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Il pozzo delle tenebre: Aracnia 2
Il pozzo delle tenebre: Aracnia 2
Il pozzo delle tenebre: Aracnia 2
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Il pozzo delle tenebre: Aracnia 2

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Fantascienza - romanzo (185 pagine) - Il secondo romanzo della trilogia di Arachnia dal vincitore del Premio Urania Claudio Vastano


Cos'è l'Emporio? E perché i suoi uomini stanno cercando Charles MacDermhott, l'ex cacciatore di ragni giganti che si è ormai ritirato, nascondendosi dal resto del mondo? Che cos'è il Pozzo delle Tenebre, nel cuore della metropoli di Virge City? Davvero custodisce il segreto per la salvezza del genere umano?

Tra segreti, menzogne e speranze al limite dell'inverosimile MacDermhott dovrà affrontare pericoli di ogni tipo in un viaggio verso il futuro che passa attraverso il suo passato più oscuro.


Claudio Vastano vive e lavora a Lucca. Laureato in Scienze Naturali e in Scienze Geologiche. Nel 2018 ha vinto il Premio Urania con il romanzo Simbionti. Nel 2019 è arrivato di nuovo in finale col romanzo Aquarius, poi pubblicato in Urania Jumbo nel 2021. Ha pubblicato altre opere spaziando dalla fantascienza all’horror, dai romanzi per bambini ai gialli e ai saggi scientifici.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateJan 17, 2023
ISBN9788825422870
Il pozzo delle tenebre: Aracnia 2

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    Il pozzo delle tenebre - Claudio Vastano

    Lande desolate

    I

    Negli ultimi giorni lo scricchiolio delle assi del tetto che vibravano sotto il peso delle intemperie si era fatto preoccupante. Se fosse continuato così, pensò Charles MacDermhott, sarebbe stato necessario salire sulla gronda e spalare almeno una parte di quella gelida coltre bianca. Durante le ultime notti la temperatura era scesa regolarmente a meno dieci gradi centigradi, ed era raro che anche in pieno pomeriggio si oltrepassasse lo zero termico. Sebbene la neve non cadesse già da diversi giorni, quella che c’era sarebbe rimasta lì a compattarsi in lastroni di ghiaccio per diverse settimane. Spalare era un’occupazione laboriosa, stancante e non priva di insidie, ma a MacDermhott non dispiaceva. Era un’attività come un’altra per tener occupato il fisico e il cervello. In fin dei conti, di cose da fare ve ne erano rimaste veramente poche, a Bertness e dintorni.

    Il paese era di una tranquillità quasi letargica, sprofondato com’era nelle foreste di abeti del nord e isolato da qualsivoglia via di comunicazione. Le uniche strade che portavano al centro abitato erano mulattiere prive di asfalto e sentieri. La valle si approfondiva fra burroni e dirupi fin quasi alla costa, e in quel punto il pavimento del canalone prendeva a digradare con regolarità verso i fiordi. Le correnti di tramontana scivolavano sopra la valle, sollevando fantasmi di cristalli simili a falangi di soldati erranti. Il vecchio porto segnava il termine ultimo del canalone come una barricata di cemento e vecchie rovine accatastate dalle onde. Prive di manutenzione da ormai vent’anni, le strutture, un tempo imponenti, erano state facilmente soggiogate dai capricci del mare, del ghiaccio e dei taglienti venti settentrionali.

    MacDermhott abitava in un edificio solitario, rinserrato fra i costoni di roccia a strapiombo sulla valle. In altri tempi quel luogo aveva ospitato una stazione di rilevamento meteorologico dotata di uffici, laboratori di analisi, rimesse e alloggi per il personale. Il fabbricato era dislocato su due piani e disponeva di un numero di stanze sufficiente a ospitare almeno una decina di persone. Quel che mancava era la compagnia. Dalle finestre affacciate sull’asse della valle, Bertness appariva niente più che un’insignificante crosta di cemento grigio sprofondata fra le distese di abeti secolari. La stazione meteo, aveva calcolato MacDermhott qualche mese addietro, distava dal centro abitato non meno di un’ora di cammino. Quando poi la mulattiera giaceva sepolta sotto la neve, quella stima andava perlomeno raddoppiata. Anche disponendo di un fuoristrada in perfette condizioni non si sarebbe risparmiato molto tempo; la strada era impervia, stretta e a tratti scoscesa. Una mulattiera da percorrere a marce basse e con un filo di gas.

