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Una collisione di anime nella notte
Una collisione di anime nella notte
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Una collisione di anime nella notte

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About this ebook

Massimo e Lucia sono due bambini che, più di ogni altra cosa al mondo, hanno paura di crescere e diventare grandi. A ciò si aggiunge un’altra preoccupazione: l’ombra di una nuova guerra imminente pare allungarsi inesorabilmente sulla loro città. 
A dispetto del secolare divieto che vige in paese, Massimo e Lucia si avventurano tra i misteriosi boschi della Montagna. Il loro incontro, l’urto tra anime così diverse, sembra fatalmente smuovere gli ingranaggi del destino. I due si imbattono in Tenebra, un ambiguo figuro che li convince di essere in grado di fermare il tempo, unico modo per arrestare l’avanzata della guerra e consentire loro di restare bambini per sempre. Ma in cambio Tenebra vuole che essi esaudiscano alcune sue richieste. 
Mentre attorno a loro la Montagna e i boschi rivelano segreti indicibili e spaventosi e la nebbia assume le sembianze dei loro incubi, i due bambini pian piano si rendono conto di essere precipitati in un mondo fatto di tenebre e inganni e che, per salvarsi dalla raccapricciante sorte che è in serbo per loro, dovranno affrontare le loro peggiori paure e scoprirne di nuove, in una lotta senza speranza contro il loro grande nemico: il tempo.

Sergio Schiazzano è nato ad Ischia nel 1993. Laureato in Giurisprudenza all’Università Federico II di Napoli, ha conseguito l’abilitazione alla professione di avvocato. Appassionato di letteratura, cinema e giornalismo, nel 2014 ha pubblicato il suo primo romanzo, Melchi (Graus), riedito nel 2020 col titolo Storia di un sognatore inverosimile (Youcanprint).
 
LanguageItaliano
Release dateSep 6, 2022
ISBN9788830671034
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    Una collisione di anime nella notte - Sergio Schiazzano

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: «Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov».

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    1.

    Un incubo ricorrente agitava le notti di Massimo.

    Il bambino sognava spesso di accedere, tramite una minuscola porticina ritagliata in un’alta muraglia di pietra, ad un mondo incantato: così per tutta la notte visitava città di luna pullulanti di lampioni, boschi di alberi parlanti, prati color smeraldo popolati da cervi d’argento.

    In quel mondo vigeva una regola fondamentale: non ci si poteva attardare per più di mezz’ora. Il passare del tempo era scandito impietosamente dalla luna, la quale campeggiava, gigantesca e rotonda, su nel cielo stellato: sulla sua faccia ticchettava un’unica gigantesca lancetta. Ma Massimo aveva trovato il modo di eludere facilmente quell’assurda regola: ad ogni rintocco della mezz’ora, gli bastava semplicemente uscire dalla porticina e, un attimo dopo, rientrarvi.

    Naturalmente non era questa la parte brutta del sogno, tale da distorcerlo in orrendo incubo. Lo spavento arrivava quando, ad ogni nuova visita, Massimo si ritrovava costretto ad ingobbirsi sempre più, a rannicchiarsi e a spremere il suo corpo per passare attraverso la porticina. Fino a quando il già striminzito passaggio si restringeva al punto da non consentire più al bambino di oltrepassarlo. E così l’accesso a quel mondo meraviglioso gli veniva fatalmente precluso.

    Ovviamente a nulla serviva provare ad arrampicarsi sulla muraglia di pietra per scavalcarla: al di là di essa non si rinveniva che una grigia brughiera, arida e spoglia, simile a una terra desolata squassata da chissà quale calamità.

    Allora, sotto una grigia coltre di pioggia battente, Massimo realizzava che non era la porticina ad essersi rimpicciolita: era lui stesso ad essere cresciuto troppo. Non era più un bambino: era diventato irrimediabilmente un adulto.

    A quel punto Massimo balzava a sedere nel suo letto, fradicio di sudore e col cuore che gli martellava nel petto e, coi suoi battiti, proprio come la luna nel sogno, sembrava marcare velocemente il passare del tempo.

