Hilysium
By Hilary Irons
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Hilysium - Hilary Irons
CAPITOLO I
La porta a vetri del laboratorio genetico si apre e io rimango appoggiata ad essa mentre aspetto che Andres distolga lo sguardo dal suo computer. Se ne sta lì appollaiato sulla scrivania, immerso nel suo lavoro.
Ho fretta, ma non voglio mettergli troppa pressione: dopotutto è il mio miglior genetista. Mi indica di aspettare con un dito, senza neanche voltarsi: «Solo un secondo capo, arrivo. Ho quasi terminato». Finalmente chiude con il mouse la finestra di lavoro, si ricompone e si sistema gli occhiali. «Sono pronto. Tu sei pronta?».
«Vuoi sapere se sono pronta a rivelare al nostro popolo che abbiamo finalmente una soluzione?» replico ironica, mentre mi incammino verso la sala conferenze. Quando ho già raggiunto il fondo del corridoio grido ad Andres di raggiungermi al più presto.
Mio padre Vakir era un grande capo, ma era vittima della propria vecchiaia. Credeva che i costumi del popolo, le strategie politiche e persino le armi di guerra non avessero bisogno di adeguarsi ai nuovi tempi. Su tante cose aveva ragione, intendiamoci: reprimere le emozioni è ancora l’obiettivo principale ora che il vecchio è morto e i lavoratori mi chiamano capo, il popolo mi chiama generale. Ma oggi tutto si può ottenere in modo più moderno e anche alla moda, perché no? Senza grandi sprechi di energie e senza quella noiosa dittatura total black.
Non è così male, dopotutto, non percepire emozioni. La vita è più semplice. Niente drammi, niente proteste. Trascorri ogni giorno dell’esistenza a fare il tuo dovere, se sei fortunato. Al mattino bevi il tuo caffè nero, ti metti i tuoi soliti abiti e vai nel solito posto dove trascorri intere giornate in compagnia delle stesse persone. E così tutti i giorni della settimana. Ti alzi alla stessa ora, ti metti i tuoi soliti abiti e ti dirigi sempre nella stessa direzione. Lavoro, lavoro e ancora lavoro, la pura essenza di vita.
Le colonie dei Mors non sono più tenebrose come erano ai tempi di mio padre. Dentro alle montagne ove ci rifugiamo ho fatto costruire città a spirale altamente efficienti dove in cima si trovano i luoghi di lavoro, nel mezzo gli appartamenti del popolo e alla base i servizi comuni di ogni giorno come la mensa, la biblioteca e luoghi dove poter passeggiare, oltre naturalmente agli spazi dediti all’addestramento dei nostri guardiani. Sono molto orgogliosa di loro, giovani promettenti che con tenacia diventano scudi perfetti per proteggere il nostro mondo. E sono molto orgogliosa anche di me ogni volta che osservo ciò che ho costruito, colonie erette sui vari piani della spirale, costruzioni imponenti in vetro metallizzato. Ho aggiunto personalmente il colore argento come segno di potere: essere freddi e calcolatori, una virtù! Il nero mi ha stancata. Fa tanto vecchio secolo.
Prima di recarmi nella sala conferenze, dove ci sono già tutti i miei vice che mi aspettano, faccio una deviazione verso il bagno. Percepisco qualcosa di strano in me: sensazioni mai provate. Mentre apro la porta iniziano a tremarmi le mani. Afferro il bordo del lavandino e rivolgo lo sguardo al mio riflesso.
Non è possibile, non può essere, questa non è emozione, né ansia. Non deve accadere, non mi era mai successo prima e sicuramente non ricapiterà. Deve essere il troppo allenamento di ieri.
Eppure, nel profondo mi attanaglia una strana sensazione. Decido di mettere a tacere ridicoli pensieri, mi tiro su, do una sistemata al mio tailleur color argento e vado verso la sala. Tutti attendono che io dia il via alla riunione, nessuno può fare una sola mossa senza il mio consenso e questa sensazione di potere spazza via il pensiero assurdo di poco fa.
«Benvenuti. Nella riunione di oggi, dopo il solito aggiornamento settimanale, il nostro illustre compagno Andres comunicherà un’importante notizia, quindi vi prego di restare fino alla fine. Grazie».
Mi accomodo sulla sedia e, da bravi, i miei vice leggono le relazioni sulla settimana passata e stendono i piani per la settimana corrente. Una volta firmate le scartoffie, guardo Andres e lo incito con lo sguardo a parlare. Lui si alza in piedi in modo goffo. L’equilibrio non è di certo il suo forte, ma sa fare il suo lavoro.
