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Una cosa pericolosa
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Una cosa pericolosa

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About this ebook

In preda al blocco dello scrittore e frustrato dalla sua problematica relazione con Jake Riordan, fascinoso ma non ancora dichiaratamente gay detective della polizia di Los Angeles, il libraio e scrittore di gialli Adrien English decide di andare a trascorrere un po’ di tempo a nord, nella tenuta lasciatagli dalla nonna materna, dove trova un cadavere ad attenderlo nel vialetto d’ingresso. All’arrivo dello sceriffo, però, il corpo è scomparso e Adrien si trova ancora una volta a improvvisarsi investigatore. Ma quando la situazione si fa pericolosa e potenzialmente letale, Adrien è costretto a rivolgersi a Jake. Jake potrà avere le idee confuse riguardo a un mucchio di cose, ma è disposto a tutto pur di tenere in vita l’uomo per il quale sta cominciando a provare qualcosa.
LanguageItaliano
Release dateAug 14, 2015
ISBN9788898426829
Una cosa pericolosa
Author

Josh Lanyon

Author of nearly ninety titles of classic Male/Male fiction featuring twisty mystery, kickass adventure, and unapologetic man-on-man romance, JOSH LANYON’S work has been translated into eleven languages. Her FBI thriller Fair Game was the first Male/Male title to be published by Harlequin Mondadori, then the largest romance publisher in Italy. Stranger on the Shore (Harper Collins Italia) was the first M/M title to be published in print. In 2016 Fatal Shadows placed #5 in Japan’s annual Boy Love novel list (the first and only title by a foreign author to place on the list). The Adrien English series was awarded the All-Time Favorite Couple by the Goodreads M/M Romance Group. In 2019, Fatal Shadows became the first LGBTQ mobile game created by Moments: Choose Your Story.She is an EPIC Award winner, a four-time Lambda Literary Award finalist (twice for Gay Mystery), an Edgar nominee, and the first ever recipient of the Goodreads All-Time Favorite M/M Author award.Find other Josh Lanyon titles at www.joshlanyon.comFollow Josh on Twitter, Facebook, and Goodreads.

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    Book preview

    Una cosa pericolosa - Josh Lanyon

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    Pubblicato da

    Triskell Edizioni – Associazione culturale Triskell Events

    Via 2 Giugno, 9 - 25010 Montirone (BS)

    http://www.triskelledizioni.it/

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il frutto dell’immaginazione dell’autore. Ogni somiglianza a persone reali, vive o morte, imprese commerciali, eventi o località è puramente casuale.

    Ombre fatali - Copyright © 2015

    Copyright © 2007 A dangerous thing di Josh Lanyon

    Traduzione di Chiara Beltrami

    Cover Art and Design di Barbara Cinelli

    Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in alcuna forma né con alcun mezzo, elettronico o meccanico, incluse fotocopie, registrazioni, né può essere archiviata e depositata per il recupero di informazioni senza il permesso scritto dell’Editore, eccetto laddove permesso dalla legge. Per richiedere il permesso e per qualunque altra domanda, contattare, l’associazione al seguente indirizzo: Via 2 Giugno, 9 – 25010 Montirone (BS)

    http://www.triskelledizioni.it/

    Prodotto in Italia

    Prima edizione – Agosto 2015

    Edizione Ebook 978-88-98426-82-9

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    Lei era giovane e incantevole, ed era morta. Decisamente morta.

    Era una brutta cosa. Davvero pessima.

    Tutto ciò che una volta era stata Lavinia, adesso era solo una sgraziata distesa di lunghi capelli biondi e membra pallide, e la mente terrorizzata di Jason riconobbe ciò che i suoi occhi si erano rifiutati di vedere: le braccia esili di Lavinia terminavano in due moncherini insanguinati.

    Smisi di scrivere al computer e rilessi il tutto con una smorfia. Povero Jason. Negli ultimi due giorni ci eravamo impantanati con il ritrovamento del corpo di Lavinia e non riuscivamo ancora a proseguire.

    Premetti il tasto di cancellazione.

    Scadente come Tito Andronico, il mio secondo poliziesco di Jason Leland, Morte per un'azione di morte era persino peggiore. Pensai che aver basato la seconda uscita di Jason sulla famigerata opera di Shakespeare fosse stato solo il primo dei miei errori. Stavo ancora rimuginando sulla cosa quando squillò il telefono.

    «Sono io,» disse Jake. «Non riesco a farcela stasera.»

    «Va tutto bene,» risposi. «Non ti aspettavo.»

    Silenzio.

    Lasciai che si prolungasse, il che non era da me, considerato quanto sono educato.

