Carmela
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Carmela - Vincenzo Mazzeo
1
Giugno era ritornato da alcuni giorni nel piccolo paese di Calabria. La scuola sarebbe terminata da lì a poco. Frequentavo la quinta elementare e la nostra maestra Olga, quel giorno, un poco prima che finisse la lezione, con la sua voce dolce e convincente, ci invitò a fare silenzio. Disse che doveva comunicarci una cosa importante, molto importante, aggiunse assumendo un tono solenne.
- Fra pochi giorni le nostre vite si separeranno, - cominciò. - Io proseguirò a fare la maestra con altri bimbi e bimbe, voi continuerete il vostro cammino, col tempo diventerete grandi e allora...
Nessuno di noi poteva capire cosa significasse quel diventerete grandi
.
- Prima di lasciarvi, - seguitò - vorrei dirvi questo: fate tesoro di quanto abbiamo vissuto insieme in questi anni, delle materie che abbiamo studiato, in particolare la poesia che, come vi ho insegnato, nasce dall’animo. Sì, dall’animo che si pone mille domande. E pure voi dovreste farvele queste domande. Lo so, siete ancora molto giovani, ma io ho fiducia in voi e vorrei che… vorrei che già da domani vi faceste questa domanda: Chi sono io?
Tutti ci guardammo come per dire: ma cosa sta dicendo la nostra maestra? Ognuno di noi sa chi è e come si chiama. Poco ci mancò che scoppiassimo a ridere.
Vedendoci incerti e silenziosi: - Sì, capisco. Ora non potete comprenderla. Però fatevela lo stesso, soprattutto quando siete soli.
L’indomani mattina, appena sveglia, prima ancora di lavarmi la faccia, andai davanti allo specchio del nostro comò e, osservando la mia immagine riflessa, dissi ad alta voce: Chi sono io? Subito dopo scoppiai in una fragorosa risata, forse dando così libero sfogo a quanto ero stata sul punto di fare in classe il giorno prima.
Poi rivolta alla mia immagine: Lo sai anche tu che sono Carmela, figlia di Angela e Adamo. Che sono una bambina scustumata, come dice mia madre, disubbidiente, testona e per questo mio padre mi picchia sempre. E mi divertii a fare sberleffi, boccacce. Smisi solo dopo aver sentito l’urlo di mia madre: mi sollecitava a sbrigarmi per andare a scuola. Prima che uscissi, con tono di comando, mi ricordò che, al ritorno, dovevo lavari i panni. E non ti scurdari!
Durante il breve intervallo, raccontai tutto a Giulia, mia inseparabile amica fin dal primo anno di scuola. Nel pomeriggio, trasgredendo l’ordine di mia madre e di mio padre di non uscire di casa, mi recai da lei dove ripetemmo quanto avevo fatto al mattino, e il nostro smisurato ridere e l’allegria rompevano la calura e il silenzio che copriva le vie e le case. Era tempo della mietitura e gran parte delle persone si trovava nei campi. Giulia aveva con sé il fratellino, Nicola, di quattro anni, a lei era stato dato il compito di accudirlo fin dai primi mesi dalla nascita; vedendoci, pure lui si mise a saltare e a ridere.
Sono nata un giorno di agosto. Mia madre nel nostro dialetto mi raccontava: Ci trovavamo in campagna, nel luogo dove, come tu sai, passavamo l’estate. Era il periodo in cui si raccoglie il miglio e ci eravamo alzati presto. Dopo ore a strappare pannocchie, io sempre in piedi, bagnata di sudore e la pancia bella grossa, e tuo padre a riempire i sacchi, a un certo punto sento dei dolori. Penso sia qualcosa di passeggero, invece dopo alcuni minuti ritornano e in modo più forte. Mi giro verso tuo padre: Adamo, pare che a criatura voli u nesci. Lui senza dire parola mi fa segno di andare a sedermi, porta i sacchi pieni nto pagghiaru, chiude la porta e ci mettiamo in cammino. Per raggiungere casa ci voleva più di un’ora. A metà strada, tuo padre dietro e io avanti, i doluri aumentanu e temo che tu debba nascere da un momento all’altro. Dopu nu pocu passa uno del paese con un carro pieno di pannocchie. Era u massaru Raffaeli. Capisce e subito mi invita a salire. Per tuo padre non c’è posto e prosegue a piedi. Quandu arrivau, tu eri già nata.
A questo punto si interrompeva rimanendo in silenzio. Gli occhi verso un punto indefinito, pareva stesse ripassando immagini di quel momento. Poi con voce a svelare un senso di amarezza, aggiungeva: Appena entrato, a me chiese come stavo. Nessuna emozione nella sua voce. A te, adagiata al mio fianco, solo un fuggevole sguardo. Si aspettava nascesse un maschio.
Il giorno seguente era la festa della Madonna Assunta, patrona del paese, e lei voleva darmi quel nome, mio padre invece impose che mi chiamassi Carmela come la sua mamma.
