Il colonnello dell'Apocalisse
By Elio Serino
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About this ebook
Non c’è alternanza di luce e buio, non vedono stelle, luna, sole. Sono anoressici e depressi, la distinzione tra donne e uomini è ormai impalpabile, si muovono con lentezza, vivono in minuscole stamberghe appese a un cavo di metallo.
Il potere politico ha sottomesso i futuri abitanti della Terra privandoli
anche della possibilità di sognare liberamente. Ma quando la speranza di sopravvivere sta per venire meno, una luce fioca comincia a tracciare strade che paiono sconclusionate. Poi un’esplosione riempie il cielo.
Un romanzo distopico e forte, per reimparare a sognare.
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Book preview
Il colonnello dell'Apocalisse - Elio Serino
Dieci
La selezione di narrativa italiana di Homo Scrivens.
Homo Scrivens
Direttore di collana: Aldo Putignano
Editing: Aldo Putignano
Supervisione: Raffaele Messina
Immagine di copertina: Ultimo viaggio di Nicola Gambedotti
Autore: Elio Serino
Titolo: Il colonnello dell'Apocalisse
ISBN 9788832783070
I edizione Homo Scrivens, aprile 2018
I edizione ebook novembre 2022
©2022 Homo Scrivens s.r.l.
via Santa Maria della Libera, 42
80127 Napoli
www.homoscrivens.it
Riproduzione vietata ai sensi di legge
(art. 171 della legge 22 aprile del 1941, n. 633)
Elio Serino
Il colonnello dell'Apocalisse
logofrontespizioAlle mie rocce:
Gesù Cristo Signore Nostro,
mia moglie Silvana, i miei figli.
"Perché mi hai veduto tu hai creduto,
beati coloro che credono pur senza avere visto".
Dal Vangelo secondo Giovanni (20, 24-29)
INTRODUZIONE
Sono stato molto felice, ma anche sorpreso quando Aldo Putignano, editore e figura carismatica di Homo Scrivens, mi ha chiesto un’introduzione al Colonnello dell’Apocalisse.
Come autore, mi sono sentito gratificato per avere la possibilità di chiarire le motivazioni che mi hanno spinto a elaborare quest’ultimo tassello dell’insieme di romanzi che amo chiamare La trilogia del Cristo
. Ma sono anche molto preoccupato per il rischio di orientare i lettori verso una mia personale visione dell’opera e, così facendo, di limitarli in un ambito prefissato di decodificazione. Al contrario, quando inserisco il metaforico punto finale
al termine di un lavoro letterario, quel segno ha per me la valenza dell’esproprio intellettuale. Da quel momento è il lettore protagonista e ha un ruolo attivo nell’interpretazione, nella valutazione e nella scelta di ciò che gli aggrada o meno delle righe che ha letto. In parole povere, ognuno leggerà il suo
libro e ne dedurrà una personalissima esegesi, scegliendo cosa vale la pena ricordare e cosa abbandonare sul sentiero tracciato dall’inchiostro.
Scrivendo queste righe, ulteriore motivo di apprensione è stata la consapevolezza, diciamolo francamente, che i preamboli in genere sono considerati noiosi e si saltano a piè pari o, nella migliore delle ipotesi, vengono letti dopo aver terminato la lettura del racconto, nel caso sia piaciuto. E tale circostanza, se si verificasse, rappresenterebbe per me una lusinghiera vittoria.