    Il perimetro della stazione meteo era delimitato da un’ampia aia di cemento screpolato. Piante di sempreverde senza nome ed edera rampicante avevano attecchito fra le crepe della copertura e nel corso degli anni le loro radici avevano approfondito le fratture come unghie che scavano nella terra compatta. Le pareti esterne dell’edificio erano austere e spartane, verniciate con una tinta grigio-cenere che nei giorni di luce fioca conferiva al volto del fabbricato un aspetto ancor più tetro del normale. MacDermhott non aveva compiuto praticamente alcuna modifica sulla struttura del fabbricato. Si era limitato a rimettere in sesto il magazzino degli attrezzi in cui aveva alloggiato il blindato, una parte della sua scorta di munizioni, varie derrate alimentari e gli attrezzi di lavoro. Aveva riparato le finestre, il tetto e il meccanismo di scorrimento della saracinesca. Per il resto, tutto era rimasto esattamente come lo aveva trovato il giorno in cui aveva deciso di stabilirsi lì. Erano trascorsi sei anni, da allora.

    All’interno, al contrario, le modifiche apportate da MacDermhott erano state radicali. Gli arredi da ufficio e la strumentazione tecnica che aveva catalogato al suo arrivo erano per la gran parte logori e inservibili. Se ne era disfatto un po’ per volta, bruciando quel che poteva essere bruciato e ammassando il resto in un’insenatura della valle. La documentazione cartacea raccolta negli scaffali della stazione non conteneva niente che lo interessasse, così aveva gettato via anche quella. Aveva adibito uno degli alloggi del personale a camera da letto e modificato quella che sembrava essere stata una piccola sala conferenze al pianterreno in una sala da pranzo con cucina annessa.

    Vi erano due laboratori, uno al primo piano e un altro, più grande, al pianoterra. Nel primo MacDermhott aveva ricreato, sebbene non in maniera così scrupolosa, i terrari su cui aveva lavorato a Revel. Ordinatamente disposti su tavoli e scaffali vi erano almeno trenta teche per un totale di oltre cinquanta specie di ragni. Una collezione probabilmente unica al mondo. Era stato molto difficile radunarne tante forme diverse. Nei primi anni dall’inizio dell’invasione, dai rettilari dei giardini zoologici era possibile recuperare ogni specie di aracnide tropicale, velenoso o non, mentre i prati e le boscaglie, non più vessati dall’opera dell’uomo, brulicavano di ogni razza animale progettata dal buon Dio. Ma fra i campi perennemente congelati di Bertness, e a quasi vent’anni dall’arrivo dei giganti, era rimasto ben poco da cercare. MacDermhott aveva trovato quel poco che era riuscito a recuperare durante periodici, brevi viaggi lontano dalle terre settentrionali. Nei dintorni di Jacksonville aveva trovato alcuni esemplari di vedova nera e quello era stato un autentico colpo di fortuna, perché difficilmente i ragni di quella specie nidificavano così a ridosso delle montagne. Più a sud, fra Sand Rock e Cahokia, era riuscito a trovare alcune ooteche di tarantole di roccia, una specie molto aggressiva, che non tesseva ragnatele se non in occasione della costruzione del bozzolo delle uova. La sua collezione mancava quasi totalmente di ragni tropicali, i migalomorfi grandi quanto la mano di un uomo, e tuttavia questo rappresentava solo l’ultimo dei suoi problemi. Nelle lande del nord, i giganti con le fattezze di ragni da clima caldo-umido non sarebbero mai giunti. Il gelo li avrebbe costretti a fermarsi prima ancora di varcare le colline di Pecknam Creek.