    Così lasciava ricadere la testa sul cuscino, si sfregava i capelli, come per scacciare gli ultimi residui dell’incubo, e fissava il soffitto scuro con aria patetica, sospirando.

    Suo padre diceva che se i sogni rispecchiano i nostri più intimi desideri, gli incubi riflettono le nostre peggiori paure. E, per quanto Massimo ne sapeva, aveva ragione da vendere.

    La più grande paura di Massimo, che lo tormentava durante la notte e gli faceva sudare le mani di giorno, concerneva per l’appunto il tempo: il suo rapido, inesorabile incedere, a discapito dei bambini come lui che, giorno dopo giorno, si risvegliavano nei propri letti un po’ meno bambini e un po’ più adulti.

    «Cosa vuoi fare da grande?».

    La prima volta che gli era stata rivolta questa domanda – da sua zia, nel giorno del suo settimo compleanno – Massimo era andato in crisi. Non perché non avesse sogni o ambizioni particolari o uno straccio di progetto per il suo futuro. Anzi, probabilmente ne aveva più di qualsiasi altro bambino che avesse mai vissuto nella città di Antrobuio. Piuttosto perché gli si profilava davanti, per la prima volta, una insopportabile costrizione: diventare grande.

    Anche ora che di anni ne aveva undici, diventare grande lo terrorizzava: gli suonava come una terribile condanna. Una cosa tremenda ed ineluttabile, per la quale non esisteva possibilità di scelta. Una forzatura e un’ingiustizia. Una malattia dal decorso infausto.

    A Massimo non piacevano per nulla i grandi. Sempre indaffarati in occupazioni poco stimolanti, come guidare l’auto, fare la spesa, andare al lavoro, pagare le tasse. Sembrava facessero tutto meccanicamente, senza voglia, quasi come se qualcuno glielo ordinasse. A volte Massimo immaginava che ogni mattina il telegiornale predisponesse per loro il programma della giornata e che loro fossero tenuti a rispettarlo tassativamente punto per punto. Non giocavano, non si divertivano. Si affannavano e si preoccupavano. E a Massimo non piaceva affatto preoccuparsi.

    2.

    «Ne hai una per me?», chiese il suo amico Dante, squadrandolo con severità.

    «Al momento no», rispose Massimo, abbassando lo sguardo e facendosi tutto rosso per l’imbarazzo.

    «Come sarebbe a dire? Uno scrittore che si rispetti deve sempre averne una pronta all’uso nella tasca dei pantaloni».

    «Non è mica facile! Non sono capace di tirar fuori una storia dal cilindro in qualsiasi momento come fossi un prestigiatore!».

    La luce rosata delle lanterne che pendevano dal soffitto accarezzava morbidamente le copertine di centinaia, migliaia di libri. Erano sistemati un po’ ovunque, alla rinfusa: stipati negli scaffali sui muri, impilati sul pavimento a formare pareti divisorie di minuscole e improvvisate salette da lettura, perfino nascosti in buchi del solaio o tra le travi del soffitto. Un labirinto in miniatura, il cui schema mutava continuamente in base alla collocazione dei volumi.

    La libreria di Dante, come del resto suggeriva il minuscolo ingresso che faticosamente si faceva largo in una schiera di ampi e sfarzosi negozi, era a tutti gli effetti un bugigattolo. Eppure, malgrado le ridotte dimensioni e nonostante non potesse ospitare che pochissime persone alla volta, era un ambiente eccezionalmente rumoroso. Infatti ogni angolo risuonava di fruscii di carta e crepitii di vecchie pagine sfogliate: un coro fragoroso e incessante che si udiva perfino quando la libreria era deserta o i suoi visitatori non muovevano un dito. Dante sosteneva fosse dovuto agli spifferi d’aria che penetravano attraverso gli infissi malandati della porta d’ingresso, ma Massimo aveva trovato una diversa spiegazione: secondo lui i libri mormoravano tra di loro, raccontandosi a vicenda le proprie storie.

    «Guardati attorno!», esclamò Dante, un signore di mezz’età dal viso paffuto e rubicondo. «Siamo circondati da storie! Il mondo ne è colmo! È possibile trovarle ovunque, in qualsiasi angolino si guardi!».

    «Non in questa stupida città», fu l’impietosa replica del bambino.

