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Il ritorno degli dèi
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Il ritorno degli dèi

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Gli dèi della Linia di Temida sembrano ormai morti viventi, non hanno nemmeno più la forza di urlare per la disperazione. La loro terra è ridotta a un'insignificante isola, solitaria e cinerea, un mucchio di sassi sperduto nella grande desolazione oceanica. Ma questa è solo una parte di ciò che le labbra dei vecchi cantori raccontano. Le cose, infatti, stanno per cambiare, perché i tempi sono malevoli: troppi sono stati i peccati commessi contro il Divino e l'Uomo ha creduto di poter fare a meno degli dèi e di sostituirsi a essi. Ora però gli dèi sono stanchi e non hanno più intenzione di subire. Sono pronti a tornare, a riprendersi ciò che spetta loro, senza paura di uccidere chiunque incontreranno sul loro cammino.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateDec 13, 2022
ISBN9791221429640
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    Il ritorno degli dèi - A. M. Gritti

    1

    Anno 1819 del conto degli Uomini

    Primo ciclo. Inverno

    Da qualche parte nel Mar Falaxa

    I marinai di Geliu solevano dire che la dea Falaxa fosse annegata nel mare che portava il suo nome combattendo le guerre del Rena Vea, nei tempi andati in cui l’Uomo aveva levato la mano contro le divinità. Le sue ali d’argento si erano infrante con un secco schianto sulla superficie dell’acqua, quando la Lancia di Lamadria venne fatta brillare e con la forza accecante di mille soli aveva bruciato e fatto cenere di ciò che si trovasse a fronteggiare la sua divina brezza. Alcuni sostenevano che, mentre sprofondava in un abisso di acque sempre più profonde, lo spirito di fuoco di Falaxa non riuscì a trovare la via verso i cieli, verso la Grande Madre che splendeva sopra le teste dissennate dei mortali. Altri invece ritenevano che, pur libera dalla sua prigione di carne e sangue, ella si rifiutò di lasciare Ofiòn, consumata com’era dall’odio e dall’astio verso la razza umana. Quale che fosse la realtà delle cose, Falaxa scivolò nel novero di quelle anime inquiete e senza pace che i miti popolari chiamavano la encluidas, i confinati. Da quel momento si raccontava che le acque si erano fatte livide e minacciose, scosse da onde di burrasca e correnti infide. Dentro sconosciuti recessi, Falaxa attendeva piena di collera la sua vendetta e lambiva con amore materno Adraste la Solitaria, l’isola beata, l’ultima rocca degli dèi al di qua del Mare di Tefis.

    Questi pensieri già si assiepavano nella preoccupata mente di Iscandru di Sespetras, mentre osservava scuro in volto l’ovattato muro di nebbia che lo fronteggiava, a una manciata di braccia dal cassero di poppa della Matapana. Con una smorfia si succhiò distratto un dente, incontrando lo sguardo crucciato di Melasio, il comandante. Un uomo tarchiato con la pelle abbronzata, i cui ruvidi capelli riccioluti incorniciavano un volto inquieto, che non faceva mistero del malessere che lo affliggeva. Era ormai troppo tempo che navigavano fuori rotta. Sorpresi da una mareggiata, spinti alla deriva senza più albero né una meta, galleggiavano in balia di correnti che non conoscevano riposo, sempre verso settentrione, lontano dalla costa, ancora e ancora. Il sole, un cencio pallido e debole all’orizzonte appena percepibile nella bruma torbida, aveva già percorso più di metà della sua danza celeste. Non avevano più idea di dove potessero trovarsi e tutti quanti iniziavano ad avere maledettamente paura di quell’ignoto lattiginoso. L’equipaggio, una cinquantina di uomini chini su remi intrisi di sudore, era a disagio. Qualcuno aveva già iniziato a mugugnare sul fatto che non veleggiassero più sulle acque di Geliu, ma che lenti stessero scivolando oltre quel sottile velo che li avrebbe condotti verso Zelenia, la Terra degli Spiriti, il luogo senza luce in cui vagavano i morti.