    La fauna aracnoide della valle era composta perlopiù da piccoli corridori e qualche agelena notturna, ma la loro pericolosità non era neppure lontanamente paragonabile a quella dei ragni che MacDermhott aveva combattuto a Revel: il freddo ne rallentava riflessi e movimenti in modo determinante. Le agelene, in particolare, parevano muoversi quasi al rallentatore, ed era molto raro vederle uscire dai loro labirinti di seta durante il giorno. Spesso, dopo gelate e bufere di neve, il loro metabolismo andava in knock-out termico a causa del freddo e i loro corpi ributtanti collassavano fra le mortali volute dei loro stessi sarcofaghi sericei. Più di una volta MacDermhott aveva osservato gli adolescenti di Bertness che, all’indomani di una violenta nevicata, se ne andavano per i borghi abbandonati del paese in cerca di agelene congelate da prendere a colpi di palle di neve. La visione di un ragno grande quanto un cavallo che diveniva oggetto di un gioco per bambini strideva nella mente del cacciatore con la forza di una lima per acciaio.

    Ma il mondo era cambiato dappertutto. Si era andati avanti, diceva qualcuno, e i sopravvissuti avevano finito per imparare a convivere con le bizzarrie di un’epoca ostile… un’epoca che mal tollerava la presenza dell’uomo.

    Sebbene MacDermhott badasse assai poco alle notizie provenienti da oltre i confini della valle, si diceva che in altri luoghi del mondo stessero nascendo feudi, principati, regni e forse addirittura imperi. Un nuovo medioevo, lo aveva definito una volta, e l’intensità di quel pensiero lo aveva quasi stordito.

    * * *

    Sotto la luce caliginosa della mattina, il cacciatore uscì sull’aia della stazione di rilevamento.

    Era stata una notte lunga e irrequieta. Prima il buio, poi il vento. Le nubi avevano stritolato la luce delle stelle e della luna poco dopo il tramonto, poi era calato il silenzio. Un silenzio di morte, abitato da chissà quali orrori. MacDermhott riusciva a percepirne la presenza attraverso gli occhi della mente; erano zampe chitinose simili a dita di cadaveri che scivolavano dagli oscuri rifugi della foresta in cerca di cibo.

    I ragni temevano il freddo e la luce, ma nella valle di Bertness il buio della notte era spesso accompagnato da un gelo talmente intenso da uccidere qualsiasi aracnide. Ogni giorno, al crepuscolo, nella mente ancestrale dei giganti avveniva allora un conflitto di sangue fra il richiamo della caccia e l’istinto di autoconservazione. Ciò li rendeva indecisi, strani e molto spesso imprevedibili. I corridori, ad esempio, erano soliti cooperare fra loro durante la caccia per poi massacrarsi vicendevolmente una volta catturata la preda. Un comportamento che non aveva eguali in nessun altro luogo del pianeta.

    MacDermhott si attardò nell’osservare la neve che ricopriva il tetto della stazione di rilevamento. Trenta centimetri o poco più di minutissimi cristalli di ghiaccio che premevano senza sosta per scavare un buco fino in soggiorno. Probabilmente non sarebbe accaduto nulla e il calore pomeridiano, per quanto fioco, avrebbe provveduto a liberare il tetto senza bisogno del suo intervento. Ma la giornata era appena iniziata e, con la legna già spaccata e accatastata nella rimessa, il fuoristrada messo a punto e un carico di zuppa di legumi appena prelevato dal paese, occorreva trovare un modo per ingannare le ore.

    Il tempo che trascorre inutilmente alla lunga può risultare persino più letale della caccia, era solito ripetersi MacDermhott. La noia si accumulava fra i meandri della mente e finiva per soffocare passioni, istinti e virtù.

    è un’allegoria che non ti appartiene, Mac.

    Anche questo era vero. Doveva trattarsi di qualcosa che aveva letto in chissà quale libro – forse un thriller – quando ancora apporre un titolo accademico davanti al nome poteva avere un significato. Riuscire ad apprezzare il senso di quella frase durante un’invasione di ragni giganteschi aveva un che di ironico, giudicò il cacciatore.