    «Adrien?» chiese finalmente Jake.

    «Ehi?»

    «Sono un poliziotto. È ciò che sono. È il mio lavoro.»

    «Sembri l’intrattenitore di uno show televisivo.» Prima che potesse replicare, aggiunsi: «Non darti pena per me, Jake. Troverò qualcos’altro da fare stasera.»

    Silenzio.

    Mi resi conto che avrei dovuto cancellare una buona parte del manoscritto. Dovevo schiacciare Modifica e poi Annulla? O solo Annulla? O Control + Z? Word non faceva per me.

    «Divertiti,» disse Jake amabilmente, e riappese.

    «Ci vediamo,» borbottai al segnale di libero.

    Queste rogne malinconiche che chiamo vita, come direbbe il bardo.

    Per un attimo rimasi seduto a fissare il cursore lampeggiante sullo schermo. Mi venne in mente che avevo bisogno di  fare dei cambiamenti,  e non solo in Morte per un'azione di morte.

    Imprecando mentre prendevo respiro, premetti Salva e chiusi il documento. Esci e Spegni. Visto com’era facile?

    Scesi in negozio dove Angus, il mio assistente (e stregone di casa), stava spacchettando una partita di libri con un taglierino.

    «Ehi, sto andando fuori città,» annunciai mentre Angus guardava incantato la copertina di un best seller che recava impressa un’ascia schizzata di sangue.

    Non ero certo che mi avesse sentito. Non batté ciglio. Angus è alto, ossuto, e pallido come uno spettro. Jake possiede un discreto numero di appellativi dispregiativi per definirlo, ma il ragazzo è intelligente e un gran lavoratore. Suppongo che sia tutto ciò che serve per questo impiego.

    «Perché?» mormorò lui finalmente.

    «Perché ho bisogno di una vacanza. Perché non riesco a scrivere con tutte queste distrazioni.»

    Finalmente Angus staccò il suo sguardo occhialuto dalla giacca ricoperta di pulviscolo insanguinato. «Perché?»

    Dopo un paio di mesi mi ero impratichito col linguaggio di Angus.

    «Perché è così, amico. Puoi tenere d’occhio tu qui?» Tenendo i Black Masses al minimo ed evitando di mangiarti tutte le cinquanta scatole di prelibatezze dolciarie che si trovano in magazzino?

    Angus alzò le spalle. «Immagino di sì. Però le lezioni riprendono tra due settimane.»

    Non sono mai stato in grado di determinare cosa studiasse Angus alla UCLA, Scienze bibliotecarie o Fumettistica?

    «Sarò di ritorno per allora. Voglio solo andarmene per qualche giorno.»

    «Dove hai intenzione di andare?» Era il massimo interessamento che Angus aveva mostrato nei miei confronti in quei due mesi.

    «Ho una proprietà su a nord, verso Sonora. Precisamente fuori Sonora, vicino a una cittadina chiamata Basking. Pensavo di andarci in macchina,» aggiunsi, «stasera.»

    «Stasera?»

    «Sono le 16.30 adesso. Non ci dovrebbero volere più di sei o sette ore.»

    Angus ci rimuginò su, verificando distrattamente la punta del taglierino col pollice.

    «Non è da te essere impulsivo, Adrien,» fu il verdetto. «Cosa devo dire al tuo piedipiatti?»

    «Non è di mia proprietà in senso stretto,» dissi bruscamente. «È un pubblico ufficiale.» In più di un senso. «In ogni caso non dovrai dirgli nulla perché non ho in programma di vederlo tanto presto.»

    «Oh.» Angus abbassò lo sguardo verso il coltello, sorridendo. I battibecchi tra finocchi erano, evidentemente, materia per un calmo divertimento.

    Lasciai Angus con visioni di smembramenti che ancora gli danzavano in testa e andai a fare la valigia. Non ci volle molto per gettare due paia di Levi’s e uno spazzolino nella mia Gladstone. Svuotai il frigorifero nella ghiacciaia, tirai fuori il sacco a pelo e gettai i dischetti del computer e un paio di CD assieme agli abiti e al portatile.

    Non erano ancora le sei e un quarto e stavo lottando col traffico giornaliero mentre dirigevo la Bronco verso Magic Mountain e la Freeway numero 5. Oltre il passo era un incolonnamento unico, ma che diamine, avevo un thermos pieno di caffè Gevalia Popayan, Flaming Red di Patty Griffin che suonava nel lettore CD, e mi stavo dirigendo nella direzione giusta: lontano da Jake.

