio del reduce, la spiaggia deserta di un naufragio, il germoglio che colorava un ramo secco.

    La sera precedente, Michele e i suoi amici erano stati a Cassinelle, alla sagra del paese, per festeggiare l’addio al celibato di Severino, il primo della compagnia a fare il grande passo.

    Il ragazzo aveva deciso di trascorrerla così la sua ultima notte da scapolo, con le gambe sotto il tavolo e il fumo dei ravioli che saliva dalla scodella e ti si infilava nel naso. Con il vino rosso, i ravioli, l’orchestra, il ballo e le ragazze vere, quelle che andavano lavorate, conquistate sul campo.

    L’alternativa sarebbe stata quella di spendersi la banconota che aveva in tasca al casino, da Marianna, la custode, che prima prendeva i soldi e li infilava nel grembiule e poi te lo insaponava, nell’acqua calda.

    «T’ei furtnò, fanciot, ché quella nuova di Alessandria ha finito il marchese proprio ieri.»

    No, niente casino, il gruppetto di amici si era dato appuntamento ai lavatoi di Campale, prima del tramonto.

    Oltre a Severino e a Michele, a cavalcioni delle biciclette, c’erano Tullio e Franco delle Caminate.

    Tullio era conosciuto da tutti come il Boxeur per il suo talento sportivo, supportato però da una volontà scostante che lo aveva visto abbandonare più volte i ring, deciso a smettere, per poi ripresentarsi e magari vincere contro ogni pronostico, giusto per fare colpo su una ragazza o rimediare un po’ di soldi quando non spicciolavano più nelle tasche.

    Alto, capelli neri e un tatuaggio che rappresentava il muso di una tigre con le fauci spalancate e i denti affilati.

    Ne aveva stesi parecchi e la sua fama era cresciuta, a Molare e nel circondario, al punto che ormai si mettevano contro di lui solo i matti e gli ubriachi, gli altri cercavano di stargli alla larga.

    «Allora? Anduma?»

    Severino tirava l’andatura con le bici che procedevano in fila indiana: le dinamo come lucciole processionarie a piegare sui tornanti e poi in alto, sulle rampe, a sobbalzare tra i filari di vite e gli alberi da frutto allineati sul ciglio della strada.

    Il primo sasso rimbalzò proprio davanti alla bicicletta di Severino, il secondo fischiò nell’aria, perdendosi poi in un fosso.

    Non si trattava di una grande sorpresa, anzi, capitava regolarmente che in occasione di sagre e feste patronali si scatenassero schermaglie di campanile più o meno accese. I foresti non erano bene accetti. E non c’erano altri modi di impartire quella lezione al di là delle maniere forti: una sassaiola, una rissa, la lama di un coltello in bella mostra.

    Erano conti aperti, destinati a restare inevasi per sempre.

    Michele aveva allungato il passo, con la stoffa di un vero ciclista. Era fiero della sua Wally, una bici con il manubrio ricurvo e i freni a bacchetta, ridipinta di verde per assomigliare a una Campagnolo, roba da campioni.

    A scegliere il nascondiglio fu Severino. «Ce l’ho già messa altre volte, tranquilli. E poi è il posto giusto per cambiarci, metterci le scarpe buone, da ballo. E te, Franco, ci sei andato dal barbiere a farti dare la brillantina?»

    L’amico rispose facendo l’occhiolino. «Ne ho per tutti. Tre barattoli ne ho preso. E quell’uruk non si è accorto di niente.»

    La sagra era stata allestita in un grande spiazzo: i tavoli del ristorante, i giochi a premi rudimentali e in mezzo la pedana riservata all’orchestra. Un cartello appeso al ramo di un albero recitava: Le Dolci Note, i classici della musica da ballo italiana.

    I quattro amici finirono i ravioli gustando il brodo vinoso in fondo alla scodella. Un rutto, una risata e la luna appesa in cielo, come un gomitolo in mezzo agli spilli.

    2

    «L’hai vista?»

    «La figlia del farmacista? L’ho vista sì. La vedrebbe anche Tobia, il cieco della Caramagna. E c’è pure quella dell’altra volta, la bionda con le trecce, e quell’altra che mi pare sia sua sorella.»

    «Eh, sì, sono della famiglia Foà, il notaio di Acqui. Volano alto, mica vengono dietro a noi.»

    «Oh, per una mazurka ci vengono, e chissà, neanche solo per la mazurka. Non è che le chiediamo di sposarci. O no?»

    «Vai avanti te, Severino, che hai il profumo più buono.»

    «È acqua di Colonia, me ne sono versato un po’ prima di venire qui. L’ho presa nel cassetto di mio padre. Anche la brillantina gli ho fregato.»

    «E lui non se n’è accorto?»

    «Eh sì, mi ha stampato un calcio nel sedere. Sarà ancora lì a sacramentare.»

    «Dai, andiamo. E te, Tullio, stai in campana. C’è troppa calma da queste parti. Troppa.»

    Fu Severino a rompere gli indugi, producendosi in un mezzo inchino, goffo e maldestro.

    «Buonasera, signorine. Possiamo invitarvi al ballo?»

