La lanterna di Diogene
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Fin dagli ultimi anni dell’Ottocento con la sua famiglia Alfredo Panzini era solito affittare una casa a Bellaria per le vacanze estive. E su Bellaria come “meta” è incentrato il romanzo “di viaggio” La lanterna di Diogene, che, pubblicato da Treves a Milano nel 1907, lanciò Panzini all’attenzione sia della critica che del grande pubblico. Apparso l’anno precedente sulla Nuova Antologia, è il racconto di uno spensierato viaggio in bicicletta compiuto dall’autore da Milano a Bellaria: una fuga dalla città verso la libertà della campagna dove è possibile ristabilire un rapporto autentico con la natura. Lasciandosi alle spalle il caos della metropoli, la scuola, le lezioni private, gli esami, armato solo della propria pipa, della sua vecchia bicicletta e di un piccolo bagaglio, Panzini varca «il vecchio dazio milanese di Porta Romana» lanciandosi sulla grande Via Emilia. In cinque giorni - questa la durata del suo viaggio, intervallato da varie soste - incontrerà piccoli borghi e città, colline e pianure, ma soprattutto una serie di disparati personaggi caratterizzati da grande umanità. La lanterna di Diogene è infatti una storia di incontri, di dialoghi, di scambi, di impressioni e di scoperte, con la quale il narratore Panzini, che mai riesce a spogliarsi del tutto dalle vesti di erudito professore e di “filosofo”, ci descrive con perizia ed arguzia l’Italia del tempo, rurale e paesana, e i sentimenti e le emozioni delle sue tante anime.
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La lanterna di Diogene - Alfredo Panzini
SIMBOLI & MITI
ALFREDO PANZINI
LA LANTERNA DI DIOGENE
LOGO EDIZIONI AURORA BOREALEEdizioni Aurora Boreale
Titolo: La lanterna di Diogene
Autore: Alfredo Panzini
Collana: Simboli & Miti
Con prefazione di Nicola Bizzi
Editing a cura di Nicola Bizzi
ISBN versione e-book: 979-12-5504-124-5
LOGO EDIZIONI AURORA BOREALEEdizioni Aurora Boreale
© 2022 Edizioni Aurora Boreale
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ALFREDO PANZINI, BELLARIA E LA LANTERNA DI DIOGENE
di Nicola Bizzi
Alfredo Panzini (Senigallia, 1863 - Roma, 1939), scrittore poliedrico, saggista, critico letterario, accademico e lessicografo, autore di manuali, dizionari e grammatiche, è stato uno dei grandi protagonisti della cultura italiana nella prima metà del Novecento. Ingiustamente considerato oggi uno scrittore minore
, ha goduto di grande stima e di importanti riconoscimenti internazionali, tanto che la critica statunitense lo celebrò, a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, come il miglior scrittore di prose italiane
.
Nacque a Senigallia il 31 Dicembre 1863 da Emilio, medico condotto a Rimini, e da Filomena Santini.
Trascorse l’infanzia a Rimini, per poi trasferirsi per studiare a Venezia, avendo ottenuto un posto gratuito presso il convitto Marco Foscarini, dove conseguì il diploma nel 1882. Iscrittosi alla facoltà di Lettere dell’Università di Bologna, fu allievo di Giosue Carducci e Francesco Acri. Dopo la morte prematura del padre (2 Maggio 1883), conseguì la laurea nel 1886 discutendo una tesi su Teofilo Folengo, che divenne la sua prima pubblicazione (Saggio critico sulla poesia maccheronica, Castellammare di Stabia 1887), e iniziò a insegnare: dapprima nei ginnasi di Castellammare di Stabia e Imola e poi, a partire dal 1888, a Milano al ginnasio Parini e infine, dal 1897, al Politecnico.
Il 28 Luglio 1890, a Parma, si unì in matrimonio a Clelia Gabrielli, pittrice e insegnante di disegno, da cui ebbe quattro figli: Emilio (1892), Pietro (1896), Umberto (1900) e Matilde (1908).
Dopo essersi cimentato con diversi lavori di saggistica e traduzioni, nel 1883 esordì nella narrativa con il suo primo romanzo Il libro dei morti, cui seguirono il volume di racconti Gli ingenui (Milano, 1896) e il romanzo Moglie nuova (Milano, 1899).
Legato alla narrativa realistica del secondo Ottocento, nelle sue prime opere Panzini descrisse vicende della vita quotidiana che vedono protagonisti piccoli borghesi, manifestando il suo pessimismo nei confronti dell’Italia postunitaria e rimanendo fedele a un ideale di vita agreste.