    * * * * *

    Fuori dal deserto del Mojave, entrai per fare rifornimento in una stazione di servizio pittoresca, circondata da alberi di yucca e pile di vecchi pneumatici. Un enorme pallone viola a forma di gorilla svolazzava in cielo a mo’ di richiamo pubblicitario. Feci benzina godendomi un tramonto in stile Apocalypse Now, mentre il pallone gigantesco ondeggiava dolcemente nella brezza del deserto. Per qualche motivo, lo scimmione mi ricordava Jake.

    Jake. Se solo fosse stato così facile lasciarsi alle spalle le preoccupazioni con lui come lo era abbandonare le luci della città che sfavillavano nello specchietto retrovisore.

    Due mesi prima, il detective Jake Riordan mi aveva salvato la vita in quelle che i giornali senza immaginazione definirono Accoltellamenti e omicidi ai danni dei gay. Quando tutto era terminato, Jake aveva ricevuto un richiamo ufficiale dai pezzi grossi del Dipartimento di Polizia di Los Angeles e io avevo ricevuto una sorta di approccio da Jake, un piedipiatti, la cui omosessualità era celata talmente in profondità nel suo animo da non riuscire a riconoscerla lui per primo.

    Riordan era duro, brillante e affascinante, e a parte quel complesso che lo portava al disprezzo di sé, era tutto ciò che avrei potuto chiedere in un potenziale compagno. Ma lentamente, alcune piccole cose – come il fatto che non riusciva a sopportare di toccarmi – iniziarono ad avere un impatto negativo. Ok, esagero. Una volta mi aveva messo un braccio attorno alle spalle mentre stavamo guardando un documentario della PBS su crimini odiosi nei confronti dei gay. E aveva iniziato ad abbracciarmi quando si accomiatava. Non che fosse vergine, Riordan. Tutt’altro. Era profondamente influenzato dall’universo sadomasochista. Ma quando ci si trovava faccia a faccia, a tu per tu, bocca a bocca, il maestro diventava uno scolaretto.

    Lo testimoniava la nostra prima e unica pomiciata.

    La bocca di Riordan era a portata di bacio della mia, quando lui fece una strana risata, tirandosi indietro.

    «Merda, non posso farlo.» Si mise una mano tra i capelli biondi guardandomi di traverso.

    «Non riesci a fare cosa? Baciarmi?»

    Lui scosse la testa e poi annuì.

    «Il mio collutorio non funziona? Qual è il problema?»

    Jake emise un suono che doveva sembrare una risata. Non rispose.

    «Perché, Jake?» chiesi tranquillamente.

    Senza riflettere, disse: «Apro gli occhi e vedo i pori della tua pelle – la tua pelle è a posto, non prenderla nel verso sbagliato – ma hai l’ombreggiatura della barba. Profumi di dopobarba. Le tue labbra…» Fece un movimento veloce con la mano. «È solo che… non sei una pollastrella.»

    «L’hai notato.» Lo dissi con frivolezza, ma stavo riflettendo attentamente. «Quindi questa è un’esperienza nuova per te? Fai sesso con i ragazzi, ma non…»

    «Non è come questo,» mi interruppe Jake. «Questo è come avere un appuntamento. È… bizzarro.»

    Sì, e frustini, catene, flagelli e bende erano normali?

    «Potrei farmi legare da te e farmi gonfiare di botte, ma la mattina dopo mi rispetterai ancora?»

    «Non ti voglio in quel modo,» disse lui. «Ti conosco. Non sarebbe la stessa cosa.»

    Magnifico. Preferiva umiliare degli sconosciuti in maschera invece che baciare un uomo che conosceva. E che presumibilmente gli piaceva.

    «Fammi capire bene. Non vuoi fare sesso con me?»

    «Ovviamente voglio fare sesso con te.»

    Ovviamente, cosa andavo a pensare?

    «Ma?»

    Con impazienza disse: «Non lo so! Perché non ci vediamo un film o qualcosa del genere?»

    Guardammo un sacco di film. Adesso sono un esperto di Steven Seagal e Vin Diesel, e ho visto più film di supereroi il mese scorso che in tutta la mia infanzia. Ma non c’era solo il cinéma vérité. Uscimmo anche, per un paio di cene molto tese. Immaginai che Riordan fosse guardingo perché temeva che qualcuno dei suoi colleghi tutti d’un pezzo potessero vederlo fraternizzare con un omosessuale dichiarato, sebbene fosse troppo galante per dirlo ad alta voce.

    Per la maggior parte del tempo, parlavamo. A casa mia. A porte chiuse. Non esattamente a cuore aperto, ma Jake mi raccontò del lavoro e della sua famiglia: mamma, papà e due fratelli (uno all’Accademia di Polizia), tutti con l’assunto delirante che James Patrick Riordan fosse eterosessuale.

