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Finanza sostenibile: un nuovo paradigma
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Finanza sostenibile: un nuovo paradigma

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Alcuni pregiudizi, nel mondo della finanza, hanno spesso ostacolato l'operato di molti investitori responsabili. Uno di questi è il falso mito secondo cui investire in modo sostenibile implichi un sacrificio della performance finanziaria. In realtà, i dati raccolti sulla performance degli investimenti ESG pongono seriamente in dubbio tale concezione.

Thomas Kuhn ha sostenuto che ogniqualvolta un nuovo paradigma sostituisce quello precedente si assiste ad una vera e propria "rivoluzione scientifica". Il paradigma della finanza sostenibile – in quanto assunto teorico e metodologico non ancora pienamente accettato dalla comunità scientifica – sebbene non abbia attuato una rivoluzione di tale portata, ha quantomeno determinato la diffusione di una nuova modalità di approccio allo studio della finanza e della sostenibilità.

Il tema della sostenibilità riguarda oggi, infatti, non solo questioni ambientali e diseguaglianze sociali, ma anche gli interessi degli azionisti e degli stakeholder aziendali, nonché le comunità di riferimento entro le quali le aziende operano. Il connubio fra finanza e sostenibilità è perseguito dalla disciplina normativa e regolamentare – il riferimento è in particolare al regolamento 2020/852 sulla tassonomia dell'Unione Europea, entrato in vigore il 12 luglio 2020 – e dall'Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateDec 2, 2022
ISBN9791221436020
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    Finanza sostenibile - Antonio Schioppi

    Capitolo I: L’evoluzione del paradigma sostenibile

    1.1 Premessa

    Il rapporto tra ambiente naturale e sviluppo economico è da sempre antitetico e conflittuale¹ e la sua ridefinizione risulta ancora più complicata in epoca antropocenica².

    Di recente, invero, si assiste a una ritrovata sensibilità comune che declina il benessere collettivo in maniera dinamica nell’espressione di «sviluppo sostenibile». Per altro verso, però, lo sviluppo tecnologico e la conformazione del settore industriale, senza trascurare una involuzione dei costumi sociali, rimarcano la tendenza a realizzare sicuramente la soddisfazione delle necessità delle generazioni presenti, con il rischio sempre più incalzante che ciò comprometta le stesse possibilità delle prossime generazioni di compiere altrettanto³.

    Risulta, così, alquanto difficile mettere in pratica quanto si voglia far confluire nel concetto di «sviluppo sostenibile», mentitorio nelle premesse per via dell’insanabile contraddizione tra l’ideologia dello sviluppo e l’ideologia dell’equilibrio ambientale e della tutela degli ecosistemi. Eppure, a fronte dell’impellenza dei rischi menzionati, con altrettanta urgenza occorrerebbe ricercare un bilanciamento tra forze contrapposte.

    La soluzione sta nella riformulazione dei propositi di felicità condivisa. Superata l’idea di un welfare costruito sull’esigenza di garantire i diritti sociali, in un’ottica di redistribuzione dei costi sulla spesa pubblica⁴, il benessere individuale merita di essere riletto in prospettiva relazionale, solidaristica e dialogica⁵.

    Si impone, cioè, il passaggio dalla misura appropriativa di un benessere calcolato in quantità di beni materiali consumati alla misura espressiva di un benessere come possibilità di dare forma alla propria capacità di essere e di fare⁶, e di godere delle ricchezze culturali e ambientali a disposizione⁷.

    È in questo senso che benessere e sviluppo postulano non (sol)tanto la promozione di livelli adeguati di produzione economica, quanto (e soprattutto) il rispetto della vita e dell’ambiente (anche) naturale⁸.

    Superato ogni sterile riduzionismo economico e abbandonate logiche di neutralità e tecnicismo, dovrebbe essere l’attenzione per la totalità dell’esperienza, in un’«accezione unitaria ma ad un tempo plurale»⁹, a guidare modelli verticistici di controllo e decisione, politiche industriali pubbliche e iniziative private.

    La prospettiva di benessere costruito sull’idea di modernizzazione e progresso meramente economico, in reazione a un contesto di insoddisfazione rispetto ai livelli di qualità della vita raggiunti, ha mostrato significativi effetti collaterali soprattutto negli anni ’70¹⁰. Produzione di scorie e impoverimento di riserve minerali, infertilità del suolo e riduzione delle risorse idriche sono soltanto alcuni degli effetti di una politica miope all’importanza dell’ambiente quale risorsa preziosa dalla quale attingere. In disparte, gli effetti allora (e ancora oggi) imprevedibili.

    1..2 Bilanciamento degli obiettivi di breve e medio-lungo periodo

    Negli ultimi decenni si è assistito a un radicale cambiamento all’interno dello scenario economico mondiale. In particolare, si segnala il passaggio da un’economia reale a una sua finanziarizzazione. Alla base vi è il mutamento dell’idea stessa di ricchezza, da quella ottenuta tramite la produzione e lo scambio di beni a quella garantita da un sistema volto al reperimento del capitale e alla trasformazione delle logiche di acquisizione e fusione aziendale orientante al profitto unicamente finanziario. Con finanziarizzazione si è sempre indicato un sistema avente un’accezione negativa, corroborata dalla riscontrata ciclicità delle crisi finanziarie. Difatti, l’elevato sviluppo del sistema economico nel breve periodo, assicurato dal sistema finanziario, ha sempre causato la perdita di ingenti capitali e l’impoverimento generalizzato seguito da una diminuzione della vita economica nel lungo periodo.