Comunque sia, lasciandosi alle spalle ansie e timori ed entrando nel campo minato delle introduzioni, devo confessarvi che è stato molto divertente scrivere un romanzo distopico, rappresentazione narrativa di una società profondamente negativa, totalitaria e tecnocratica, che vanta illustri predecessori, del calibro di George Orwell e Aldous Huxley, senza da parte mia la velleità di uguagliarli. Divertente non nel senso stretto di svago a buon mercato, ma nell’accezione di esperienza di sentimenti e sensazioni differenti da quelle che proviamo frequentemente, alternandole, durante una nostra giornata tipo: angoscia o gaudio, disperazione o felicità. L’opera d’arte, dipinto, scultura poesia o altro, ha dignità se induce emozioni non confinate soltanto nello spettro di quelle oggi definite, con lugubre cialtroneria, positive
. Non ho dimenticato che alcuni capolavori letterari, Cime tempestose, L’Orlando furioso, il Don Chisciotte della Mancia, alcune opere teatrali e alcuni film, hanno generato in me disperazione, pianto, infelicità e desiderio di approfondire la realtà pur se l’opinione degli autori non concordava con la mia visione del mondo. Mi sono sforzato d’intuire, se non proprio di cogliere compiutamente, il loro punto di vista. Si tratta di quell’esortazione al pensiero critico, introspezione e analisi dei tempi, che, non limitandoci ai classici, tutti gli autori che perseguono una funzione sociale, un intento educativo, vogliono promuovere nei propri lettori o spettatori.
Quindi, senza nulla togliere alla produzione letteraria con prevalente finalità edonistica, scrivere Il Colonnello dell’Apocalisse mi ha affascinato perché non è una saga familiare
, non è una serie di episodi di cui non si vede mai la fine. Portare a termine questo impegno è stato particolarmente stimolante in quanto non ho impugnato la penna per andare incontro al mercato editoriale, ma solo per inseguire l’obiettivo che sento mio: tentare di avvicinarmi il più possibile a una letteratura impegnata. Come sempre, sarà il lettore a confermare o meno, questo mio intento.
Inoltre Il Colonnello dell’Apocalisse mi ha allontanato da un assioma sotteso ad alcune mie opere precedenti: Napoli è la città più bella del mondo
.
La spinta ispiratrice di questo nuovo romanzo non è stata, però, la voglia di mostrarmi a tutti i costi alternativo
, ma quella di tentare sperimentazioni letterarie lontano dal Vesuvio, montagna immanente e opprimente, senza sconfessare o, peggio ancora, rifiutare la cultura dei luoghi natii. Il desiderio di superare la mia poetica relativa alla napoletanità
mi perseguita nei sogni, una voce diabolica mi rimprovera: «Cosa diavolo scrivi di società future… Sei più a tuo agio sviscerando Napoli e i napoletani!» Giusto, vero, ho gioco facile. Ma la sfida di oltrepassare i propri confini, considerando la possibilità di fallire, è cosa che – appropriato paragone – mi toglie il sonno. Mi tormenta il desiderio di scrivere una favola dove ogni abitante del globo possa riconoscersi.
Con questo pensiero, durante la notte, una febbre smodata mi assale costringendomi a lunghe passeggiate sul balcone di casa. Che magari a Londra, a Bangkok, a Istanbul e chissà in quale piccolo borgo di vattelapesca sperduta nazione hanno il medesimo orgoglio di appartenenza che caratterizza noi partenopei? Beh, certo, non hanno il Castel dell’Ovo, il Maschio Angioino… Ma i fratelli siciliani hanno meno motivi di fierezza? Che forse Parigi, Pechino, i Maya hanno meno tradizioni da vantare? Questa gabbia, mi sembra, si ripercuota anche sulla nostra produzione letteraria.
Conseguente a queste considerazioni, un altro dubbio mi attanaglia: può esserci un rapporto tra cultura e opera d’arte? O oggi è tutto omologato e il pensiero dominante è una roccaforte impossibile da scardinare?
Quante interrogazioni, forse troppe. Eppure insisto e pongo ancora un’altra questione: la funzione ontologica di un intellettuale è quella di adeguarsi e usare il proprio cervello per sdilinquirlo nel mare magnum dell’ipocrisia? O quella di tentare di stimolare il pensiero critico, e non importa se le conclusioni di coloro che affrontano le tematiche sul tavolo sono diverse dalle opinioni di chi ha avuto il coraggio di avanzare quesiti? Il successo economico, il riconoscimento del proprio ego sono più importanti che il mettere in discussione questioni economiche, politiche e sociali che stanno portando alla deriva la nostra civiltà?