Con i miei otto anni ascoltavo e, osservando le sue belle mani, il bel volto, gli occhi celesti, i lunghi capelli, cercavo di immaginare quel suo cammino sulla quella strada, che ora conoscevo, asfaltata, lunga e solitaria in quell’ora, e la vedevo sotto il sole d’agosto, scalza, la veste fin quasi le caviglie, fazzoletto in testa, occhi e viso segnati dalla sofferenza e dall’ansia, trascinare quel pesante e alto corpo.
Cercavo di immaginare mio padre e mi si presentava, nel suo aspetto rigido, la sua bassa statura, non bello, capelli neri, occhi severi, mentre seguiva a distanza mia madre, e quando entrava in casa silenzioso e diceva quelle poche parole alla moglie e gettava il suo fuggevole e freddo sguardo su di me.
Quel giorno lasciai in fretta la mia amica Giulia e rientrai a casa. Dovevo portare a termine ogni ordine di mia madre. E poi c’era la cena, se non l’avessi preparata, avrei visto le pesanti mani di mio padre calare violente su di me.
Però, nonostante fosse un’imposizione, mi piaceva: scoprivo il gusto di realizzare qualcosa con le mie mani, il desiderio costante di imitare gli adulti, soprattutto mia madre.
Due semplici stanze, una al pianterreno e l’altra al primo piano, erano la nostra abitazione.
Avevano il pavimento di mattoni rossi ruvidi e consunti dal tempo, pareti e soffitto grezzi e segnati dagli anni.
Sotto, dormivo io. Il letto stava in un angolo, dietro una tenda blu sostenuta da una cordicella. Intorno, un tavolo, alcune sedie, il piccolo comò con specchio; d’inverno il braciere; la finestra che dava sulla strada forniva la luce. Sul retro, il magazzino e il pollaio.
Sopra dormivano i miei genitori. Qui un balcone di legno dava sulla campagna e mi permetteva di spaziare con lo sguardo distese di ulivi, campi arati, di scrutare le lontane montagne, sempre misteriose, in particolare la sera quando si punteggiavano di luci. In un piccolo spazio, il focolare.
L’anno scolastico terminò e un’accesa discussione fra mia madre e mio padre durò per giorni. Per mia madre dovevo andare a maestra.
- Lei deve imparare a cucire, a ricamare, non deve morire zappando come me.
Mio padre, con il solito imperioso tono: - Lo so io cosa deve fare. Da oggi in avanti dovrà stare con le due caprette. Le ho comprate apposta. E deve seguirle tutti i giorni, e guai se si ammalano -. Le vene del collo gli si gonfiavano, il viso si contraeva, gli occhi pareva dovessero uscire dalla orbite. Qualche attimo di silenzio, poi con fare derisorio:
- Andare a maestra! A maestra! Qui comando io e voi farete quello che dico io. Ci siamo capiti? - urlò rivolto a mia madre, che chinò il capo.
Le caprette le avremmo tenute nello spazio dove c’era il pollaio. Era stato un altro suo ordine.
Quella estate, dunque, la trascorsi tra i campi con le mie caprette, sì, mie perché mi affezionai a loro ed esse a me: al mattino, appena mi scorgevano, si avvicinavano e strusciavano il loro muso sulle mie gambe. In campagna, quando mi sedevo sotto l’ombra di un ulivo o di una quercia a leggere il libro Cuore
, avuto dalla maestra Olga, si sdraiavano accanto a me.
Le nostre terre si trovavano non molto distanti dal paese. Un pagliaio si ergeva nell’aia, intorno delle querce, una molto più grande, sotto cui, in estate, ci sedevamo a godere l’ombra.
In questo luogo potevo aprire il libro e leggerlo. Lo facevo di nascosto a mio padre. Avrebbe strappato ogni pagina e mi avrebbe picchiata. Diceva che era una perdita di tempo, che avevo studiato abbastanza. Alle donne la scuola non serve, gridava, devono maritarsi, fare figli, crescerli e seguire il marito.
Con Giulia ora mi incontravo solo la sera, spesso nella piazzetta di fronte alla mia casa, dove ci univamo ad altri ragazzini e ragazzine del vicinato. Era l’ora in cui la gente stava davanti agli usci a godersi un poco di frescura, a raccontarsi, parlare dei tempi passati, delle persone che non c’erano più, di quelle emigrate nelle Americhe o al Nord. E noi correvamo in continuazione e le nostre voci riempivano le vie, i vicoli, luoghi nascosti. Ogni tanto qualcuno cadeva e scoppiava in lacrime e subito il grido di richiamo di qualche madre ci interrompeva, qualche attimo e tutto ricominciava. Quando stanche ci sedevamo su un gradino, io e Giulia guardavamo la luna, in certe sere tanto grande da sembrare toccasse i tetti delle case, tutte basse, legate l’una all’altra. La mia, più alta e con il tetto spiovente, pareva buffa e noi ridevamo.
Ci vedevamo pure la domenica mattina. Passavo di casa sua e, indosso la veste e le scarpe della festa, pettinate e con nastro rosa tra i capelli, ci recavamo a messa. Il richiamo della madre di Giulia di stare attente, di non parlare con i ragazzi ci accompagnava per un po’. A volte obbligavano il fratello di Giulia, Tonio, più grande di noi, a scortarci fino in chiesa e a venire a riprenderci.
Il giorno che mi sono trovata tra