Giro di vite
By Henry James
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About this ebook
Una giovane donna al suo primo lavoro.
Due piccoli orfani dall’aspetto angelico e dall’indole stranamente silenziosa di cui prendersi cura.
Una dimora isolata all’interno della quale si aggirano, minacciose, due presenze, forse i fantasmi di due vecchi servitori morti in circostanze misteriose che sembrano determinati ad attirare i bambini in un’oscura trappola, possedendo le loro menti e corrompendo le loro giovani anime innocenti.
Ma nella scrittura avvolgente e perturbante di Henry James nulla e ciò che sembra e il lettore, lentamente, sprofonda in un’oscura nube di dubbio e inquietudine.
Henry James
Henry James was born in New York in 1843, the younger brother of the philosopher William James, and was educated in Europe and America. He left Harvard Law School in 1863, after a year's attendance, to concentrate on writing, and from 1869 he began to make prolonged visits to Europe, eventually settling in England in 1876. His literary output was both prodigious and of the highest quality: more than ten outstanding novels including his masterpiece, The Portrait of a Lady; countless novellas and short stories; as well as innumerable essays, letters, and other pieces of critical prose. Known by contemporary fellow novelists as 'the Master', James died in Kensington, London, in 1916.
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Giro di vite - Henry James
1
Ricordo il principio di questa vicenda come un succedersi di voli e cadute, un’altalena di preoccupazioni più o meno giustificate. Dopo aver accettato la sua offerta di getto, passai in città un paio di pessime giornate: mi trovai a dubitare della mia scelta, arrivando a pensare di aver commesso un errore. In quello stato d’animo, trascorsi lunghe ore a bordo di una diligenza che, tra sobbalzi e dondolii, mi condusse alla fermata dove sarebbe venuta a prendermi una carrozza inviata dalla casa. E in effetti, quando giunsi a destinazione in un tardo pomeriggio di giugno, la trovai ad attendermi come stabilito. Viaggiare a quell’ora, in una bella giornata, attraverso la campagna addolcita dall’estate, riaccese in me una forza d’animo che, quando svoltammo sul viale, raggiunse il suo culmine, facendomi capire in quale abisso fossi sprofondata nei giorni precedenti. Suppongo mi fossi aspettata – o avessi temuto – un luogo così malinconico che quello che mi accolse fu una gradita sorpresa. In particolar modo, rimasi piacevolmente colpita dalla facciata ampia e luminosa, dalle finestre spalancate, dalle tende pulite e dalle due cameriere che guardavano fuori. Ricordo il prato e i fiori dai colori vivaci, lo scricchiolio delle ruote sulla ghiaia e le cime fitte degli alberi, intorno alle quali i corvi volavano in cerchio gracchiando nel cielo dorato. La scena aveva una magnificenza tale che la mia umile dimora sembrava lontana anni luce, e in quel preciso istante, sulla soglia, comparve una donna dall’aspetto gentile che teneva per mano una bambina. Mi accolse con un grazioso inchino, quasi fossi stata la padrona di casa o un’ospite di riguardo. Dalla descrizione ricevuta a Harley Street mi ero fatta un’idea molto più modesta di quel luogo, il che, ricordo, mi indusse a pensare che il proprietario fosse davvero un gran gentiluomo e che ciò di cui avrei goduto avrebbe ecceduto le sue promesse.
Non ebbi un altro momento di sconforto fino al giorno seguente, perché trascorsi le successive ore in preda all’euforia di conoscere la più piccola dei miei pupilli. La bimba che accompagnava la signora Grose mi apparve da subito una creatura così deliziosa che mi ritenni fortunata di poter lavorare con lei. Era la bambina più bella che avessi mai visto, e in seguito mi domandai per quale ragione il mio datore di lavoro non mi avesse raccontato di più sul suo conto. Quella notte dormii poco: ero troppo eccitata. Ricordo che quella sensazione mi sorprese e rimase con me, aggiungendosi alla consapevolezza della generosità con cui ero stata accolta. La stanza spaziosa ed elegante, una delle migliori della casa, il grande letto regale – o almeno così appariva ai miei occhi –, i sontuosi tendaggi ricamati, i lunghi specchi nei quali, per la prima volta, potevo vedermi dalla testa ai piedi, tutto mi colpiva – come lo straordinario fascino della mia piccola allieva – per la sua assoluta meraviglia. Allo stesso modo, sin dal principio mi fu chiaro che sarei stata in grado di instaurare con la signora Grose quel rapporto di amicizia sul quale, durante il mio viaggio in carrozza, avevo a lungo rimuginato. In realtà, l’unica cosa che, in quel primo incontro, avrebbe potuto ridestare le mie preoccupazioni era l’eccessivo sollievo che aveva mostrato nel vedermi. Nel giro di mezz’ora, mi ero resa conto che quella donna robusta, semplice, schietta, linda e piena di salute, era così lieta della mia presenza da sentirsi quasi in dovere di nasconderlo. A dire il vero, mi ero persino interrogata sulle ragioni di quella reticenza e, se mi fossi soffermata a guardare alla cosa con un minimo di sospetto, avrei di sicuro finito col provare un certo disagio.