    La stessa volontà di Iscandru lottava febbrilmente contro l’irresistibile tentazione di riandare con la memoria alle canzoni, alle leggende e agli spauracchi della sua infanzia. Con costanza ai limiti dell’ossessione ripensava a ciò che la balia gli raccontava molto tempo prima per trattenerlo, quando era ancora bambino e già si ostinava a indugiare troppo fuori casa, preferendo il bighellonare per le vie e i moli di Sespetras alla sonnolenta quiete della tenuta paterna. Per un attimo, senza un motivo particolare, nella sua mente si affacciò il volto corrucciato di Taido l’empio, Laodisa di Metia, colui che aveva scacciato gli dèi Sabir dal Continente, quasi cinquecento cicli prima.

    «Adraste...» Quel nome si insinuò furtivo, dischiudendosi tra le sue labbra screpolate come un fiore funesto, sbocciato quasi con timore dall’ingiallita prigione d’avorio dei suoi denti contratti.

    «Favole per bambini!» Melasio gli si era avvicinato. Aveva percorso con espressione torva la breve distanza che li separava, camminando sulla stretta passerella che correva in mezzo ai vogatori e che congiungeva per lungo la prua con la poppa. Lo interruppe con quel solito fare brusco, riscuotendolo dal meditabondo vagare dei suoi pensieri. La secchezza nel suo tono era tale da fargli intuire la possibile gravità delle conseguenze di quell’idea. Un’idea che non avrebbe fatto altro che nutrire la tensione ormai palpabile dell’equipaggio. Con tutti i problemi che avevano, non era il momento per ritrovarsi a gestire anche un ammutinamento.

    Era sempre stato un uomo pragmatico, il comandante. Orfano di entrambi i genitori e cresciuto per strada come un animale randagio, si era fatto da sé cercando e trovando il suo destino. Per quasi tutta la vita si era spezzato la schiena sulle navi, arrampicandosi con tenacia e spregiudicatezza lungo il ripido sentiero della gerarchia del comando, fino a possedere un’imbarcazione tutta sua. Un po’ pirata, un po’ mercenario, un po’ contrabbandiere. Questo era Melasio, temprato dai disagi e dalle avversità che solo il mare poteva riservare. A trentasette anni egli aveva visto e vissuto cose che Iscandru, benché fosse appena più giovane, poteva soltanto immaginare. Non era difficile intuire che non corresse buon sangue tra loro due. Anzi, si poteva sostenere che si fosse instaurata una specie di civile insofferenza, mitigata dal solo fatto che la Matapana li costringeva a una convivenza forzata all’interno di spazi ristretti. Melasio vedeva in Iscandru un damerino cresciuto tra agi e lussi, che aveva ottenuto il grado di primo ufficiale soltanto grazie alle buone influenze di suo padre, ricco mercante di spezie. Da parte sua Iscandru considerava il comandante con sufficienza. Per lui era soltanto un bestione ignorante, povero di intelletto tanto quanto di maniere, e avvezzo a ragionare più grazie al bastone e alla mano pesante.

    Un’eco lontana si fece strada attraverso la bruma, fino agli uomini della nave: il lungo lamento malinconico di una bestia marina solitaria e sfuggente. Fialte, il flautista di bordo, si interruppe. Preoccupato, si guardò intorno per qualche istante prima di riprendere a dettare il ritmo della voga.