    Raggiunse la porta del magazzino, sbloccò la maniglia della saracinesca e si guardò attorno. Nessun movimento. Nessun fruscio. La foresta circostante era immobile. Nessun predatore nei pressi della sua dimora. Se ne rallegrò. Sollevò l’avvolgibile ed entrò. L’impianto fotovoltaico sul tetto era inattivo, ma nei giorni precedenti le batterie avevano accumulato sufficiente energia da alimentare le lampade al neon ancora per diverse ore.

    MacDermhott premette l’interruttore di fianco alla porta e un bagliore altalenante rischiarò l’ampio vano della rimessa. Si diresse alla scaffalatura degli attrezzi, impugnò la più leggera fra le vanghe e una granata di saggina dal manico di legno.

    – Questi andranno bene – si disse.

    Da fuori udì provenire il suono della neve che precipitava dalle chiome dei larici e degli abeti, mentre al centro del magazzino il carro blindato parve fissarlo come un grosso cane sonnecchiante. L’odore che permeava quel luogo sapeva di carburante e olio per motori, ma l’aria glaciale lo rendeva appena percettibile, quasi assuefatto a quell’immobilità di morte.

    In quel momento l’aria vibrò di un brusio remoto, quasi un debole sussurro che percorreva la dorsale rocciosa al confine della vallata. MacDermhott uscì dal magazzino senza fretta, facendo ondeggiare la granata sopra la spalla destra. Camminò fino al centro dell’aia e voltò lo sguardo verso uno slargo situato più a valle. Per alcuni minuti le chiome degli alberi riuscirono a celare allo sguardo l’origine del brusio, poi, fra le ombre del mattino, MacDermhott intravide un velo di neve polverizzata che si avvicinava alla stazione di rilevamento. Appoggiò gli attrezzi sullo spigolo del muro esterno e cautamente si mosse verso casa. Intravide due mezzi a quattro ruote motrici che si inerpicavano per la stradina. Erano due grossi fuoristrada dalla vernice color cobalto. Dopo alcuni secondi ne vide spuntare un terzo.

    Che fossero gli abitanti di Bertness? Non era probabile ma neppure impossibile. Conosceva un po’ tutti in paese, e tutti conoscevano lui. Il carattere riservato dello straniero che si diceva avesse dato la caccia ai giganti in una città morta era noto a molti, nella valle. Che motivo potevano avere quei bifolchi per venire a disturbare il suo esilio?

    MacDermhott entrò in casa, si diresse alla rastrelliera del ripostiglio e afferrò un fucile da caccia. Le munizioni erano già nel caricatore. Uscì nuovamente sullo spiazzo un attimo prima che il muso del primo mezzo oltrepassasse l’ultima fila di alberi a ridosso della sterrata. Il rombo dei motori si fece per un attimo più forte e altra neve cadde dai palchi degli abeti intorno alla stazione.

    Il cacciatore avvertì un fremito lungo le ossa delle gambe e delle braccia. Le mani iniziarono a formicolare. Avanzò di un altro passo, abbastanza allo scoperto da mostrarsi apertamente ma non troppo lontano dalla porta da non potervi rientrare se le intenzioni dei visitatori si fossero dimostrate meno che amichevoli.

    Il secondo fuoristrada sbucò dalla cima della stradina e si affiancò al primo. Dopo un poco, arrancando lungo la carrareccia coperta di neve, giunse anche il terzo. MacDermhott osservò il passeggero del primo veicolo che scendeva a terra. Era un tizio con i capelli brizzolati e la barba sul mento. Indossava una giacca a vento grigia e dei jeans neri. Attorno al collo, una sciarpa di lana priva di colore. La corporatura era muscolosa ma snella. Un fisico da soldato, giudicò MacDermhott, mentre la sua esperienza di cacciatore iniziava ad analizzare il modo di camminare, guardare e orientarsi del nuovo venuto. Ma ciò su cui la sua attenzione si concentrò maggiormente fu la totale assenza di armi.

    – È lei Charles MacDermhott? – domandò l’uomo, coprendo la metà della distanza che separava il fuoristrada dalla stazione di rilevamento.

    – Sono io – rispose. – E immagino che nessuno faccia tanta strada nelle lande desolate solo per sperare di trovare un vecchio soldato senza gloria. Voi chi siete?

