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Il principe dei sogni
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Il principe dei sogni

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Il principe dei sogni è un thriller soprannaturale, un’opera dal passo cinematografico che catturerà i lettori senza mai allentare la presa fino alla fine.
Una lettura adatta sia agli amanti di Donato Carrisi e Lars Kepler, sia a chi ha apprezzato la serie televisiva OA. Perfetto per chi cerca un eroe che possa proteggere da tutte le paure e una protagonista femminile motore di tutta la storia.

Siamo in Svizzera, alla periferia di Zurigo. In una vecchia discarica abbandonata viene ritrovata Bianca, un’adolescente che ha subìto violenze di ogni tipo e che ora giace in stato di coma irreversibile. Daniel ha capelli lunghi, barba e tatuaggi, all’apparenza sembra solo un motociclista trasandato, ma in realtà è molto di più. In seguito a un grave incidente avuto da piccolo, ha sviluppato un potere particolare: riesce a stabilire un contatto con le persone che si trovano nel Limbo, tra la vita e la morte – che lui chiama l’Altrove – a comunicare con loro attraverso l’inconscio e convincerli a tornare indietro. Daniel accetta di aiutare Bianca, e per farlo e poter tornare dovrà affrontare una vera e propria Odissea.
LanguageItaliano
PublisherNua Edizioni
Release dateAug 26, 2021
ISBN9788831399562
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    Il principe dei sogni - Luca Seta

    1

    La notte è di quelle rosso fuoco illuminate da una luna piena gigante, i pellerossa l’avrebbero chiamata luna Comanche, perfetta per le scorrerie e gli agguati, qua però non siamo in territorio Comanche e di cavalli e indiani nemmeno l’ombra, anche se ho la sensazione che potrei perdere lo scalpo da un momento all’altro. La pioggia fuori dalla finestra cade talmente forte che faccio fatica ad ascoltare i miei pensieri, forse la colpa è anche di tutta la droga e l’alcol che questa pantera pazza e selvaggia mi ha fatto ingurgitare. Stiamo facendo l’amore ma non sento niente, è come se fossi spento, niente dolore niente gioia niente di niente. Eccomi, sto venendo ma non sento neanche l’ombra del piacere dell’orgasmo per come me lo ricordo, anzi non me lo ricordo nemmeno più bene cosa sia, avere un orgasmo. Sono distratto dalle urla e dai gemiti di piacere della pantera che mi riportano alla realtà, sembra che lei invece stia godendo come una pazza. O comunque se sta recitando, lo fa benissimo. Dio quanto è bella. Una vera creatura della giungla. Un purosangue nero con gli occhi pieni di malinconia che contengono Bibbia e Corano insieme a tutte le poesie del mondo. Occhi di cerbiatto, mani affusolate da pianista, capelli lunghi e lisci, pelle ebano, quarta abbondante di seno, ventre piatto e occhi gialli, color dell’oro. O verdi? Ora si è alzata, vederla camminare mi fa male al cuore, è flessuosa come un filo d’erba estivo e ha un culo da dieci e lode. Mi porta un piattino con sopra una banconota arrotolata e una montagna di coca, me li butta quasi addosso. Mentre io ne approfitto, lei approfitta di me, appoggia le mani sui miei fianchi e con la testa va su e giù. Io cerco di oppormi ma lei la prende come una sfida, non si ferma e mi lancia un’occhiata da sotto talmente sexy e maliziosa che mi fa saltare un paio di battiti nel petto. E poi siamo di nuovo mani e piedi dentro il sogno, che è diventato un incubo. Mi ricordo nasi che sniffano, mani che si cercano, bocche che succhiano avidamente pezzi dell’altro, la stanza che gira, la luna che diventa sottile poi ridiventa grande tonda gigante, con lei sopra di me, lei sotto di me, abbracciati intrecciati sudati, bottiglie che evaporano nella sete, denti sul collo e pareti che si piegano. Poi il niente. Il niente che ritorna sempre. Mi sembra di aver vissuto tutto questo. Anzi, sono sicuro. Cosa sta succedendo? Dove sono? Cos’è questo posto? Cosa ci faccio qui? Come ci sono arrivato? Chi è lei? Come si chiama? Perché la conosco? Chi sono? Cazzo… come mi chiamo? È possibile che non mi ricordi neanche come mi chiamo…

    «Daniel, ci sei?» mi dice la pantera.

    Ah, ecco. Mi chiamo Daniel.

    «Sembra che tu sia da un’altra parte… Quando ti ho chiesto di restare con me, intendevo restare veramente... O stai qua con me e non pensi ad altro, oppure te ne vai.»

    La guardo senza capire, lei se ne accorge.

    «In che senso me ne vado? Chi siamo io e te? Dove siamo? Che ci facciamo qui?» le chiedo.

    «Quante domande.» sorride con aria maliziosa. «Tu Daniel, io Garmy, siamo due innamorati. E viviamo qui.»

    «In che senso ci viviamo?»

