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Lo straniero di qualcun altro
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Lo straniero di qualcun altro

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About this ebook

Daniele, un giovane investment manager torinese, viene catapultato nella capitale cinese. Siamo nella Pechino ipertecnologica, sospesa tra stereotipi e realtà, un thriller finanziario si propaga tra grattacieli futuristici, telecamere a riconoscimento facciale, hutong e massime confuciane.

Un legame rosso di sangue, di fatica, di intolleranza. Perseguitato da incubi paurosi che diventano vere e proprie premonizioni, Daniele ha un solo modo per evitare di subire la medesima sorte del collega scomparso nel nulla: seguire l'insegnamento del passato.

Nei corsi e ricorsi della storia anche in questo Paese proiettato al futuro, l'appartenenza esclusiva a una comunità può prendere il sopravvento, dando origine a un giallo mozzafiato tra passato e presente nel quale essere «uno straniero» è il problema ma anche la soluzione.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateDec 15, 2022
ISBN9791221442984
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    Lo straniero di qualcun altro - Angela Cristina Gallo

    Parte prima

    Reiseangst

    I.

    Aigues-Mortes, 1893

    Bisognerebbe aver ucciso

    il padre e la madre

    per andare a Peccais.

    Canto operaio dell’Ardèche

    ‒ Stai fermo, per la miseria! ‒ imprecò Lorenzo trattenendo a stento una bestemmia.

    Il compagno sdraiato accanto a lui si era girato per l’ennesima volta e la paglia del giaciglio su cui dormivano gli era arrivata addosso, tutta quanta. Una paglia grigia e unta, zeppa di farina che gli aveva riempito le narici, impedendogli di respirare.

    ‘Soffoco’, pensò spaventato. Cominciò a tossire, sempre più forte. Al terzo colpo cercò disperatamente di trattenersi per non svegliare Teresa.

    Lei e tutti gli altri che facevano finta di dormire su quella terra sporca, stremati, avviluppati nella farina come vitelli appena nati. Come quel bue lardoso di Pietro che continuava a girarsi.

    I più fortunati ci riuscivano, a dormire sul serio.

    Lui no, non era tra quelli.

    La campana del santuario batté le ore: uno, due, cinque rintocchi. Se quella fosse stata una delle sue solite giornate avrebbe goduto ancora dell’ora di sonno che separa l’inizio del giorno dall’inizio della fatica.

    Dodici ore di lavoro. Ore di sofferenza con la schiena spezzata e l’unico conforto del vino prima di poter arraffare quei cinque franchi sudati che erano la sua paga giornaliera e lasciarsi travolgere, finalmente, dalla stanchezza.

    Un franco e venti centesimi per il vitto - un tozzo di pane con una scodella di zuppa salata a pranzo, una minestra con carne la sera, - due franchi da annegare in quel vino schifoso che mandava in pappa il cervello, anche bevuto a stomaco pieno.

    Il resto da mettere da parte per tornare a casa, lui e Teresa.

    A casa, a Torino, in Barriera di Milano.

    Quando Dio vorrà.

    ‒ Rensu, dormi ancora? ‒ chiese Pietro nel buio rotolando addosso al poveraccio di sinistra.

    ‒ No, sono sveglio, cristo santo. Ti giri e rigiri come una biscia pestata, come faccio a dormire? E non urlare che Teresa ha appena chiuso gli occhi.

    ‒ Boia fauss, gli occhi è meglio tenerli bene aperti, invece. Sta arrivando il sole e di sicuro ne faranno partire altri. Siamo ancora in trenta qui dentro, senza acqua, senza pane e con una puzza di piscio che fa rivoltare lo stomaco.

    ‒ E certo, di sicuro vengono a prendere te alle cinque del mattino. Ti danno una brioche calda e ti fanno montare sul treno come un principe di casa Savoia. Vuoi anche i carabinieri a cavallo?

    Il buono in quella dannata situazione era che la voglia di scherzare non lo abbandonava mai, Lorenzo. Era vero quel che diceva Teresa, lui aveva dentro una vena allegra da bambino incosciente.

    Teresa che aveva due anni in meno, ma a volte sembrava molto più adulta di lui.

    A un cenno di Pietro, Lorenzo si avvicinò a quell’omone bruno amico suo sin dalla culla e cercò di interpretare le parole che fingeva di sussurrare.