    Rispose Alida, la bionda. «È un tango, questo. Non lo sappiamo ballare e neanche gli svelti ci piacciono.»

    «Un valzer?»

    «Quello sì, ma l’orchestra di stasera non sembra avere un grande repertorio.»

    Ci pensò Michele, era lui ad avere i soldi in tasca.

    «Con chi posso parlare per una richiesta?»

    La cantante indicò con una smorfia un tipo seduto in disparte che si faceva aria con un ventaglio.

    «Vorrei richiedere un valzer, anzi facciamo due, e poi un lento, bello lungo, da ballare stretti.»

    «Eh, son tre canzoni!» rispose l’uomo, alzandosi dalla sedia. «Quanti soldi hai in tasca? Qui siam gente seria, un’orchestra di città, ieri sera abbiamo suonato a Tortona, domani saremo a Varazze, sul mare. Le cose belle si pagano, lo sai, vero?»

    Michele teneva il denaro nel pugno e con la testa faceva segno di sì. Erano gente di campagna, loro, ma lo sapevano bene come girava il mondo.

    L’uomo con il ventaglio prese i soldi, contandoli con un’occhiata fintamente approssimativa, e li mise nel taschino del panciotto.

    «Piuttosto una cosa, te e i tuoi amici siete del paese, vero? Ché qui non voglio grane. Alla prima baruffa smettiamo di suonare e facciamo venire le guardie.»

    «Oh no, certo, si figuri. La vede quella casa là, quella bianca con le piante sulla finestra? Beh, io abito lì dietro, giusto quattro passi, una passeggiatina.»

    Finì il tango, poi fu la volta di una polka e infine venne il turno del valzer.

    Le tre ragazze accettarono di buon grado l’invito. D’altronde quei giovanotti sembravano simpatici, nonostante tutto, e quella sera la piazza non era in grado di offrire di meglio.

    Giulia fece coppia con Severino, la bionda con Franco e sua sorella con Michele.

    Tullio rimase a fare la guardia, suo malgrado.

    «Poi tocca anche a te,» dissero gli altri. «Tra un quarto d’ora, eh?»

    Michele non sapeva ballare, cercava di fare lo spiritoso per compensare i pestoni e il portamento rigido.

    «Come hai detto che ti chiami?»

    «Camilla. Ma tutti mi chiamano Milly.»

    Aveva occhi scuri, Milly, e un bel sorriso luminoso. Portava un vestito verde, stretto in vita e scollato. Il belvedere lasciava immaginare due seni piccoli, ancor più lattei della pelle del viso.

    «Siete di Molare, vero?»

    La voce della ragazza interruppe i sogni a occhi aperti di Michele.

    «Sì, ci siamo già visti?»

    «Può darsi. Sicuramente ho ben presente il tuo amico,» disse Milly, indicando Tullio. «Sanno tutti che è un pugile, uno che è meglio stargli distante o farselo amico, magari. Se non ci fosse lui, voi qui a ballare sareste durati un minuto.»

    Cambiò il valzer ma le coppie rimasero quelle.

    La cantante si schiarì la voce con un colpo di tosse, poi indicando il musicista seduto su uno sgabello accanto a lei: «Vorrei che faceste un applauso al nostro Oscar, il mago della fisarmonica, che vi farà ascoltare un brano che va alla grande in tutte le balere, e che pochi sanno suonare come lui. Si tratta di Battagliero del maestro Tienno Pattacini.»

    L’impresario, intercettando lo sguardo di Michele, fece un largo gesto con le braccia come a dire: Va’ là, che li hai spesi bene i tuoi soldi. Pure il valzer di Pattacini, il re del liscio!.

    Era un ritmo veloce che il musicista cercava di infiorettare con certi virtuosismi che lo vedevano assorto, piegato sullo strumento, i bottoni dorati della divisa che sembravano scoppiare sulla circonferenza di un addome in sovrappeso e le dita che si muovevano veloci come in un gioco di prestigio sulla tastiera color avorio.

    Le coppie giravano nel tondo della pedana. I ballerini abituali, quelli con le scarpe di vernice e il passo svelto, lanciavano occhiate sprezzanti ai neofiti, agli improvvisatori, come si faceva con i bambini che chiacchieravano in chiesa durante le funzioni religiose. Eh sì, perché anche il valzer aveva la sua liturgia, un rituale che mescolava il profumo della lavanda e del mentolo all’odore dell’olio esausto delle focaccine fritte.

    «E adesso, cari amici di Cassinelle, è il momento degli innamorati! Changez la femme!»

    Gli abbracci si disunirono e Michele si trovò di fronte a Giulia. Provò a dire qualcosa, guardò Severino come a giustificarsi e poi iniziò a muovere i primi passi, imbarazzato, rosso di vergogna.

    Giulia era davvero bella. E bello era il vestito che aveva, grigio con delle rose in rilievo. Al collo portava una collana di perline, le stesse che pendevano dagli orecchini d’argento.

    Lei sorrideva e parlava: parole quasi soffiate che Michele non riusciva a cogliere per intero.