    Massimo abitava nel paesino di Antrobuio, alle pendici di una misteriosa montagna foderata di boschi. Antrobuio consisteva in un ordinato reticolato di stradine pulite, scandite da alti lampioni a sfera sui marciapiedi, e villette di pietra intonacate con colori pastello. Lì la regolarità degli eventi sembrava dettata da un palinsesto televisivo e gli abitanti conducevano vite pigre e indolenti. Il massimo sforzo per scuotere la routine era compiuto di tanto in tanto da un lampione che si fulminava o da un cane di piccola taglia che abbaiava a qualche combattiva pensionata. Perfino i ragazzini, assuefatti com’erano alla monotonia e alla svogliatezza, dopo la scuola preferivano concentrarsi sui loro compiti anziché andare in cerca di avventure.

    «Mi rendo conto che, per un bambino della tua stoffa, un paesino sonnolento e noioso come Antrobuio debba segnare confini troppo stretti e angusti da sopportare», esordì Dante. «Tuttavia puoi sempre viaggiare ed esplorare, scoprire nuovi posti, disegnare mappe e scrivere resoconti delle tue escursioni».

    In effetti a Massimo piaceva da matti esplorare. Era una delle sue occupazioni preferite. Ogni volta che aveva del tempo libero – e in verità anche quando avrebbe dovuto sedersi alla sua scrivania a fare i compiti – montava in sella alla sua bicicletta e sfrecciava tra i sentieri di Antrobuio, oppure si caricava in spalla il suo zaino portafortuna e visitava i boschetti che circondavano la cittadina.

    «Ormai conosco come le mie tasche ogni singolo angolo di questo paese», disse Massimo. «E non posso permettermi di spingermi più lontano».

    «Perché no?», gli chiese Dante.

    «Innanzitutto perché devo pur sempre rientrare in tempo per la cena, altrimenti i miei genitori avrebbero il pretesto per riempirmi la testa delle solite chiacchiere a proposito di educazione, rispetto, regole e quant’altro. Sai come sono fatti. E poi perché...».

    «Sì?».

    Massimo si vergognava di ammettere la triste verità, cioè che aveva paura. La paura dell’ignoto gli impediva di allontanarsi da ciò che gli era vicino e familiare e lo costringeva ad attenersi scrupolosamente alle raccomandazioni dei suoi genitori.

    «Ad ogni modo», soprassedé Dante con un sorriso, come se avesse intuito ciò che turbava Massimo, «non parlavo di esplorare fisicamente. Anche se, ne sono sicuro, dietro quell’apparenza di bambino spaventato dalla propria ombra si cela un animo indomito e coraggioso. No, io ti consigliavo di fare ricorso alla tua immaginazione. Con la tua mente così fantasiosa sei perfettamente in grado di travalicare i limiti materiali della tua vita. E viaggiare dove ti pare! Perfino in posti che non esistono. Sai, anche io da bambino mi ritrovavo spesso a visitare luoghi che non erano reali e non per questo l’esperienza risultava più povera o meno appagante. Tutt’altro! Capisci di cosa ti parlo? Quando la realtà non ti soddisfa, laddove il mondo ti oppone dei confini invalicabili, tu, con la tua immaginazione, puoi colmare i vuoti, aggiustare cose, costruire luoghi, sfondare muri! Perché, vedi, trovo che la potenza creatrice della tua mente sia straordinaria! Non indovino, forse, se dico che in una villa disabitata e fatiscente tu riesci a vedere il covo di streghe malvagie che tutte le notti danzano al chiaro di luna e cantano sortilegi? O che nel cancello sbarrato di un vecchio parco abbandonato, in cui la vegetazione ha invaso ogni fontana, panchina e lampione, tu sei in grado di scorgere il portale di accesso a un mondo in cui le piante parlano tra loro e cospirano contro i giardinieri?».