    ‒ Sì, mio bel piémos, non ci penso proprio a fare la fine del topo. Falla pure te e Teresa. Se non viene nessuno io scappo con le mie gambe che ancora ci riesco. E tu dovresti fare lo stesso.

    ‒ Ma non posso, io! Vedi ben che Teresa non può correre. Non riesce neppure a camminare con quella ferita al piede.

    Pietro si girò di nuovo. Con uno sguardo feroce acchiappò la gamba dell’amico e la sollevò strattonandola malamente.

    ‒ Già, il bel piedino di Teresa, solo questo conta, ‒ imprecò a voce alta. ‒ Ma guarda i nostri, di piedi. Guarda come sono ridotti dalle piaghe dei salinons. Se corriamo noi, di sicuro correrà anche lei. Correrà come già una volta, da un fidanzato all’altro!

    Dalle labbra di Lorenzo uscì un lungo sospiro. A cosa serviva rispondere? Lo sapeva, già da Torino lo sapeva, non avrebbe dovuto portarla in quell’avventura.

    Non avrebbe dovuto accettare nemmeno lui.

    Però quando avevano chiuso la fornace non c’erano state alternative: era l’unico lavoro ben pagato che gli avevano offerto. Sì, un impiego stagionale, ma avrebbe comunque guadagnato un bel po’ di soldi. Per cercare due camere dove abitare e lasciare ai vecchi quella casupola decrepita che bastava appena per loro.

    E poi per sposarsi, finalmente.

    A ventisei anni un uomo doveva ben mettere su famiglia. Però ce la doveva fare a mantenerla.

    Ma lei no, lei non avrebbe dovuto seguirlo.

    Era delicata, Teresa. Lui allora l’aveva implorata in tutti i modi di restare a Torino.

    ‒ Se non mi fai venire, giuro che vado dalla zia, la monaca. Anzi entro in convento pure io! ‒ aveva urlato lei alla fine, con gli occhi spiritati e le chiazze rosse che le spuntavano a grappoli sul collo come succedeva quando si arrabbiava.

    Alla partenza per la Francia poi, neppure il bayle acchiappauomini aveva protestato, quello che batteva mezzo Piemonte per reclutare gli stagionali. Forse un pensierino se l’era pure fatto, su Teresa. Che di occhi così azzurri se ne vedevano davvero pochi da quelle parti. Per non parlare dei seni e delle curve. Tutte al posto giusto, per la felicità dei maschi che quando passava non le staccavano gli occhi di dosso.

    ‒ Ma sì, qualcuno che aiuti in cucina serve sempre, ‒ aveva detto. ‒ C’è giusto ancora un posto libero sull’ultimo omnibus, quello dove viaggerà anche il signorino qui, così la può tener d’occhio, la sua bella ‒. E aveva fatto una risata sgangherata, come il cigolio di una porta con i cardini rotti. Una risata falsa.

    Lorenzo avrebbe dovuto capirlo che quello che stava offrendo quell’uomo era una moneta taroccata. Non era una speranza di vita, ma l’inferno in terra. L’inferno dei vivi.

    Certo, erano in tanti quelli che andavano via per mantenere la famiglia. Qualcuno tornava e raccontava di come si fosse fatto i soldi. Di come lo trattassero bene e apprezzassero il suo lavoro.

    Ma non era vero.

    ‘Nessuno ci vuole bene e nessuno ci vuole tra i piedi, a noi italiani’, aveva realizzato dopo. ‘Noi italiani che rubiamo il lavoro e che accettiamo tutto, anche i lavori più schifosi e mal pagati’.

    E adesso erano lì, chiusi in quel forno con la puzza di corpi sudati e di escrementi che aumentava di ora in ora. Fermi ad aspettare l’alba e qualcuno che li tirasse fuori.

    Recriminare non serviva e cercare di scappare neppure.

    Lorenzo chiuse gli occhi e lo sentì di nuovo. Lo sentì come se gli martellasse in testa, quel maledetto tamburo. Ogni cinque, dieci minuti ricominciava a battere, sempre più forte.

    Come la sera prima, quando dalla piazza proveniva solo quel suono incessante e, a ogni colpo di mazza, un pugno si abbatteva sulla testa di Pascà, il suo compagno di squadra, l’unico che non era riuscito a rifugiarsi tra quelle mura.