Con la fine del secolo iniziarono le sue collaborazioni con riviste e giornali, fra cui l’Illustrazione Italiana, Nuova Antologia, e la Rivista d’Italia, che si andarono sempre più intensificando negli anni.
Nei primi anni del Novecento Panzini si dedicò a un’intensa produzione novellistica, dedicandosi a storie di vita quotidiana, il più delle volte ambientate a Milano, affievolendo gradualmente la sua pessimistica visione del mondo, propria degli esordi. Dopo i dieci racconti riuniti in Piccole storie del mondo grande (Milano, 1901), fu la volta di Lepida et tristia (Milano, 1901-1902), raccolta pubblicata come strenna di un istituto di beneficenza, e quindi dei Trionfi di donne (Milano, 1903).
Nel 1905 curò il Dizionario moderno. Supplemento ai dizionari tradizionali, il cui obiettivo intendeva essere quello di proporre «parole che non si trovano negli altri dizionari», in particolare neologismi e forestierismi penetrati nella lingua Italiana. Il Dizionario includeva voci di uso comune tipiche dell’italiano medio contemporaneo e per questo ebbe un notevole successo, a tal punto che Panzini lavorò per tutta la vita alle sue numerose riedizioni. Sempre al 1905 risale anche l’unico tentativo teatrale di Panzini, La giovinezza di Giacomo Leopardi, azione drammatica in tre atti che non andò però mai in scena (venne pubblicata nel 1937 nella Nuova Antologia).
Nel 1910, a soli dieci anni, morì prematuramente suo figlio Umberto, al quale dedicò le Fiabe della virtù (Milano, 1911).
Panzini riprese la produzione novellistica con Che cosa è l’amore? (Milano, 1912) e Donne, madonne e bimbi (Milano, 1914). Quindi fu la volta di Santippe. Piccolo romanzo fra l’antico e il moderno (Milano, 1914), pubblicato l’anno precedente nella Nuova Antologia, considerato dalla critica la prima prova di quella scrittura rievocativa di periodi e personaggi storico-letterari che caratterizzò tanta parte della sua attività, soprattutto nell’ultimo periodo.
Nell’Italia in procinto di entrare nel dramma della Grande Guerra, Panzini assunse una posizione neutralista sul conflitto bellico, che si riverberò variamente nella sua produzione di quegli anni a partire da Il romanzo della guerra nell’anno 1914 (Milano, 1914). L’inquietudine generata dall’avvicinarsi della realtà di un conflitto ormai ineludibile emerge chiaramente in Il viaggio di un povero letterato, la cronaca di un viaggio in treno da Milano a San Mauro, rimasta fra le sue prove più celebrate, apparso nella Nuova Antologia nei primi mesi del 1915 e quindi in volume nel 1919. Nel 1923 uscì il Diario sentimentale della guerra, diviso nei due volumi intitolati Dal Luglio 1914 al Maggio 1915 e Dal Maggio 1915 al Novembre 1918.
Alfredo Panzini nel 1905
Nell’adottare la tecnica diaristica, Panzini seppe esprimere in maniera incisiva le sue impressioni di fronte a un conflitto di cui sottolinea tutta la tragicità, assumendo al tempo stesso un atteggiamento parodico verso le idee bellicistiche del coetaneo Gabriele D’Annunzio, come accadde, ad esempio, nella sua opera La Madonna di Mamà. Romanzo del tempo della guerra (Milano, 1916). Più disimpegnate invece appaiono le sue due opere pubblicate rispettivamente nel 1918 e nel 1920: Novelle d’ambo i sessi e Io cerco moglie!, romanzo quest’ultimo già apparso a puntate in La Lettura tra il 1918 e il 1919.
Nel 1918, con la fine della guerra, Panzini si trasferì a Roma, dove insegnò dapprima all’Istituto tecnico Leonardo da Vinci, poi al liceo Terenzio Mamiani dal 1924 al 1927, anno del suo pensionamento. Contemporaneamente si accrebbe la sua notorietà e incrementò notevolmente la sua collaborazione con le più importanti riviste letterarie del tempo e con alcuni quotidiani. Oltre che sulle pagine di Nuova Antologia e della Lettura, iniziò infatti a scrivere su La Voce, Il Marzocco, L’Italia che scrive, La Rassegna italiana, Il Resto del Carlino, Il Corriere della Sera, La Tribuna, Pegaso e La Fiera letteraria, pubblicando nel frattempo nuovi romanzi sempre più lontani dagli schemi narrativi tradizionali: Il diavolo nella mia libreria (Roma, 1920), Il padrone sono me! (Roma-Milano, 1922) e La pulcella senza pulcellaggio. Romanzo d’altri tempi (Milano, 1925).