    «Quelli che si spingono così lontano dal Continente fanno una brutta fine. Vengono inghiottiti per sempre dal Falaxa e non fanno più ritorno. Dicono che non tutti gli dèi hanno lasciato questa terra. Alcuni sono rimasti indietro, gli ultimi. Con potenti sortilegi hanno alzato grandi mura di nebbia, così gli occhi degli uomini non si posano mai sul loro dominio beato, né osano bramarlo. Non hanno dimenticato cosa abbiamo fatto loro!» Era la voce chioccia del pilota che, avvinghiato saldamente ai due remi del timone, anche quella volta non si era lasciato sfuggire l’occasione di intromettersi. Dopo tutto quel tempo, in molti non avevano ancora capito come pronunciare in modo corretto quel suo nome di barbaro della Morea.

    Il seme del dubbio era germogliato. Nella pavida coscienza di Iscandru cresceva robusto e affondava radici tenaci. Come un’erbaccia infestante si avviluppava intorno a una pianta che prima era bella e robusta, ma che ora avvizziva di una morte lenta. Ancora non lo sapeva, ma proprio in quegli istanti Lasicia, Lamadria e Laveia filavano, intrecciavano e dipanavano il sottile filo del suo destino, segnandolo per il tempo che gli restava da vivere.

    Un silenzio irreale li cullava, la cui monotonia era rotta soltanto dal sospiro del mare e dallo scandito sciabordare dei remi che spingevano pigramente la Matapana. Si sentivano degli estranei in un mondo che non era più il loro, o almeno quella era la loro impressione.

    Si udì un’altra eco dalla nota struggente, che ricordava in qualche vaga maniera un richiamo. L’animale marino era tornato a far sentire la sua presenza, anche se questa volta si trovava molto più vicino, di sicuro non più di qualche decina di trabocchi. Incuriosito, doveva essersi accostato per osservare meglio la natura di quegli intrusi, che si dondolavano sul pelo dell’acqua disturbandolo. Forse erano penetrati involontariamente nel suo territorio di riproduzione o, gli dèi non volessero, di caccia. Le ipotesi da spendere erano molte. Iscandru pensò a una balena o qualche altra grossa creatura, a giudicare dalla potenza e dalla durata di quel suono. Considerò tuttavia la questione con noncuranza. Qualcosa di ben più interessante aveva carpito la sua attenzione.

    «Guardate... laggiù, al mascone di sinistra! Terra!» Sporgendosi fin quasi a perdere l’equilibrio, si aggrappò al parapetto per non precipitare e gridò concitato per attirare l’attenzione degli altri. Con mano tremante indicava l’incerto profilo verdeggiante, distante e indefinito, che aveva appena fatto capolino tra gli squarci del velo caliginoso della foschia. Era possibile che, per qualche fortunato caso, le correnti li avessero fatti girare in tondo fino a farli giungere in vista di coste familiari? Sperò con tutto il cuore che gli dèi li avessero favoriti con la loro benevolenza, conducendoli a loro insaputa per rotte sicure. Dopotutto, non era proprio per scacciare la malasorte e assicurare una navigazione tranquilla che sulla prua di ogni nave venivano dipinti grandi occhi color smeraldo? La Matapana aveva trovato la rotta giusta al posto loro.

    Illusioni di un povero sciocco.

    Sembrò che l’inferno di Zelenia si fosse spalancato per divorare i loro miserevoli corpi. Un brontolio scricchiolante seguito da un tonfo sordo, poi fiamme e ombre si riversarono terribili sulla Matapana, dando libero sfogo alla loro inumana ferocia. Poi venne il caos. Orrore e pazzia si impossessarono degli uomini che vi si trovavano. Qualcuno morì ai remi, ignaro, mentre ancora osservava l’isola che, lontana, ora sembrava irriderli. Altri abbandonarono quello che stavano facendo per far fronte, inermi e impreparati, a quell’imprevisto e sconosciuto pericolo. Furono i meno fortunati, poiché erano già morti e ancora non lo sapevano. Ogni cosa fu perduta nel breve volgere del respiro affannoso di chi si precipitava ad afferrare una mazza o una spada. Una lunga lingua di fuoco di colore intenso e magnifico, che variava dal rosso al giallo fino al blu, proruppe violentemente da larghe fauci zannute, spandendo un nauseante odore di zolfo. La nave venne urtata lungo il fianco destro da qualcosa di sconosciuto, molto più grande. Nel ricevere il colpo si sbilanciò e rollò come un patetico guscio di noce. Nello spezzarsi con un secco schianto, gli stabilizzatori laterali si sollevarono pericolosamente per poi sprofondare nuovamente in acqua con un tonfo. Si levarono urla e grida di disperazione, poiché la morte danzava in mezzo a loro, incurante e leggiadra, portata da mostri e demoni che non conoscevano il significato della parola pietà. Avevano dunque lasciato il mondo dei vivi e violato il regno degli inferi?