    È pur vero, però, che l’ingresso nel mercato di strumenti finanziari innovativi, che rendono possibili elevati profitti per periodi anche infiniti, suscita ancora notevole interesse e aspettative nel pubblico. In questo modo i risparmiatori, attirati dall’idea di ottenere elevati profitti, investono grandi quantità di capitali nel mercato gonfiando i prezzi delle azioni e i prezzi dei beni.

    Le situazioni che possono verificarsi sono quelle relative a un forte indebitamento a seguito del ricorso alla leva finanziaria, necessaria per inseguire l’investimento, che vengono alimentate da condotte incaute, in assenza di criteri prudenziali, con conseguenti speculazioni spregiudicate.

    Punto di non ritorno arriva quando il sistema smette di autoalimentarsi, sì che si determina l’azzeramento del livello dei prezzi, il fallimento degli investitori e la conseguente inesigibilità dei debiti contratti determinando il fallimento degli istituti di credito. Al verificarsi di una simile situazione, il governo deve necessariamente intervenire per limitare i danni. Per sostenere i costi l’unica soluzione è il ricorso a politiche di licenziamento e salari portati al minimo per ridurre le perdite. La conseguenza immediata si riscontra nella mancanza di fiducia nel futuro da parte degli investitori e in una scarsa stima e credibilità dei cittadini nei confronti del governo.

    Nei confronti della finanziarizzazione del sistema economico sono state rivolte molte critiche da parte della dottrina economica, ritenuta responsabile della recente crisi che si è ripercossa a livello globale, al punto da radicare la convinzione che essa sia il principale mezzo per ottenere ingenti guadagni sfruttando lavoratori, risorse naturali e perseguendo condotte al limite della legalità.

    1..3 Avvenimenti storici da cui nasce l’esigenza di sostenibilità

    Le radici di questo diffuso malcontento, almeno stando agli anni più recenti, risalgono al 15 settembre 2008, quando il mercato finanziario, che aveva riempito gli investitori e le imprese di grandi aspettative in termini di guadagni nel breve e nel lungo termine, crollò inaspettatamente: è il caso dei c.d. mutui subprime che ha coinvolto molti istituti finanziari statunitensi, tra cui il più eclatante è quello che ha riguardato la banca d’affari Lehmann Brothers. Tra gli anni ’80 del Novecento e il 2000, il sistema finanziario aveva registrato nel mercato statunitense un incremento del reddito dovuto a profitti azionari pari al 16%, con conseguente aumento dei consumi e un incredibile aumento del benessere economico. Eppure, dopo non molto, il sistema su cui gli Stati Uniti e gli altri paesi sviluppati o in via di sviluppo avevano basato la propria economia si rivelò privo di solide fondamenta. I soggetti economici di rilievo, convinti che il trend positivo dell’economia sarebbe durato a lungo, davano in prestito liquidità anche in assenza di garanzie di rimborso, investivano gran parte del patrimonio attirati da elevati rendimenti che però nascondevano elevati rischi.

    Il contributo neoliberista di Friedman, che aveva preso piede nel secondo dopoguerra, con il supporto della shareholder theory, e i governi Reagan negli Stati Uniti d’America e Thatcher nel Regno Unito avevano posto le basi per la diffusione di una nuova visione d’impresa che aveva come punto centrale la ricerca e il raggiungimento del profitto. La prospettiva, propria anche delle costituzioni europee del secondo dopoguerra, per la quale il lavoro è strumento per lo sviluppo della personalità dell’uomo che gli consente di vivere libero dal bisogno, muta la propria essenza. Il lavoro, infatti, viene considerato unicamente strumento funzionale per il raggiungimento degli obiettivi economici del management. Anche le altre risorse non sono più considerate come qualcosa di unico e inestimabile da tutelare per le produzioni future ma un mezzo utile principalmente nel breve termine per raggiungere in modo immediato sostanziosi guadagni. Tra l’altro non bisogna dimenticare che nei contratti dei dirigenti erano (e sono) sovente previsti stock options che vincolano i salari all’andamento del titolo aziendale sul mercato. Di conseguenza per assicurarsi elevati compensi, si è ricorso anche a mistificare i conti aziendali o perseguire comportamenti contro la concorrenza per incrementare il valore azionario, nei casi in cui non si era raggiunto l’obiettivo di performance finanziaria. I grandi e i piccoli risparmiatori, dal canto loro, erano entusiasti dall’idea di massimizzare i profitti con molta facilità e velocità spinti ad accedere al mercato azionario attraverso investimenti o ricorrere a prestiti per investire in attività reali anche senza la possibilità di poter restituire il capitale. È così che, nel dicembre del 2007, iniziano a verificarsi i primi squilibri finanziari: le azioni perdono in media il 38% del loro valore nominale e l’indice Nasdaq registra una perdita dell’80%. Gli stessi disastri si hanno nella borsa di Londra e si ripercuotono poi nel resto dell’economia mondiale. Inoltre, tra i responsabili di questo disastro finanziario, sono da considerare anche gli istituti di credito che avevano acquistato inconsapevolmente dei titoli tossici, ovvero obbligazioni di cui era stato sottostimato il rischio di credito, che per questa ragione avevano ottenuto un mispricing nel mercato. Non consapevoli della reale quantità di questi titoli nel portafoglio, gli istituti di credito non sono stati in grado di valutare le perdite che la loro svalutazione avrebbe comportato non prevedendo lo scenario di

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