«Come ha detto il nostro capo, ho importanti notizie da annunciare. Ebbene, il mio lavoro è terminato e...». Si schiarisce la gola. Per un attimo noi tutti ci accigliamo, sbigottiti: avrà appena mostrato nervosismo?
«Ho avuto successo, l’arma è finalmente ultimata. La nostra missione ora può compiersi. Non avremo più a che fare… non avremo più a che fare con ciò che ci ostacola nel diventare la prima potenza mondiale» conclude.
Al suono di queste poetiche frasi tutti dimenticano ciò che è appena successo e si mettono ad applaudire congratulandosi con lui. Ma io non dimentico, io so quello che ho visto e so cosa è accaduto a me prima. Aspetto che tutti se ne tornino al lavoro e prendo Andres da parte.
«Questa sera verrò in laboratorio, voglio che tu mi fornisca gli ultimi dettagli prima della missione».
«Sì capo. Ti avrei convocata comunque, volevo rivedere con te alcune piccole cose». Sembra nervoso.
«Cosa c’è da rivedere? Il piano è semplice. Niente. Più. Emozioni. A dopo, Andres».
Sembra deluso dalle mie parole. Mi spazientisco. Stringo le mani a pugno; forse dovrei semplicemente esiliarlo nel vecchio mondo e cercarmi un altro genetista.
Più tardi quella sera, mentre percorro il corridoio che porta al laboratorio, il mio sguardo viene catturato da una finestra illuminata poco lontano. Alla luce di una lampada vedo una madre intenta a spazzolare i lunghi capelli nero corvino di sua figlia. Mi chiedo se mia madre facesse lo stesso con me. Non ho ricordi di lei, il vecchio non l’ha mai menzionata e non ho nessuna sua foto. Vakir sapeva essere estremamente spietato e immagino l’abbia esiliata per qualche motivo. Ma ora non ho tempo di capire che fine abbia fatto, ora ho il futuro di tutti a cui pensare.
Entrando nel laboratorio, trovo Andres intento a preparare l’occorrente per la missione; ma quando si accorge della mia presenza sussulta.
Lo noto. Questo non va per niente bene. Decido di intraprendere una scomoda conversazione con Andres per trovare una soluzione ai pasticci che, già lo so, ha combinato in abbondanza, altrimenti non si comporterebbe così.
Mi appoggio sulla sua scrivania e lo osservo a lungo prima di parlare, mentre lui mi siede di fronte. Se ne sta ricurvo, come sempre, a digitare sul computer. Ma sente il mio sguardo addosso e non riesce a sorreggerlo troppo a lungo. Allora alza gli occhi su di me; sembra sudato. Sospiro, tendo le braccia ed incrocio le mani poggiandole sulle ginocchia.
«Oggi ti sei schiarito la voce alla riunione».
«Davvero?».
«E ora balbetti».
«Non...».
«St! Fammi finire». Giro la sedia con un piede e mi avvicino alla sua faccia: «Sempre oggi, io ho avuto uno strano tremolio alle mani e ora tu balbetti e sudi, cercando di negare l’ovvio. Guardati» inorridisco «con la fronte madida di sudore».
Andres cerca con una mano di asciugarsi la fronte, poi si tira su gli occhiali e si abbandona alla sedia: è sempre scuro in fronte, ma in compenso si è calmato. Ha colto che siamo in confidenza in questo momento e qualunque cosa dica non gli succederà niente di male. Almeno, questo è quello che gli lascio credere.
«Noi due siamo gli unici ad essere stati in contatto con quest’arma» continuo io «non è che, e voglio ben sperare di no, invece di un’arma per annullare le emozioni hai creato l’opposto?».
Andres si rilassa completamente, ed è un peccato: così non riesco più a decifrarlo. «In realtà è proprio di questo che ti volevo parlare, capo. La nostra arma non è come una pistola o un fucile, è troppo potente per essere messa in qualche ferraglia. L’ho creata in modo tale che simulando le emozioni, le riconosca. Il suo propulsore? Un’energia quantistica, forse la stessa che secoli fa ha distrutto i nostri antenati. Tra tutto ciò che puoi trovare nel tuo arsenale, niente è dotato di un’energia simile. Volevi un’arma di distruzione di massa micidiale? Eccola: è talmente potente da far provare delle emozioni perfino a noi». Termina la frase con un respiro profondo, la sua bocca abbozza un sorriso: «Potremmo avere una chance di ritornare al vecchio mondo!». Sembra felice.