    Un pugno, un calcio, un altro ancora. Sino a che di lui non era rimasto altro che una sagoma scura, lorda di sangue rappreso.

    1.

    Torino, 125 anni dopo

    Mi nascondo dentro una canzone,

    così nessuno mi trova qui.

    Charlie Charles, Calipso

    Con le apple air pods nelle orecchie, Daniele Zafon non avrebbe sentito neppure l’arrivo di un intero branco di bisonti a quel semaforo. Non di certo l’auto sportiva che aveva frenato di colpo mentre sfiorava il suo vespino blu fermo all’incrocio tra corso Vittorio Emanuele II e la stazione di Torino Porta Nuova.

    Il ragazzo alla guida aveva tirato giù il finestrino agitando tutte e due le mani per attirare l’attenzione. Prima dello scatto del verde Daniele si era infine voltato liberando l’orecchio sinistro.

    ‒ Alla buon’ora! Scommetto che ti stai rincoglionendo con Charlie Charles, Calipso-oo, corri ragazzo nei vicoli, cento sirene negli angoli, nessuno cercherà nel tuo cuor, oh oh… ‒ gli aveva urlato dal finestrino.

    ‒ Naa, Giova, lo sai che di mattina preferisco aprire gli occhi con i Muse. Vuoi mettere Sfera Ebbasta con l’assolo di chitarra di plug-in baby?

    ‒ Beh, con quello almeno ti svegli. Stai andando alla fabbrica dei soldi?

    ‒ Sì, non mi hanno ancora licenziato. Però devo arrivare prima delle otto che aprono i mercati ‒. Daniele lanciò un’occhiata irrequieta al semaforo. ‒ E comunque i soldi li investiamo, mica li fabbrichiamo. Magari fosse, così potrei permettermi anch’io una Bmw X2. Guarda come giro, invece, su una vespa di seconda mano. Ma quanti soldi ti danno in Amazon? Sempre lì sei, vero?

    ‒ Ecceerto. Quante volte te l’ho detto, il commercio on-line è il futuro, il nostro futuro. Con il mercato cinese, poi. Sai quanti soldi ci facciamo. Guadagni facili anche per te, se solo ti decidessi a cambiare. Di offerte te ne hanno fatte, no?

    ‒ Sì, ma tutte fuori Italia. Avrei dovuto trasferirmi in Lussemburgo, o a Londra da Goldman Sachs, in alternativa a Francoforte. Ma a me non dispiace vivere qui, stare con la mia ragazza, incontrare gli amici quando ne ho voglia. E di persona, non solo su Facebook. E poi la Cina, mah… Non so, non credo sia poi questo granché. Magari ti vengo a trovare, anche senza il lavoro di mezzo.

    Il verde precedette di poco la domanda che Giovanni stava per formulare. ‘Il solito bougianen torinese. Inamovibile come la Mole’, commentò tra sé scuotendo la testa. ‘E pensare che con il cervello che ha potrebbe guadagnare da Dio. Boh, contento lui. Chissà se lo vedrò mai in Cina’.

    Partì di scatto agitando la mano in segno di saluto.

    Si erano laureati insieme, Daniele e Giovanni, Giova per gli amici. Una laurea in Economia il primo e in Legge il secondo, dopo tutto un percorso scolastico fatto fianco a fianco sin dalla scuola primaria. Poi ognuno aveva scelto la propria strada: Giovanni avvocato d’affari nel commercio on line, Daniele a smanettare su investimenti finanziari.

    Dopo un anno passato a Milano nel risk management di una grande banca, Daniele aveva accettato l’offerta di una società di gestione di Torino, la Moneytrend Sgr, piccola ma aggressiva.

    Guadagnava leggermente meno, certo. Ma non aveva le spese - e la rottura di palle - di farsi due ore di viaggio ogni giorno per andare a Milano. Di abitare nella metropoli lombarda neanche a pensarci, ora che c’era Silvia. Si erano conosciuti quattro anni prima quando entrambi frequentavano l’università - facoltà umanistica quella di lei - e preparavano gli esami seduti al medesimo tavolo della biblioteca di zona.

    ‒ Ma tutti questi dizionari a che ti servono, devi girare il mondo? ‒ aveva chiesto un giorno per attaccar bottone con quella brunetta che sembrava la copia giovane di Penelope Cruz.

    ‒ Non ti viene in mente che forse studio lingue? O almeno ci provo con il casino che fate, tu e il tuo amico ‒ aveva risposto lei sorridendo con gli occhi.