Il 21 Settembre 1924 tenne la commemorazione di Giovanni Pascoli nella sala dell’Arengo di Rimini alla presenza di Benito Mussolini e, l’anno successivo, firmò il Manifesto degli intellettuali fascisti redatto da Giovanni Gentile. Nel 1929 venne nominato Accademico d’Italia e, in tale veste, il 6 Ottobre 1935 pronunciò in Campidoglio il discorso celebrativo per il centenario della nascita di Giosuè Carducci.
Morì a Roma il 10 Aprile 1939.
***
Fin dagli ultimi anni dell’Ottocento con la sua famiglia Alfredo Panzini era solito affittare una casa a Bellaria per le vacanze estive, fino a quando decise di costruirne una propria. Nel 1905 iniziarono i lavori per un villino, noto come la Casa Rossa
e l’amena località della riviera romagnola divenne per lo scrittore un vero e proprio rifugio dalla città, dove poter coltivare il suo amore per la terra, ma fu pure occasione di amicizie e incontri letterari come quelli con Renato Serra, Antonio Baldini e soprattutto Marino Moretti. Bellaria divenne per Panzini un rifugio, una piccola patria
in cui mettere radici per ritrovare un appiglio solido in mezzo allo scompiglio generale ed epocale introdotto dalla modernizzazione, un luogo dove riassaporare la quiete e vivere intensamente il proprio rapporto con la terra e la natura. La Casa Rossa
- che è stata restaurata nel 2006 e che oggi è una casa-museo accessibile al pubblico che conserva anche l’archivio dello scrittore -, edificata in cima a una duna di sabbia, esposta al vento del mare e al rumore della ferrovia, assunse fin da subito i tratti di una dimora anti-intellettuale
e osservatorio privilegiato - e distaccato - sulle trasformazioni del mondo. E su Bellaria come meta
è incentrato il romanzo La lanterna di Diogene, che, pubblicato da Treves a Milano nel 1907, lanciò Panzini all’attenzione sia della critica che del grande pubblico. Apparso l’anno precedente sulla Nuova Antologia, è il racconto di uno spensierato viaggio in bicicletta compiuto dall’autore da Milano a Bellaria: una fuga dalla città verso la libertà della campagna dove è possibile ristabilire un rapporto autentico con la natura. Lasciandosi alle spalle il caos della metropoli, la scuola, le lezioni private, gli esami, armato solo della propria pipa, della sua vecchia bicicletta e di un piccolo bagaglio, Panzini varca «il vecchio dazio milanese di Porta Romana» lanciandosi sulla grande Via Emilia. In cinque giorni - questa la durata del suo viaggio, intervallato da varie soste - incontrerà piccoli borghi e città, colline e pianure, ma soprattutto una serie di disparati personaggi caratterizzati da grande umanità. La lanterna di Diogene è infatti una storia di incontri, di dialoghi, di scambi, di impressioni e di scoperte, con la quale il narratore Panzini, che mai riesce a spogliarsi del tutto dalle vesti di erudito professore e di filosofo
, ci descrive con perizia ed arguzia l’Italia del tempo, rurale e paesana, e i sentimenti e le emozioni delle sue tante anime.
Nicola Bizzi,
Firenze, 20 Dicembre 2022.
Alfredo PanziniAlfredo Panzini con la sua bicicletta a Bellaria negli anni della Prima Guerra Mondiale
I.
LA CURA DEL MOTO E DEL SOLE
L’undici di luglio, alle ore due del pomeriggio, io varcavo finalmente, dall’alto della mia vecchia bicicletta, il vecchio dazio milanese di Porta Romana.
La meta del mio viaggio era lontana: una borgata di pescatori su l’Adriatico, dove io ero atteso in una casetta sul mare: questa borgata supponiamo che sia non lungi dall’antico pineto di Cervia e che, per l’aere puro, abbia il nome di Bellaria.
Ora, quel giorno della partenza, il cielo era senza nubi, e per far piacere alla città che mi ospita da tanti anni, dirò che era anche azzurro: certo ne pioveva un’afa così ardente e greve, che in ogni altra città d’Italia gli uomini si sarebbero addormentati; e anche le motrici e le macchine si sarebbero fermate.
Vero è che a Milano non si sciopera per così poco.
*
Per mio conto tuttavia avrei giurato che in quell’ora ventilavano i più puri zeffiri del mare, e che la cappa del cielo era proprio così bella come assicura il Manzoni nei «Promessi Sposi».
Questo singolare fenomeno illusorio avveniva in me perché in quell’ora il fresco maestrale della contentezza spirava nel mio cuore.
Ero io contento veramente in quell’ardente pomeriggio dell’undici luglio? Certo ero leggiero, leggiero come uno il quale, dopo essere rimasto tutta la giornata nelle strettoie d’un abito nero per assistere ad una interminabile cerimonia ufficiale, arriva a casa, si strappa il colletto e manda in aria il palamidone.