    Fu Jake a parlare per la maggior parte del tempo. Il mio ruolo abituale era quello di ascoltatore. Di tanto in tanto mi aveva posto delle domande che etichettavo come principi generali di vita omosessuale. Del tipo: quante volte al mese facevo sesso? (Ehm… secondo le normali dinamiche di tempo terrestre?) Quando ho ammesso la mia omosessualità? (dopo il college, quando era troppo tardi perché mia madre mi mettesse in punizione) Dove incontravo i ragazzi? (sulla scena del crimine?)

    Sebbene Jake fosse più anziano di me e probabilmente con più esperienza, qualche volta mi sentivo una sorta di mentore gay del Grande Fratello Finocchio. Non mi sentivo il suo amante, quello no.

    Un mese di tentativi per farci compagnia, poi un mese di scuse e appuntamenti cancellati.

    Era finita ancor prima che iniziasse.

    «Senti,» gli dissi una notte quando arrivò con quattro ore di ritardo per un’altra cena segreta, «visto che fai le cose tanto per fare, perché continuare?»

    Quello sguardo rapace fissava il mio. Senza tanti giri di parole, Jake rispose: «Non era mia intenzione impegnarmi con te, Adrien.»

    «Rilassati, non lo sei.»

    «Sì, lo sono.» Mise la sua mano grande sulla mia.

    Patetico, ma questo era il genere di cose che mi spingeva a tenere duro. Uso il termine tenere duro in modo leggero, perché per la maggior parte del tempo la vita andava esattamente come prima, con l’eccezione di quello strano tuffo al cuore quando sentivo la voce di Riordan all’altro capo del telefono. E per quanto ne sapevo quello era un principio d’infarto.

    Era sicuro come l’oro che non fosse amore, perché rifiutavo di fare qualcosa di così autodistruttivo come amare un uomo che odiava se stesso perché omosessuale; il che, per esteso, probabilmente significava che inconsciamente lui odiava anche me. Mi rassicuravo dicendomi che, sebbene mi piacesse Riordan, non stavo chiudendo alcuna porta, non mi lasciavo scappare alcuna opportunità. Ero sempre aperto a conoscere gente nuova, fare nuove amicizie, trovare nuovi amanti.

    Quindi perché provavo frustrazione e rabbia, certo, persino dolore, quando mi aveva dato buca come faceva ogni sera?

    * * * * *

    Fuori Bakersfield mi fermai in un’area di sosta. Gironzolai stiracchiando le gambe, comprai un bagel ai mirtilli raffermo da un camion della ristorazione e ricontrollai la mia Thomas Guide con la luce di servizio del SUV.

    La luna piena risplendeva, illuminando le colline arrotondate punteggiate di querce e qualche rara luce proveniente dalle fattorie. Chilometri nel nulla, a parte un’autostrada vuota e cieli stellati. Chilometri alle spalle e ancor più davanti mentre mi dirigevo a nord assieme a grossi autoarticolati. Stavo toccando i centotrentacinque chilometri orari e mi rilassai impostando il controllo automatico della velocità, con nient’altro da fare che pensare e ricordare.

    Erano trascorsi ventiquattro anni da quando avevo visto per l’ultima volta il Pine Shadow Ranch. Era l’estate prima che morisse mia nonna Anna. Avevo otto anni e le vacanze scolastiche con lei erano i periodi migliori della mia vita.

    La nonna era stata una sorta di leggenda vivente. Una di quelle ragazze dei ruggenti anni Venti. Aveva scaricato un marito dell’alta società ed era tornata nel luogo in cui era nata per allevare cavalli. La ricordavo magra come un chiodo, alta, con i capelli a caschetto color argento e la pelle abbronzatissima. La nonna confezionava da sé le sigarette, cavalcava come un domatore di cavalli e imprecava in italiano, che era la lingua in cui le parlava la bambinaia durante l’infanzia. Doveva essere stata un’infanzia un po’ sui generis a giudicare dalla frequenza e dalla fluidità del suo bestemmiare.

    Non c’era stata alcuna avvisaglia che quell’estate in particolare sarebbe stata l’ultima. Due settimane dopo essere tornato alle amorevoli cure di mia madre, la nonna era rimasta uccisa per una caduta da cavallo. Con grande umiliazione di mamma, la nonna aveva lasciato in eredità l’intera proprietà a me. In tutta onestà, la proprietà non era nulla rispetto alla fortuna lasciata in amministrazione fiduciaria a Lisa dal mio caro defunto padre, ma era sufficiente per garantire le necessità finanziarie che altrimenti non mi avrebbero mai permesso di allontanarmi dalle gonne di mia madre.