    «Nel senso che cuciniamo, mangiamo, dormiamo, facciamo l’amore e ci divertiamo, facciamo tutto quello che abbiamo fatto nelle ultime ventiquattr’ore,» dice lei sorridendomi. Poi china la testa sul piatto e aspira dal naso una generosa riga di polvere bianca. «E quando abbiamo finito, ricominciamo…»

    Mentre parla, io mi guardo intorno e per la prima volta mi rendo conto di che posto squallido e assurdo sia questo. Sembra una specie di motel, la stanza è quadrata, il letto a baldacchino è al centro, ci sono due sedie che fanno da comodini, sul lato mio c’è una selva di bottiglie vuote, sul lato di Garmy un posacenere pieno di cicche spente e un panetto di cocaina. L’aria è irrespirabile, anche per quell’odore stantio che la moquette vecchia di quarant’anni ti regala. C’è moquette dappertutto, sul pavimento, sulle pareti persino in bagno. Strano che non l’abbiano messa anche sul soffitto. È di colore rosso scuro, sembra che da un momento all’altro inizi a grondare sangue. Di fronte a me intravedo un bagno, un cesso orrendo, con una vasca di rame vecchio stile con i piedini ricurvi che la sollevano da terra, o meglio dovrebbero, visto che è rotta in due, spaccata letteralmente a metà, e invece della tazza c’è una turca che neanche nei peggiori bar di Caracas. Sulla parete della camera c’è una finestra, piccola e chiusa, da cui si vede che fuori piove a dirotto. Non c’è altro. Niente divano, niente cucina e niente tv. Niente di niente. Garmy si è alzata in piedi, sembra un po’ nervosa, mi guarda, in piedi tutta nuda sembra una dea africana.

    «Non avrai mica cambiato idea?»

    «Riguardo a che?»

    «Avevi detto che non ci avresti più provato, che non ne avremmo nemmeno più parlato.»

    «Provato a far cosa?»

    «A riportarmi indietro... Mi hai promesso che saresti rimasto anche tu qui con me. Per sempre.»

    La fisso. Non mi ricordo un cazzo. Riportarla indietro dove? Rimanere qui…? SBAM! Un ricordo mi colpisce come un calcio in faccia. Sono in un ospedale, un uomo con la barba bianca si raccomanda di non stare via troppo tempo. Guardo il mio orologio che sta suonando bi-bip... bi-bip... bi-bip... Metto a fuoco le cifre. Ore minuti e secondi riportano tutti lo stesso numero. Zero. Tempo scaduto. Cazzo. E improvvisamente ricordo.

    Adesso so cosa devo fare, smetto di pensare e cerco gli occhi di Garmy. Li trovo. Improvvisamente mi calmo. Mi succede sempre, quando so cosa fare. Pensare troppo mi blocca. Funziono meglio quando agisco. Via i dubbi. Via le paure. Via.

    «Garmy, andiamo. È ora.» Lei mi guarda e non si muove.

    Il timer in sottofondo aumenta d’intensità. Bi-bip... bi-bip... bi-bip... Lei mi fissa immobile come una statua. Bi-bip... bi-bip... bi-bip... Guardo fuori dalla finestra. Un lampo.

    «Piove ancora, possiamo farcela...»

    Faccio per prenderle la mano ma lei si scosta con una tale violenza che urta il comodino-sedia e manda le bottiglie in frantumi.

    «Io non vengo,» dice calma.

    Bi-bip... bi-bip… bi-bip… il timer sta un po’ esagerando per i miei gusti.

    «Ti prego, Garmy.»

