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Guardare Attraverso
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Guardare Attraverso

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About this ebook

Un flusso di parole mai banali a formare racconti preziosi e intensi pieni di significati che rimandano al vero senso del nostro passaggio terreno, con particolare attenzione alla scelta animica su come condurre l’esistenza. Già l’indice può essere visto come un elenco di massime da approfondire e su cui riflettere.
Sono racconti per adulti in cerca di conferme sulla possibilità di vivere più di una vita o sull’importanza del cambiamento e della scelta che possa dare un senso diverso al nostro cammino. Sarà piacevole per tutti farsi ammaliare dai colori, dai profumi e dalla magia della parola che gioca con i significati e produce una nuova realtà parallela a quella che già viviamo.


Appassionata sin da piccola di storia dell’arte e capace di rimanere in contatto con quei mondi preclusi ai grandi, inciampa nelle professioni legali fino all’età dei 31 anni per amore e appartenenza alla famiglia d’origine. 
Decidendo di sentirsi libera e vera, inizia un percorso personale prima e una formazione poi in Comunicazione Consapevole Empatica e in Sistemica Familiare. Ritrova così il piacere della condivisione di quei mondi a lei cari e familiari e comincia finalmente a scrivere e a fare ciò che la rende felice.
Ora è l’autrice di numerosi libri sia per bambini sia per adulti, che illustra raccontando di avventure in mondi che troviamo dentro di noi. 
Questa è la biografia di una donna che sceglie di amarsi ed essere felice.
LanguageItaliano
Release dateSep 9, 2022
ISBN9788830670921
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    Guardare Attraverso - Licia Trapazzo

    Nuove Voci - Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Se non cammini, quali orme lasci a chi viene dopo?

    Un giorno un vecchio, dalla barba grigia e gli occhi spenti dalla dimenticanza, si appoggiò alla corteccia di un grosso albero, nodoso e resistente. Era il più grande albero del Mondo, lo si sarebbe potuto avvistare da qualsiasi punto tant’era alto e imponente, finanche dallo spazio, al Polo Sud come al Polo Nord.

    Ti seguiva l’albero, come l’Angelo in un quadro, come un Padre col bambino che impara a camminare e una Madre che ti nutre quando hai fame. E quel vecchio, dalle mani incallite, le unghie sorprendentemente limate e assai pulite, i vestiti intonsi di uno che non fa un bel niente da un po’, sostò proprio accanto al grosso albero, nodoso e resistente.

    Era un tipo che credeva solo a ciò che gli dicevano, aveva un udito parecchio sviluppato, non c’era che dire. Credeva poco, invece, alle cose che vedeva, poiché un tantino orbo e con la cataratta scesa. Credeva ancor meno a ciò che percepiva con l’olfatto, con il naso, poiché era afflitto da una malattia che l’aveva colpito già nel fiore degli anni, durante la giovinezza: lui dimenticava.

    Dimenticava ogni cosa. Come se non fosse mai esistita. Quindi, non poteva ricordare né il profumo di una rosa né il dolore della perdita né la puzza delle foglie marce né l’odore delle caverne. E per questo si trovava ogni giorno a rifare sempre le stesse, uguali, tormentate esperienze. Poiché non ricordava quanto male si infliggeva e ci vessava pure gli altri quel furbastro di un anziano. Lui, semplicemente, lo scordava! Come se non fosse mai esistito quell’evento o quel linguaggio biforcuto e da lui urlato. E lo giurava pure che davvero era così come diceva. Per questo, al suo paesello, lo lasciavano ormai stare: Il vecchio che ha dimenticato, lo chiamavano.

    Lo sfottevano talvolta, lo deridevano alle spalle, anche coloro che proprio tal e quale si comportavano, la medesima tendenza sviluppata: la dimenticanza. Un bel gruppetto, insomma, ben assortito.

    A dir poco incomprensibile, direbbe pur qualcuno, lo capisco. Eppure il vecchio con la sua dimenticanza esisteva, che farci? Premere un bottone, aprirgli una botola sotto ai piedi e farlo sparire in un sol colpo? Oh per carità, che poi chi ci scende là sotto a ripigliarlo per la coda a scontar questa e quella pena? Io no di certo, si dicevano i vicini.