Domande… domande… Paradossalmente il senso de Il Colonnello dell’Apocalisse è proprio questo: sollecitare dubbi senza fornire risposte. Sprona a chiederci se siamo in grado, con la nostra opera personale, di lasciare il segno sul futuro dei nostri figli o se ci accontentiamo di rimanere spettatori passivi e rassegnati. Domande esistenziali che aborriamo, che travalicano la nostra quotidianità di cittadini occidentali fortunati: cibo tre volte al giorno (minimo), acqua da sprecare, vacanze, calcio e puntate
d’infiniti teleromanzi. Cosa desiderare di più? Tanto successo e di conseguenza tanto benessere, mi risponderanno in molti. Esortando, inequivocabilmente, l’arte e la letteratura (madre di tutto il sapere) ad andare serenamente a dormire in soffitta. Esiste ancora la speranza che alla fine di quest’epoca decadente subentri qualcuno, fieramente foscoliano, in grado di scuotere coscienze e spiriti inariditi?
Un altro dubbio riguarda il genere letterario
: Il Colonnello dell’Apocalisse può essere considerato un romanzo distopico
, come dicevo. Già. Può essere incasellato come fantascienza
o, meglio si può dire, che sfiora la fantascienza seppure non ha fino in fondo le ambientazioni tecnologico-scientifiche proprie del genere
. Giusto. Fino a un certo punto. In quanto le considerazioni tecniche sull’alimentazione sono molto avanzate, così come i cenni all’uso della telepatia che si sta provando a sperimentare con malati che non possono comunicare in altro modo.
Il fatto è che siamo abituati a una fantascienza
che propone alta tecnologia lontana, molto lontana dal presente, mentre l’autore, sommessamente, ha cercato, forzando la mano, di prospettare alternative futuristiche di comunicazione personale e di massa che, Dio non voglia, domani potrebbero essere già nostre.
È simpatico far notare che se si conoscono le regole del giallo, del poliziesco, del noir
, del romanzo di formazione, così come quelle della letteratura fantascientifica, è dilettevole violarle. E proporre soluzioni alternative: sbocchi controcorrente che sono assolutamente funzionali alla struttura, allo sviluppo della trama, alla precisazione psicologica e fisica dei personaggi e, udite udite, ai messaggi anticonformisti
(passatemi questi termini arcaici e sessantotteschi) che l’autore ha piacere di veicolare attraverso i suoi scritti (che costano sangue, sudore e ore spese davanti a un computer in quanto, oltre che estro e talento, la scrittura è disciplina marziale). Però, fin quando si è invisibili, fin quando il proprio canto è sommerso da interessi economici e da una scrittura omologata nella forma e nelle idee, è quasi impossibile distinguersi.
Ma dicevo del genere letterario
: i lettori preferiscono i gialli
, i polizieschi, le letture d’evasione. «Rassegnati – mi imboniscono amici e critici letterari. – Non a caso sono i primi nelle classifiche nazionali, regionali, cittadine e di condominio». Ma siamo sicuri che nelle graduatorie primeggino i titoli scipiti? Il Tabucchi di Sostiene Pereira è un caso singolare? E ancora: le classifiche danno il senso della cultura, del livello culturale che abbiamo raggiunto? O sono il simbolo di una lettura omologata, di massa, senza alcuna velleità di arte? «Ti sbagli. Il popolo ha sempre ragione. Vox populi, vox Dei». È davvero così?
Molto bene, continuiamo con i quesiti. Se vi sottopongo a questo interrogatorio è per cercare di trovare una razionalizzazione al perché trascorrere migliaia di minuti a scervellarsi come autori per incitare altri a impiegare migliaia di minuti a leggere.
Potremmo definire Delitto e castigo (Fëdor Dostoevskij,1866) un giallo che viola le regole, considerato che l’assassino è noto fin dalle prime pagine? Oppure valutare Solaris (Stanislaw Lem, 1961) come un banale libriccino di fantascienza mentre la rappresentazione simbolica del magma anticipa, a mio avviso, la presa di coscienza dell’uomo della strada rispetto alla tracotanza, alla soperchieria, all’oppressione del potere politico attuale? Non sto ad approfondire il rapporto tra scienza e cultura, tra padre