    «Ti ho detto che non vengo,» mi dice con una voce da killer, bassa ma inesorabile, che non ammette repliche. Siamo fermi una di fronte all’altro. Qua la luna Comanche ha trovato finalmente un suo senso. Sembra un duello, è un duello, siamo una di fronte all’altro. Immobili. In silenzio. La stanza vibra. Devo portarla con me a ogni costo. Scatto in avanti come un giocatore di football, la placco al corpo e la butto giù, rotoliamo nudi come vermi sulla moquette piena di cocci di vetro, la colorazione sanguinaccio diventa ancora più intensa, perdo sangue dalla schiena, dalle braccia, dalle gambe, dappertutto ma non sento dolore. Mi giro e vedo una cosa assurda. Sta scomparendo il letto. Il bagno non c’è già più e i comodini-sedia stanno pian piano scivolando via. Come se qualcuno li stesse cancellando. Ora ho davvero paura. L’angoscia mi fa battere più forte il cuore e mi manca il respiro e poi c’è quel cazzo di timer, bi-bip… bi-bip… bi-bip… che corre sempre più veloce. Garmy mi dà una gomitata in faccia e mi spacca il naso. Ecco, mi sono distratto, l’ho detto che funziono meglio quando non penso. Continuo a non sentire dolore. Butto la faccia all’indietro e il sangue mi va negli occhi, non ci vedo, provo ad asciugarmi con una mano ma così allento la presa e lei sguscia via come una murena. La afferro per una caviglia mentre sta provando a rialzarsi e la schianto di nuovo al suolo. Mentre la tengo bloccata a terra, guardo la finestra. Fuori è notte, ci sono lampi e tuoni, continua a diluviare. Bene. Finché piove, è più facile tornare indietro. Acqua, ho bisogno di acqua. La prendo per i capelli e le tengo la faccia sul pavimento. Lei non molla, è forte come una leonessa ed essere sudati marci non mi aiuta a tenerla ferma. La scena è tragicomica. Lei è a quattro zampe, ginocchia e faccia sul pavimento, mani dietro la schiena, io che le sto addosso, il mio petto appoggiato sulla sua schiena, che blocco con tutto il mio peso, le sue gambe strette tra le mie. La posizione potrebbe sembrare una classica pecorina e anche noi ansimiamo come se stessimo facendo la scopata più bella della nostra vita. Invece io voglio salvarle la vita e lei se potesse mi ammazzerebbe. Buffo, no? Se avessi le forze ne riderei. Proprio mentre ho questo pensiero assurdo, mi arriva una tallonata nelle palle che le permette di divincolarsi ma invece che scappare lei sguscia sotto il letto, infila un braccio sotto e prende qualcosa. Cosa? Subito dopo la vedo. Si rialza in piedi. Immobile. Calma. È armata. Ha una pistola cromata in pugno, la tiene con due mani. Intorno il vuoto e il silenzio. Anche il mio orologio ha smesso di suonare perché si è rotto nella lotta. Di sottofondo solo il rumore della pioggia.

    «Metti giù la pistola... per favore... Non risolvi nulla così,» provo a dire un’ultima volta, con le mani alzate.

    Lei sembra ancora più calma di un istante fa. Carica la pistola. CLICK.

    «Garmy... per favore...»

    «Cos’è? Hai paura di restare qui con me?» domanda lei gelida. «O hai paura che ti spari?»

    «Andiamo. Vieni via con me,» le sussurro di rimando. «Tutto questo non è reale... Te ne rendi conto?»

    «Se non è reale, allora non c’è niente di cui aver paura...»

    Per un attimo lei sembra sorridere, distende i muscoli del viso, ha perso quello sguardo da assassina, abbassa la pistola e forse si sta convincendo. Anch’io abbasso le mani. Ma è solo l’illusione di un attimo. Perché subito dopo torna seria, dura, con l’odio e il ghiaccio nel suo sguardo.

    «Ti amo, Daniel.»

    Mi punta la pistola verso il basso e spara.

    BLAM.

    Ho le mani sul mio stomaco, le dita sono piene di sangue, provano a fermare l’emorragia ma con scarsi risultati. Dicono che le ferite alla pancia siano le peggiori. Una morte orribile. Il sangue cola e inzuppa la moquette sempre di più. Sotto di me si allarga una pozzanghera scura, sembra che i piedi ci affondino come nelle sabbie mobili. Guardo attraverso la finestra, fuori il temporale a scroscio ha lasciato il posto a una pioggerellina insistente. Non provo dolore né paura ma piuttosto disperazione, perché sento di aver fallito: anche se sono stato colpito io, è lei che ha perso tutto. Rialzo gli occhi fino a incrociare i suoi. E dentro ci vedo la mia stessa disperazione amplificata un milione di volte. La sento tutta, la sento arrivare da lontano, è come essere legati con delle catene alle rotaie e vedere un treno merci di centinaia di vagoni che trasportano putrelle di ferro che perde il controllo. Ed essere lì immobili e impotenti e non poter fare niente per evitarlo. Lo sento, sono sicuro adesso che non posso più salvarla. Mi fissa e io non riesco a distogliere lo sguardo e sento il treno che arriva sempre più forte e poi vicino. M’immergo in quegli occhi. Ci annego. E il treno arriva, in tutto il suo clangore di ruote e ferro e fiamme e rumore e rabbia e lacrime. È come se un gigante mi schiacciasse la testa a mani nude. Il dolore parte piano poi aumenta. Vorrei gridare ma il grido resta muto. Cado in ginocchio mentre le fitte che sento ovunque come coltellate mi fanno pregare qualche dio perché finisca presto. Mi accorgo che la stanza non c’è più, siamo solo io e lei sospesi nel bianco più assoluto. Bianco sopra bianco sotto bianco ai lati bianco dappertutto. Bianco. Forse la morte è bianca. Non nera come tutti ce la immaginiamo. Alle mie spalle mi sembra di sentire ancora per un attimo il rumore di una pioggerellina leggera. Dove sei, Garmy?! La cerco. La trovo. La guardo per un’ultima volta come a chiederle perché.

    E lei come se mi avesse letto nel pensiero...

    «Te l’ho detto. Perché io non vengo. Io resto qua.»

    Adesso sta piangendo. Sembra che tutte le lacrime del mondo siano andate a radunarsi in quei bellissimi pozzi gialli che sono i suoi occhi. Il suo viso si trasforma o almeno così mi sembra, visto

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