    Iscandru vide Melasio in piedi accanto a lui, seminudo. La corta spada ciondolava nella sua mano, inutile, senza sapere cosa colpire. I suoi occhi grandi lo stavano fissando, ma erano vitrei e senza vita.

    Il comandante provò a biascicare qualcosa, ma dalla bocca gorgogliante uscì solamente un fiotto di sangue che andò a lordargli la barba grigia e ispida. Morì così, senza sapere perché e per cosa, accasciandosi sul ponte con un dardo ben piantato tra le scapole. La sua anima si sarebbe fatta catturare dal vento dell’ovest per giungere nelle tenebre della Terra degli Spiriti. Gli Uomini non lasciavano mai Ofiòn, nemmeno dopo che avevano abbandonato la vita.

    In mezzo al delirio, Iscandru pianse per l’esasperazione e per i miasmi che gli opprimevano la vista e il respiro. Qualcuno dei marinai insisteva ancora a difendersi, ma contro chi o che cosa? Il loro coraggio venne ripagato con una fine tragica e cruenta. Non li vedeva chiaramente, seminascosti com’erano dalla bruma e dall’incendio che ormai avvolgeva la nave, levandosi alto nel cielo come una colonna. Poté tuttavia udire con chiarezza le loro grida di orrore. Erano le urla di chi vede con i propri occhi il nero abisso dell’oscurità e poi vi precipita. Con le guance rigate da lacrime amare, si abbandonò alla più cieca follia dell’istinto. Fece ciò che normalmente si sarebbe reso conto essere l’atto peggiore per un uomo e un soldato: si liberò della lancia, abbandonò i pochi superstiti e cercò la salvezza acquattandosi tra i mucchi di fasciame e cime annerite. Lì si nascose e attese che tutto fosse finito.

    Una a una le ultime voci si spensero, finché non rimase solo, con il crepitare delle fiamme e il mugghiare dei flutti come unica compagnia. La Matapana iniziava ad affondare velocemente. Fu allora, nel silenzio, che Iscandru ebbe realmente disprezzo e vergogna di se stesso. Avvertiva sulle labbra il sapore del mare e del sangue, mentre si ritrovava a galleggiare in mezzo a corpi dilaniati. Pensò a se stesso nel bel mezzo delle onde, penosamente stretto a un pezzo del relitto, senza aver fatto alcunché per impedire il drammatico precipitare della sua vita. Volle morire.

    Prima di abbandonarsi al freddo bacio delle onde e perire da vigliacco e da codardo, i suoi ultimi pensieri non erano abbastanza lucidi e si perdevano insieme a mille altre domande, che non avrebbero mai trovato risposta. Mentre lasciava che il Falaxa si chiudesse sopra di lui, vide la morte che lo osservava con un dolce sorriso e gli tendeva la delicata mano. Era bellissima. I suoi erano occhi verdi e grandi, anche se freddi e indifferenti. Si chiese se fossero occhi di fanciulla. Non v’era alcuna traccia di biasimo o rimprovero in quel suo sguardo. La morte, dopotutto, doveva essere una donna equa e senza troppe pretese. Accoglieva tra le sue braccia giovani e vecchi, brutti e belli, ricchi e miserabili. Avrebbe avuto un posto anche per i meschini come lui.