    Il ragazzo sentiva il suo profumo, di talco e spezie leggere. La sentiva morbida, tra le sue braccia. Un’emozione nuova che valeva bene una sassaiola o una rissa.

    Il ballo durò un tempo inverosimile. Breve da un lato, ma allo stesso tempo infinito. Poi la musica si interruppe, i ballerini smisero di vorticare e i battimani del pubblico salutarono l’inchino della cantante.

    Stop. L’incanto era finito.

    Michele si sentiva come una bestia, di quelle al gancio, marchiate, che sfilavano al mattatoio. Eppure aveva dentro qualcosa che lo alleggeriva, come una polvere magica, una calamita che lo staccava da terra per tenerlo lì, quasi a mezz’aria, in un giro di giostra, come uno scemo, un uruk. Come Tista, l’aiuto del sacrestano, che girava per il paese annusando gli angoli, blaterando discorsi senza senso in una lingua che neanche esisteva, con il sorriso sulle labbra e gli occhi luminosi, pieni di meraviglia, sempre, anche quando il suo sguardo si posava su una ciabatta abbandonata o una merda di cane.

    Si trattava di una mania, aveva detto una volta il farmacista del paese, una vocazione strampalata, una strada a senso unico e senza ritorno, insomma una follia.

    Ecco, l’amore assomigliava proprio al modo di fare di Tista, un canovaccio sporco marcio di realtà eppure avulso dalla realtà stessa, etereo, impastato d’aria e di luce.

    Quella ragazza sarebbe diventata per lui un tragitto quotidiano da fare e rifare cento volte, una campana che rintoccava nella testa.

    Adesso c’era Severino a ballare con lei. Un altro lento, che non finiva mai.

    Michele aveva fatto cenno a Tullio di dargli il cambio con la bionda, lui si sarebbe messo da parte, a bere un bicchiere di vino.

    «Allora, hai sentito che musica?» L’uomo con il panciotto sbuffava il fumo di un sigaro godendosi la scena. «La cantante, Sara, la voleva Cinico Angelini, pensa un po’. Ma si è fatta due conti ed è rimasta con noi, ché qui, caro mio, guadagna ancora meglio. Giriamo l’Italia, maciniamo chilometri e ci siamo fatti ben notare. Certi progetti che ora non posso rivelare. Ricordati il nome, segnatelo: Orchestra delle Dolci Note. Sentirai parlare di noi, oh sì, e potrai dire che hai ballato i nostri valzer, e un lento guancia a guancia con la tua ragazza.»

    Michele non riusciva a togliere gli occhi da Giulia e dal suo amico. Lui cercava di stringerla, ma lei sembrava tenere le distanze e, se all’inizio sorrideva, adesso aveva la faccia di chi non si divertiva per niente.

    Sentì bussare alle sue spalle.

    Pensò all’impresario, ad altro incenso sparso sulle qualità e le prospettive dei suoi musicisti. Si girò e davanti a lui c’era la banda della piazza, al completo.

    «Vi diamo tempo un quarto d’ora. Al tocco della campana dovete essere fuori dal borgo. Nessuno vi farà niente. Abbiamo altro a cui pensare, perciò bicicletta al muro e pietre in tasca. Garantisco io. Diglielo te agli altri. Un quarto d’ora.»

    A parlare era stato un tipo alto, smilzo, con due baffetti ridicoli sopra le labbra. Dietro di lui c’era Bastiano della Luvia, il nipote del sindaco. Due metri e più andati in semenza, un gigante senza cervello.

    Bastava aizzarlo contro qualcuno e Bastiano gli si avventava addosso come un cane rabbioso. Lavorava nella segheria del padre e sfidava chiunque a braccio di ferro. Nessuno al paese era mai riuscito a batterlo.

    Michele in fondo non aspettava altro. Appena finito il brano dell’orchestra fece cenno ai suoi di prestargli attenzione.

    «Dobbiamo andarcene. Subito. Tanto abbiamo finito i soldi. E poi quello che si doveva fare l’abbiamo fatto, no?»

    «Hai paura?» Severino voleva fare l’intrepido agli occhi di Giulia, assolutamente convinto che finché ci fosse stato Tullio con loro la paura dovevano avercela gli altri.

    «Dico che è meglio andare, anche per le ragazze. Lo so che non sono del paese ma…»

    Allora fu proprio Giulia a intervenire. «Michele ha ragione. Sarà per un’altra volta. Magari veniteci a trovare ad Acqui. Ci mangiamo un gelato, se volete. Tra poco l’autista sarà qui. Anzi, è già laggiù che ci aspetta, vedo. Abbiamo ballato abbastanza e poi l’orchestra non si poteva sentire. Sembravano galline in un pollaio. Sempre fuori tempo.»

    «Però la cantante la voleva Cinico Angelini,» farfugliò Michele.

    Risero le ragazze e dopo un attimo risero tutti quanti.

    Una stretta di mano e un bacio sulla guancia risolsero il commiato.

    Poi di corsa, al suono della campana.

    Nella buca, tra il canneto e il muraglione appena fuori dal paese, le bici non c’erano

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