    Ereditai metà del denaro quando compii ventun anni e lo investii acquistando quella che oggi è la libreria Cloak and Dagger. Avrei ereditato il saldo al compimento dei quarant’anni, che stando alla pressione fiscale significava tra un’intera vita. Per ciò che riguardava il Pine Shadow Ranch, mi avevano consegnato dei mobili ma non ci ero mai tornato, preferendo ricordarlo com’era. C’era un custode che dava un occhio alla proprietà, ma per quel che ne sapevo, nel momento in cui decisi di fare il mio viaggio di seicento chilometri lungo il viale dei ricordi, quel posto poteva anche essere andato in rovina.

    * * * * *

    Erano quasi le undici quando la State Highway 49 si strinse tra pini e montagne. Abbassai il finestrino. L’aria notturna iniziava a essere fresca e pulita con una punta di nevischio in lontananza.

    I successivi centoventotto chilometri su una strada ventosa li trascorsi imbottigliato tra uno di quei mostruosi camion (con gli abbaglianti ben visibili dallo specchietto retrovisore) e un pickup malconcio con la targa URUGLY. A intervalli di otto chilometri giungevamo a curve con scarsa visibilità e quel camion mostruoso oscillava sulla corsia opposta facendo la sua mossa, come una roulette russa su quattro ruote. Trenta secondi dopo ritornava in formazione, giusto in tempo per evitare di sbattere contro una vettura che sopraggiungeva.

    Finalmente riuscì nell’impresa, rischiando il tutto per tutto, e ruggì via in curva, mancando di poco un frontale con un camion addetto al disboscamento. Svanì nella notte che odorava di diesel.

    Adesso nulla si frapponeva tra me e il cretino che andava a settantadue chilometri all’ora nel pickup. Vuotando l’ultimo caffè Popayan nella tazza del thermos, giocherellai con la radio cercando di trovare una stazione che cambiasse i contenuti tematici da strappalacrime in strapparisate. Malgrado l’eccesso di caffeina, mi sentivo stanco e gli occhi erano lì lì per chiudersi.

    Avvicinandomi a uno stadio di sfinimento tale in cui non ero certo se stessi ancora guidando o unicamente sognando di farlo, per poco non mancai la strada in cui dovevo svoltare. I successivi sedici chilometri furono una sfida per gli ammortizzatori della Bronco e anche per me, ma finalmente riconobbi il paesaggio di Saddleback Mountain e vidi il Pine Shadow Ranch proprio di fronte, dopo la curva successiva.

    Scalai le marce mentre iniziavamo la discesa. La Bronco sferragliò sopra la barriera del bestiame. Di fronte, il ranch giaceva immobile alla luce della luna; da lontano pareva inviolato da tempo. Malgrado le finestre buie e i recinti vuoti, riuscii quasi a convincermi che stavo tornando a casa, che qualcuno mi aspettava per darmi il benvenuto.

    Avvicinandomi maggiormente, scorsi il cartello montato su pali di legno sopra il cancello aperto. Le lettere in legno bruciato dicevano che quello era il Pine Shadow Ranch. Rallentai, gli abbaglianti della Bronco illuminarono un certo numero di forme nell’oscurità: il fienile pericolante dietro la casa, un mulino a vento inclinato, un’altalena spezzata che pendeva da uno degli alberi… e qualcosa sul terreno.

    Frenai. Ero così stanco che pensai che gli occhi mi stessero giocando brutti scherzi, ma mentre aspettavo con il motore della Bronco che perdeva colpi, la cosa sul terreno non diede segno di scomparire.

    Troppo esausto per essere cauto, scesi dall’auto. Non era un effetto delle luci o un qualche scherzo delle ombre. Un uomo giaceva a faccia in giù nella polvere.

    Gli girai intorno, il rumore dei miei passi risuonò forte nella notte chiara. Attraverso il cortile riuscivo a sentire una persiana rotta che produceva colpi rumorosi. Il vento faceva frusciare l’alta erba invernale. Mi inginocchiai accanto a lui.

    Alla luce dei fanali riuscivo a vedere che il volto era girato di lato. Gli occhi erano spalancati, ma non era vivo. Non usciva alcun respiro dalla sua bocca, le spalle non si sollevavano ritmicamente. Tra le scapole c'era un foro nitido delle dimensioni di un quarto di dollaro.

    Trattenni il respiro. Non era la prima volta che entravo in contatto con la morte, ma avevo ancora quella sensazione di osservarla da un sistema solare distante,

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