Precisamente: io ero stanco e greve e, ben ripensando, più che del lavoro giornaliero, io ero stanco della cerimonia ufficiale della vita, tanto stanco che in questo senso di tedio mi parve di essere meravigliosamente solo fra gli uomini, e ne ebbi paura come di un prodromo di malattia insanabile dell’anima.
Lo sforzo continuo di equilibrarmi con gli altri, di portare anch’io sopra il colletto un bel volto mansueto e cerimonioso, mi squilibrava sempre di più. Buttavo all’aria la carta stampata; la letteratura, mi chiamava in mente i fiori secchi nelle scatole dei droghieri; gli scritti di politica, di filosofia mi facevano venire in mente le emulsioni e le più vantate specialità farmaceutiche. Mi pareva di essere stato anch’io sino a quel tempo un droghiere e un farmacista in una botteguccia scura. E intanto la stella di Venere illumina i vertici dei monti, e il mare palpita sotto l’Aurora!
V’erano poi certi libri che mi facevano un effetto diverso da quello che fanno agli altri studiosi. Così, per esempio, dall’«Orlando Furioso» veniva fuori una gran cavalcata; dalla «Gerusalemme» un pianto di belle donne amorose; dall’«Odissea» un profumo di grande mare azzurro su cui si stende il canto di Circe, la maga. Dalla «Divina Commedia» veniva fuori l’alba che vince l’ora mattutina e un gridio di uccelletti su la divina foresta spessa e viva.
Ma il più bello era che questi magici libri non mi dicevano mica: «mettiti lì, a far dei commenti!», ma invece mi dicevano paternamente: «va, cammina, svagati!»
Questi consigli corrispondevano appunto a quelli della mia vecchia bicicletta.
Da mesi e mesi la vecchia bicicletta nel chiuso studiolo mi diceva:
«Ricordi dieci anni fa la gioia dell’alba che raggiò da Colfiorito? L’ascesa a Recanati come ad un santuario? La sosta a San Vitale presso Classe con quei gran gigli simmetrici per l’abside azzurra, e quei mansueti cervi simbolici, assetati di verità, tanto che ti palpitò il cuore, o incredulo, di fede e di amore per il Cristo, giovanetto severo che lì giganteggia seduto, e ti fissa con l’indice levato?».
Questi precedenti spiegano la ragione della mia contentezza quando quel giorno undici luglio, ornate le gambe di un paio di novissime calze, montai in sella.
Incontrai per la città qualche conoscente, molto meravigliato nel vedermi in cotale assetto. Ma io salutai da lungi e dissi nel cuore biblicamente: Nescio vos!
Molto più fortunata di me, la bicicletta aveva trovato un meccanico che fermò qualche vite, rinnovò i pneumatici, e lubrificò i congegni. Per noi, creature di Dio, non esistono pezzi di ricambio. I pneumatici una volta invecchiati, tali rimangono, né il mercante vende olio per lubrificare le ossa indurite. Noi, sventuratamente, abbiamo l’età dei nostri pneumatici, cioè delle nostre arterie, e non c’è laboratorio Dunlop che le rinnovi.
Ciò è molto sconfortante: vale tuttavia a spiegare un’altra causa della mia contentezza quando mi accorsi che il pedale rispondeva bene all’impulso, che le case andavano indietro e la verdura della campagna veniva avanti. Addio, Madonnina del Duomo! Rimani — io non so se tuo buon grado o mal grado — su l’estremo pinnacolo a guardare questa città, che si fa sempre più rumorosa e più grande: troppo grande e superba per l’umile anima mia. Ero dunque padrone del moto, e ne gioii come di un’insperata fortuna.
Con prepotenti squilli mi diedi ad avvertire la gente del mio passaggio, e la gente mi guardava. Io non so se facevo strani gesti, ma certo so che col pensiero dicevo: «Andatelo a dire come si fa a guarire della nevrastenia!».
Quando, finalmente, l’incubo delle case disparve, disparve la gente densa, e vidi (oh meraviglia, come di oasi al navigante del deserto!) le alte siepi di acacie coi bianchi grappoli odorosi, e sentii le acque mormoranti per il verde piano lombardo, una freschezza forte e giovane mi alitò nel cuore. E mi rifiorì nella memoria il ricordo della gioia che inebriava i miei quindici anni quando pur di luglio, nelle vacanze, lasciavo quel regio domicilio coatto che fu per me il collegio.
La differenza tra allora ed ora tutt’al più questa, che allora il mondo materiale prendeva stupende proporzioni eroiche; i malfattori abitavano quasi