    Dante non esagerava. A scuola Massimo era uno di quei tipi con lo sguardo sempre fisso fuori dalla finestra e mai sulla lavagna. Spesso capitava che uno scarabocchio sul quaderno o un disegno sul libro di testo si animasse sotto i suoi occhi, dando vita a storie che si dipanavano in un crescendo di emozioni e in un intreccio di colpi di scena. Gli insegnanti, benché lo riprendessero spesso, erano troppo puntigliosi e accademici per riuscire a stimolarlo in qualche modo allo studio delle materie; lo bollavano semplicemente come distratto, non sospettando minimamente la vastità dei mondi che la sua mente esplorava durante le ore di lezione. Nessuno dei suoi compagni aveva la sua stessa indole. In pagella avevano voti più alti, certo, ma erano ragazzini apatici, privi di curiosità e interessi. Massimo a volte pensava che per infondere in loro un qualche stimolo occorresse la scarica di un fulmine. Anche per questo motivo non si era fatto molti amici.

    Per di più, cosa non comune alla sua giovane età, Massimo amava scrivere. Scriveva storie che parlavano di mondi incantati, città fluttuanti e dimensioni parallele, il tutto accompagnato da mappe così dettagliate da far impallidire qualunque cartografo. I suoi quaderni scolastici, anziché di appunti sulle lezioni, erano pieni zeppi di racconti in cui i bambini opponevano il loro coraggio e intrepidi atti di eroismo alla tirannia e ai soprusi degli adulti.

    Ma Massimo non si faceva illusioni: sapeva benissimo che le sue doti d’inventiva avevano i giorni contati, poiché erano fatalmente legate alla sua età. Sapeva che, crescendo, la sua fantasia si sarebbe inaridita o sarebbe addirittura svanita; che la realtà avrebbe preso prepotentemente il sopravvento su di lui, soffocando le sue suggestioni, i suoi talenti, le sue passioni; e che i suoi mondi immaginari, prima o poi, gli sarebbero diventati inaccessibili, proprio come accadeva nel suo incubo. Anche per questo non voleva in nessun caso diventare adulto.

    «Comunque», proseguì Dante, visto che Massimo era come al solito perso nei suoi pensieri, «sei ancora in debito verso di me di una storia. Avanti, fammene sentire una!».

    «Ma così, di punto in bianco, non riesco!», protestò il bambino.

    «Sei uno scrittore o no?».

    «Non ne sono sicuro», mormorò Massimo, costernato.

    Dante si guardò attorno. Prese un libro a caso da uno scaffale, lo aprì senza neanche badare al numero di pagina e lo pose davanti a Massimo. «Raccontami una storia», insisté.

    Massimo si ritrovò ad osservare un’illustrazione: raffigurava due bambini stesi sulla cima di una collina erbosa e sopra di loro il cielo notturno solcato dalla scia d’argento di stelle cadenti.

    Immediatamente Massimo sentì un piacevole formicolio solleticargli la punta delle dita e un moto di eccitazione vibrargli nel petto. Fu colto dalla pressante esigenza di avere sottomano una penna e un foglio bianco su cui scrivere. Ma poi, accorgendosi che Dante attendeva in posizione di ascolto con le braccia incrociate, si schiarì la voce e cominciò a raccontare.

    La storia parlava di un vecchio marinaio che navigava con la sua goletta lassù tra le stelle. Vi erano stelle di tutti i tipi: alcune gigantesche e lussureggianti, ricoperte di boschi e pullulanti di lampioni; altre piccole, aride e senza nemmeno un misero lampione spento, nient’altro che freddi frammenti di roccia sospesi nell’etere. Ma la più bella di tutte era la stella su cui il vecchio marinaio era nato: aveva la forma di una collinetta, tutta tappezzata di un manto di erbetta verde luccicante di brina, su cui fluttuavano migliaia di lanterne sospese a mezz’aria, come globi di luce argentea aleggianti in una nebbiolina fatata. Di tanto in tanto, mentre navigava in quell’oceano di costellazioni, una struggente nostalgia coglieva il vecchio marinaio, che altro non poteva fare che seguire il richiamo di casa. Ma un giorno – beh, in realtà nello spazio interstellare non esistono i giorni –, mentre esplorava un nuovo angolo di universo, accadde che il vecchio marinaio si imbatté in una terribile tempesta gravitazionale causata dalla collisione di due giganteschi buchi neri. La barca fu sbatacchiata di qua e di là e rischiò a più riprese di infrangersi

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