    – Il mio nome è William Goodkin. Io e gli uomini che vede veniamo da Virge City.

    – La metropoli?

    – Quello che ne rimane – precisò lo straniero.

    – Per quale motivo siete qui?

    – Il motivo è presto detto. Siamo qui per ingaggiarla.

    – Ingaggiare me? – replicò MacDermhott, abbozzando un sorriso. Un baffo di condensa bianca gli si levò dalla bocca e la brezza che scivolava fra le montagne lo risucchiò verso il cielo.

    – Se ne stupisce?

    – Sì, e non poco. Speravo che dopo tutto questo tempo il mondo mi avesse ormai dato per morto.

    – Il mondo ha orecchie lunghe e buona memoria – obiettò l’altro. – La tiene d’occhio da più tempo di quanto non immagina.

    – Sia più specifico – lo invitò MacDermhott. – Chi è che si sta interessando a me?

    Goodkin si avvicinò di qualche passo e il cacciatore sollevò il fucile con una mano, disponendolo in obliquo davanti al petto.

    Il visitatore si arrestò subito, alzando stancamente le braccia. – Se avessimo avuto cattive intenzioni non ci saremmo presentati davanti all’uscio di casa sua, disarmati e facendoci avvistare da mezza valle di distanza.

    – Siete pur sempre in sei – disse MacDermhott.

    – In cinque, ma non è questo il punto – obiettò Goodkin – Come vede non porto armi. Lo stesso vale per i miei compagni.

    Compì un cenno d’assenso in direzione dei fuoristrada e dopo un momento gli occupanti dei mezzi iniziarono a uscire dagli abitacoli. Erano tutti uomini sui trenta o quarant’anni, giudicò MacDermhott. Gente dagli occhi brillanti, a quanto poteva vedere, ma non cacciatori. Non guerrieri. I loro sguardi non potevano tradire l’intuito del solitario di Revel. Nessuno di loro aveva mai preso parte alle battute di caccia contro le cattedrali di seta delle argiopi giganti. Nessuno di loro aveva mai incontrato un corridore di pianura al di fuori delle sicure mura di un rifugio in cemento armato.

    Questa consapevolezza lo rincuorò. Abbassò il fucile, portando la canna dell’arma all’altezza delle ginocchia. – La ascolto. A che proposito vorrebbe ingaggiarmi?

    Con un cenno del mento, Goodkin indicò la porta della stazione di rilevamento. – È una lunga storia. Potremmo parlarne al caldo?

    MacDermhott si strinse nelle spalle. – Se vuole la mia attenzione cerchi di essere sintetico. Non mi piacciono le storie lunghe.

    – Le basti sapere questo, allora… forse abbiamo trovato un modo per debellare l’invasione.

    – Sciocchezze – sentenziò il cacciatore. – Nessuno ha idea di come siano stati creati i giganti. Perché che qualcuno li abbia creati è poco ma sicuro. La natura non impazzisce così, all’improvviso. Tuttavia l’identità dell’artefice di un tale abominio è rimasta un mistero per più di vent’anni, e a questo punto penso che lo rimarrà per sempre.

    – È qui che si sbaglia – disse Goodkin, scuotendo la neve da uno dei suoi scarponi. – Perché anche lei li ha visti, non è vero? Così si racconta in città.

    MacDermhott piegò la testa da un lato – Visti? A che si sta riferendo?

    – Agli incubatori. Quelli di Lansdale li chiamano così – affermò lo straniero. – Incubatori.

    – Ho le mani gelate, Goodkin – disse il cacciatore. – Venga al punto.

    – Io non li ho mai visti, ma chi c’è stato li ha descritti come una sorta di grandi bozzoli membranosi. Dicono che si formino nelle profondità dell’oceano e che di tanto in tanto le correnti oceaniche riescano a spingerli fino in superficie. Soltanto allora si possono avvistare, se si ha la fortuna di navigare nel posto giusto al momento giusto.

    Il cacciatore torse un labbro in un sogghigno. – Incubatori, eh?

    – I giganti nascono da lì. Si formano al loro interno – spiegò Goodkin. – In pratica è come

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