    Con potenti sortilegi hanno eretto possenti mura di nebbia, così che gli occhi dei mortali non si posino mai sul loro dominio beato, né osino bramarlo si disse.

    «Addio!»

    2

    Anno 1819 del conto degli Uomini

    Primo ciclo. Inverno

    Da qualche parte nel Mar Falaxa

    Pa-tum, pa-tum, pa-tum.

    Una volta trapassato, a Iscandru di Sespetras non sembrò vero il modo in cui tutti gli affanni e le traversie della sua passata esistenza terrena, per cui si era sempre tanto impensierito, avessero subito perso importanza. Ormai erano definitivamente alle sue spalle e tutto questo gli era di immensa consolazione. Avvertiva quasi la sensazione di farsi più leggero, tanto di corpo quanto soprattutto di spirito. La paura e l’orrore erano soltanto un vago ricordo. Nulla della sua vita precedente era più capace di turbarlo. Era certo di essersi spogliato di qualsiasi cosa. Mentre era ancora immerso tra le onde agitate del Falaxa, tese bramoso la mano e strinse con decisione quella della morte, piccola e affusolata, del colore dell’ambra. Le loro dita si intrecciarono ed egli godette appieno del calore e della piacevolezza di quel contatto. Gli sembrò di volare. Il mondo stava piano piano perdendo di consistenza.

    Pa-tum, pa-tum, pa-tum, pa-tum. Un suono sordo, forte e cadenzato, turbò per un momento la sua beatitudine.

    Senza fatica alcuna, venne issato sul dorso possente del vento dell’ovest, che curiosamente gli ricordava il ponte di una nave ciclopica, scolpita di brezza e nubi. A bordo di quella sorta di soprannaturale vascello, gli sarebbe stato facile lasciare gli oceani senza fine di Geliu. Avrebbe attraversato Eja, la terra che stava nel mezzo, dove la notte si faceva giorno e il giorno diveniva notte. Era il luogo dell’eterno scontro, in cui luce e tenebra si fronteggiavano da prima che la stirpe dell’Uomo giungesse esule su Ofiòn, persino da prima che il tempo stesso iniziasse a scorrere. Era proprio lì che Lamadria duellava aspramente contro Lasicia, senza che l’una potesse prevalere sull’altra, poiché quello era l’ordine naturale delle cose, anche per le divinità più grandi e potenti. Lasciata Eja avrebbe raggiunto Zelenia, dove la sua anima avrebbe vagato immersa nell’oscurità fino a quando non avesse toccato di nuovo i Cancelli di Geliu. Iscandru non riusciva a comprendere come potesse esistere un mondo completamente senza luce. Non v’era dunque nessun sole a carezzare quelle terre? Forse, immaginò, si trattava di un immenso antro scavato nelle viscere di qualche montagna dalla vastità inimmaginabile. Un po’ come le sacre rovine della città morta di Colpas, nella Bassa Ostasia, che aveva avuto modo di visitare in passato. Anche i Sabir, che dopotutto erano creature divine, non disdegnavano dimorare nelle profondità cavernose di qualche altura.

    Pa-tum, pa-tum, pa-tum, pa-tum, pa-tum. Di nuovo quel rumore, meccanico e sgradevole. Lo ignorò ancora.

    La morte lo chiamò a sé, abbracciandolo e baciandolo voluttuosamente, un bacio al quale Iscandru non si sottrasse e a cui volle abbandonarsi con tutto il proprio essere. Nuda di fronte a lui, gli sorrise con malizia mentre si chinava e con le labbra tumide gli sfiorò l’orecchio per sussurrargli qualcosa.

    «Sveglia, fio de puta!»