    ‒ Beh, allora ti porteremo con noi all’avventura dopo la laurea, ‒ si era intromesso Giovanni che anche quella volta era riuscito a rompere le scatole, come faceva sempre quando Daniele puntava una ragazza. ‒ Tanto qui un lavoro che ci faccia diventare ricchi non lo troviamo di sicuro. Così avremo qualcuno che interpreta cosa ci dicono. O almeno che ci ordina un caffè per brikfast.

    ‒ Breakfast, cretino! ‒ aveva sbuffato Silvia. ‒ E poi di andare all’estero non ci penso proprio, quello che ho in mente lo posso fare anche qui, sicuramente con meno fatica.

    ‒ E cosa, ‒ aveva replicato Giovanni, ‒ la disoccupata?

    Lei non si era curata di rispondere.

    Entrando alla Moneytrend Daniele sentì subito una certa elettricità nell’aria.

    Varcò la soglia dell’ufficio e andò a sbattere contro Bradley, il collega australiano che usciva di corsa con le mani piene di fascicoli. Erano report e grafici sull’andamento del mercato finanziario cinese.

    ‒ G’day, mate, ma dove accidenti stai guadando! ‒ disse lui storpiando come sempre le parole. ‒ Sbrigati che aspettano solo te con le proiezioni sui future, sempre che tu le abbia portate.

    ‒ ’Giorno anche a te, amico. Ma dov’è finita la serafica calma degli australiani? La mattina sei più schizzato di tutti quanti noi, milanesi compresi. Lasciami almeno spegnere l’iPod, please ‒ rispose in fretta Daniele.

    ‘Mi aspetta una giornata di merda’, pensò subito dopo mentre posava casco e auricolari.

    La tattica di sedersi nell’ultima fila e nascondersi dietro i suoi brani musicali preferiti non avrebbe funzionato questa volta. L’aveva salvato in tante occasioni, quando cercavano kamikaze per lanciare nuovi strutturati su mercati finanziari intasati come discariche o soluzioni d’investimento innovative per ricconi assetati di rendimenti. Questa volta il dio denaro voleva il suo, di sangue.

    Sarebbe stata una mission impossible anche per Tom Cruise non farsi coinvolgere.

    Reprimendo un’imprecazione entrò in sala riunioni camminando rasente il muro per confondersi con la tappezzeria verde dollaro. Si era appena stravaccato sulla sedia in fondo alla sala quando gli occhi dell’amministratore delegato, Marc Débradant - il francese, come lo chiamavano tutti - lo individuarono come un radar tra le nebbie. Daniele sentì il suo sguardo trapassargli la nuca. La conferma dei suoi timori era lì: «I want you», si leggeva a chiare lettere nei suoi occhi di ghiaccio.

    2.

    Dio non gioca a dadi con l’universo.

    Albert Einstein,

    Lettera a Niels Bohr

    L’ufficio di Marc Débradant era pieno come un uovo di report, relazioni, grafici con colori brillanti e cartacce impolverate. Esattamente come Daniele se lo ricordava dal primo giorno in cui ci aveva messo piede, quando il francese l’aveva assunto.

    I monitor appesi al muro erano aggiornati in tempo reale con gli andamenti e le proiezioni dei mercati finanziari. Non solo i principali, ma anche quelli a minore capitalizzazione. C’erano titoli quotati, gli over the counter, i future e le valute, anche le più insignificanti e meno trattate.

    ‘Neanche a qualcuno possa importare di investire nella valuta di Macao, la mitica Pataca. Meglio la patonza, semmai’, pensò Daniele guardandosi intorno.

    Marc non avrebbe apprezzato la battuta. Si prendeva molto sul serio, il francese. Cinque anni prima i suoi occhi azzurri avevano ammaliato il consiglio di amministrazione e la erre moscia aveva fatto il resto. Non certo l’intuito dell’uomo o la tutto sommato scarsa abilità in campo finanziario.

    Quelle cose non erano indispensabili per fare l’amministratore delegato. Saper scegliere i collaboratori invece sì, faceva sicuramente la differenza.

    Marc era bravissimo ad adescare i poveracci addetti al lavoro sporco mentre lui saltellava da un banchetto all’altro, da un meeting con cena di gala a un campo di golf pour s’entretenir avec les investisseurs,

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