Invece mi fu di conforto sapere che non avrei avuto problemi a stabilire un rapporto con una creatura angelica come la mia piccola discepola, e il ricordo della sua radiosa bellezza fu probabilmente il motivo principale per cui, prima che facesse mattina, mi trovai più volte ad alzarmi dal letto e a vagare per la stanza nel tentativo di mandare a memoria ogni dettaglio, a sbirciare la pallida alba estiva dalla finestra aperta cercando di scorgere quanto più possibile del resto della casa e, mentre i primi uccelli cominciavano a cinguettare al dissiparsi delle tenebre, a tendere l’orecchio per afferrare l’eventuale ripetersi di un paio di suoni – meno naturali e provenienti non dall’esterno, ma dall’interno dell’abitazione –, che mi era sembrato di sentire. C’era stato un momento in cui mi ero convinta di aver udito, sommesso e distante, il pianto di un bambino, e un altro in cui mi ero sorpresa a sussultare avvertendo un leggero rumore di passi fuori dalla mia porta. Ma quelle fantasie non erano abbastanza forti da non poter essere fugate, ed è solo alla luce – o forse dovrei dire all’oscurità – degli avvenimenti che seguirono, che ora mi tornano in mente. Senza ombra di dubbio, sorvegliare, istruire, formare
la piccola Flora avrebbe reso la mia vita felice e piena. Il giorno precedente, al piano di sotto, eravamo rimaste d’accordo che, dopo quella prima notte, avrei dormito con lei e, a tale scopo, il suo lettino bianco era già stato sistemato nella mia stanza. Mi ero assunta il compito di provvedere a lei in tutto e per tutto, e se avevamo deciso che restasse con la signora Grose un’ultima volta, era solo in virtù del fatto che io ero un’estranea e che la piccola era timida per natura. A dispetto di quella timidezza – che la bambina stessa aveva ammesso con un coraggio e un’onestà non comuni, permettendo così, con la calma soave di uno dei putti di Raffaello, che noi due ne discutessimo, attribuendogliene infine la colpa e decidendo come affrontarla –, non ebbi il minimo dubbio che sarei riuscita a conquistarla. Parte della simpatia che mi suscitava la signora Grose derivava anche da questo, dal piacere che manifestava per la mia ammirazione e il mio stupore nel trovarmi seduta a una tavola con quattro alti candelieri, con la mia pupilla che mi stava di fronte tutta allegra nel suo seggiolone, con il bavaglino al collo e davanti pane e latte. Ovviamente, c’erano cose che in presenza di Flora potevamo comunicarci solo attraverso sguardi sorpresi e compiaciuti, o tramite allusioni velate e indirette.
«E il fratellino… le somiglia? È altrettanto straordinario?»
Non era bene lodare troppo un bambino. «Oh, signorina, lo è eccome. Se siete rimasta colpita da lei…» E rimase lì, con un piatto in mano, sorridendo raggiante alla piccola che ci guardava con occhi placidi e innocenti, nei quali non v’era nulla che ci trattenesse dal parlare.
«Se ne sono rimasta colpita…?»
«Allora il padroncino vi conquisterà!»
«Be’, credo di essere venuta qui apposta per questo… per lasciarmi conquistare. Tuttavia, temo,» – ricordo di aver sentito l’impulso di aggiungere – «di essere una che si lascia conquistare facilmente. Mi è successo anche a Londra!»
Vedo ancora il viso tondo della signora Grose mentre prendeva nota delle mie parole. «A Harley Street?»
«A Harley Street.»
«Be’, signorina, non siete la prima… e non sarete l’ultima.»
«Oh, non pretendo certo di essere l’unica,» riuscii a replicare con una risata. «Se ho capito bene, comunque, l’altro mio allievo dovrebbe essere di ritorno