    Sennonché, proprio quel giorno, il grande albero di foglie, rami e ricchi arbusti, con voce sonora gli parlò e gli disse: «Caro vecchio, che non vedi, che non senti e pur odi, apri le orecchie! Toccale, stanno ai lati del tuo capo; quanti anni hai sulle spalle magre e scarne, poca ciccia vi è rimasta, belle pure le rughette attorno agli occhi, lusso che in pochi al giorno d’oggi si permettono. Ricordi la prima volta che ti sei sentito Vivo?» echeggiò fino ai fiordi del Mar Rosso.

    Il vecchio, un po’ sorpreso dal fatto che l’albero parlasse, ricordò... Oh perbacco, ricordò! Da quant’era che non accadeva? Anni, secoli, millenni eran passati tristi e lenti.

    Ricordò il suo primo berretto, quello giallo della scuola, quello preso al bottegaio per tre lire, poco poco. Soddisfatto l’aveva inforcato sulla testa. Circospetto l’aveva nascosto sotto al cuscino perché non si sciupasse. Emozionato l’aveva indossato il primo giorno, seduto al banco con un fanciullo come lui, le sopracciglia folte e gli occhi grandi, il berretto giallo sul capo. La cartella piena di un solo quaderno, di una sola matita, di un solo libro. Quello di Storia. Ricordò di come si fosse offerto volontario per cominciare a leggere: «Vorrei leggere, maestra. Mi piacerebbe molto» aveva detto spigliato e con il garbo di un pulcino.

    «Da quant’è che non hai un simile guizzo?» gli chiese l’albero Maestro. «Da quant’è che non fai un passo, da quant’è che te ne stai così pulito, così preciso, così fermo sui tuoi piedi, ciondoloni? Stanco e stufo, annoiato della Vita, sol pernacchie e cascate di giudizi hai per chiunque, un fardello di lamenti e nessuna storia più da narrare ai tuoi nipoti... è forse questo che hai intenzione di lasciare?»

    Il vecchio, contrito, non rispose. Già non sopportava i bisbigli di chi gli parlava dietro, figurarsi le parole di un albero qualunque.

    «Sono stanco, sono vecchio, ho già fatto la mia vita» rispose misero e svogliato, risentito un poco, e già pronto a darsela a gambe verso casa.

    «Stai qui! Che con te non ho finito!» lo ammonì il tronco sicuro. «Credi che sia diventato grosso e forte in un baleno? Eoni di Lune mi ci son voluti. Ero un seme, come te, piccolo e fragile, sicuro e lento, tuttavia. Sono stato, son cresciuto, avanzato zitto e in avanti, con radici salde e taglienti. Il vento non mi ha mica seminato qui, che credi... Da tutt’altra via, mio caro. Però io mi sono mosso, ho cambiato tutto quanto, ho spezzato tutto il vecchio, ho fatto posto ad altri rami, abitato a più non posso da ogni specie d’animale. E poi ho scelto, mica una volta, mille volte, fino a Qui. Ora è questo ciò che voglio e, se tu noti e apri gli occhi, io mi muovo di passo in passo, non sto affatto allo stesso posto di quando ti sei appoggiato qualche minuto fa.»

    Il vecchio, in effetti, si accorse che l’albero si era spostato di almeno tre piedi. Con radici, chioma e tutto il resto. Vari nidi di uccellini sostenuti là nel mezzo.

    «Se non cammini, quali orme puoi lasciare?» continuò.

    «Se non cammini, quali impronte può seguire chi viene dopo?»

    «Se non cammini, sei già morto. E se lo vuoi, va pure bene, sai? Peccato solo che il tuo cuore stia battendo come quello di un giovinetto... Lo sento, io, a me non puoi mentire. Anche un sordo lo sentirebbe.»

    Il vecchio si commosse, mentre l’albero d’improvviso si ammutolì e fu come se non fosse mai accaduto nulla.

    L’uomo non prese alcuna decisione quel giorno, non ci riuscì. Però una cosa l’aveva ascoltata e, nonostante l’apparente dimenticanza che l’affliggeva, non riuscì a non ripetersela sulla via del ritorno, scosso da un’antica meraviglia, da un remoto piacere, da una insidiosa curiosità: Se non cammini, quali orme lasci a chi viene dopo?.

    Mentre cammini, ascolti la voce della tua stirpe?

    C’era una volta Pula, una ragazza con la gobba. Rassegnata nel corpo, sconfitta nell’animo, era stata una bambina triste e, prim’ancora, una neonata ripugnante. Con quella

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