    Il suo drammatico risveglio arrivò come una secchiata d’acqua in faccia. Anzi, fu proprio quella a ridestarlo. Fu allora, strizzando controvoglia le palpebre, che seppe che la morte non era né una donna né tantomeno era bellissima: a fissarlo c’era infatti un uomo brutto e spelacchiato, con la pelle olivastra. Due occhi sporgenti, su un volto tatuato e rovinato dal sole, si beffavano di lui e lo fissavano insolenti. Sebbene ancora intontito, Iscandru ciondolò la testa a destra e sinistra, guardandosi intorno. Nella semioscurità, mitigata soltanto da lanterne che emanavano una fioca luce verdastra, egli maturò la certezza di trovarsi nella stiva di una nave. Una grande nave, a giudicare dalle dimensioni di quell’ambiente. Respirando l’aria viziata di quel luogo, fu subito investito da un fetore penetrante di feci, piscio e sudore, che lo fece quasi dare di stomaco.

    «Bondie, pesce Metita. Ti trovi sulla Libela de Mar.» Il corpulento sconosciuto lo omaggiò, parlandogli con falsa cortesia e prendendosi gioco di lui. Aveva un accento strano, che non riusciva a ricondurre a nessuna delle terre o dei paesi in cui era stato. Eppure aveva toccato quasi tutte le coste tra il Golfo di Forcina e il Mar Nereia.

    Iscandru balbettò qualcosa, rifiutando con determinazione quel duro contatto con la realtà, poi perse di nuovo i sensi: il suo inconscio trovava sicuramente i suoi lascivi vaneggiamenti molto più gradevoli. Un ceffone lo riportò alla completa veglia.

    «Bah, bagnarola metita... è colata a picco così in fretta che non siamo riusciti a prendere nessuno di voi.»

    L’uomo gli premette l’indice sudicio contro la fronte. «Tranne te!» sogghignò. La sua espressione truce gli deformava il volto crudele. «Ti dimenavi così tanto che abbiamo dovuto issarti con un rampino. Sembravi un grosso pesce preso nella rete.» Sputò sulla paglia lurida del pavimento, poi confezionò una serie di epiteti poco felici sulla virtù di sua madre.

    Lo straniero, ben piantato di fronte a lui, rise ancora, tenendosi il ventre molle con entrambe le mani. Era abbigliato con un falda, un gonnellino variopinto, lungo davanti e più corto dietro, ornato con nappe e frange alla maniera della gente di La Tre Petras, le isole più settentrionali del Continente, poco oltre le coste dell’Ostasia. Alla vita faceva bella mostra una vistosa quanto enorme cintura di pelle e bronzo, che saliva all’altezza dello stomaco per poi farsi bassa e piatta ai fianchi. Sopra c’erano incisi dei segni, ma la poca luce non permetteva di comprendere con precisione cosa fossero esattamente.

    La stiva, in cui evidentemente era stato gettato e incatenato mentre si trovava ancora privo di sensi, gli ricordava una specie di enorme gabbia per animali ed era senza dubbio alcuno uno dei peggiori ricettacoli delle più spaventose miserie umane. Tutt’intorno c’erano tanti altri poveri disperati come lui: uomini, donne, bambini, ma nessun anziano. Erano almeno duecento, forse molti di più. Tutti erano stati disposti con ordine meticoloso in base al sesso, all’età e, gli parve di capire, alla provenienza. Non sembravano essere stati maltrattati troppo, eppure avevano fisso nello sguardo un pietoso velo di angoscia e terrore. Se ne stavano tranquilli e in silenzio, immersi in un’attesa turbata solo da qualche raro bisbiglio o dal pianto di un bambino. Di certo erano consapevoli della propria sorte, di quel qualcosa di atroce che li avrebbe accolti alla fine della traversata. Erano come animali che presagivano la fine ormai prossima, poco prima di essere macellati o sacrificati. L’unica differenza era che quei poveracci sembravano essersi rassegnati all’inevitabile. Aspettavano, semplicemente stavano

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