Lo sapevo. Il mio intuito non sbaglia mai. Penso alla fatica che mio padre, suo padre e suo nonno prima di lui hanno fatto per arrivare a creare i nostri ideali di vita: non posso e non voglio permettere ad Andres di andare oltre con questa missione. Non vedo altra alternativa all’esilio, per lui.
Prendo fiato, involontariamente mi scappa un risolino che soffoco subito. Adoro questi momenti. Dico: «Oh, un povero topolino in gabbia sta per essere divorato dal micino per cena». Sorrido di nuovo. Andres mi guarda sbigottito, non ha la minima idea delle mie intenzioni. Lentamente mi dirigo verso la porta scorrevole ed alzando le braccia esclamo: «Eresia! Guardie!». Eccolo, il mio siparietto. Ho sempre adorato essere drammatica, come un’attrice di teatro; esasperare le parole come se mio padre dall’aldilà potesse vedermi e ridere un po’.
«Ti sei lasciato ingannare dalla tua stessa creazione. Hai osato rivolgerti a me con tono di speranza e felicità. Ma non permetterò che il genere umano venga estinto a causa tua. Guardie!».
Nel rigirarmi verso di lui, già esultante per la mia interpretazione, sento un tonfo provenire dalla mia testa ed inizio a vedere nero. Te ne pentirai maledetto, sudicio e insulso Andres!, penso prima di svenire. Il mio corpo cade inerme dalla scrivania e si schianta sul pavimento. L’allarme entra in funzione, le luci lampeggiano ad intermittenza, Andres prende l’arma e la mette in un borsone dirigendosi di corsa all’uscita d’emergenza.
Io non posso vederlo né sentirlo mentre correndo a perdifiato lascia il laboratorio e si addentra nei corridoi, ma dentro di me un sogno oscuro si agita e, come fosse vero, porta i miei occhi e le mie orecchie oltre i confini della stanza, inseguendo i suoi passi.
Andres si dirige verso l’ascensore salvavita, che si richiude dietro di lui prima che le guardie riescano ad acciuffarlo. L’ascensore ha una propulsione pari ad un razzo: in un paio di secondi Andres è già alle porte della colonia, dove una jeep lo aspetta.
Aveva pianificato tutto. Costruendo l’arma aveva riacquistato la capacità del sentire e non voleva sprecare l’unica opportunità che il mondo aveva di tornare come prima, alla vecchia normalità.
Schiacciato il pulsante di accensione, la jeep prende vita in un ruspante canto di motore e a tutta birra attraversa le tenebre del deserto. Ma dopo poche ore la benzina finisce e la macchina si ferma. Il petrolio è un bene raro qui da noi, perciò viene razionato al millilitro: un piccolo errore di calcolo, un metro in più e sei finito. E così l’auto è ferma in un luogo che Andres non conosce, nei pressi di un paesino fatto di ciottoli e pietra.
Là intorno non si muove una mosca; il paese sembra abbandonato. In preda alla paura e con il cuore in gola Andres prende il borsone e scende dalla macchina in cerca di un aiuto, o quantomeno di una latta di benzina. Vigile, tende le orecchie: nella sua mente eccitata dalla paura i rumori sono amplificati e ogni cosa appare più grande di quanto in realtà non sia. Dopo pochi metri, un rumore più forte degli altri lo fa sobbalzare.
Andres cerca riparo in un vicolo. Trova un cancello semiaperto che, nell’aprirsi, cigola sinistramente. Al di là si trova un cortile circondato da un complesso di case; i loro muri sono diroccati e quasi tutte hanno il tetto crollato.
Il rumore di un sasso che cade ed un lamento rauco fanno accelerare di nuovo i battiti di Andres. I rumori si avvicinano con prepotenza nella sua direzione. Si guarda intorno ma non riesce a vedere nulla nella penombra del tramonto. Il lamento ora non è più uno ma molti, e sono sempre più vicini. Alla sua destra, Andres vede una cuccia per cani di grossa taglia e decide di nascondersi lì, sperando di non trovarci nessun animale. Accovacciandosi per entrare avverte una presenza, ma decide comunque di procedere: qualsiasi cosa sia, sarà sempre meglio che trovarsi faccia a faccia con una mandria di folli. In quel caso sì che sarebbe spacciato.
Dentro la stretta cuccia di legno la schiena di Andres urta qualcosa di caldo, spigoloso ma morbido allo