La Trappola
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Due dimensioni parallele, connesse dal pozzetto idraulico di una vecchia casa di campagna sulla Linea Gotica, s’influenzano l’un l’altra. Ognuna ha una sua protagonista, che sarebbe la stessa persona se le dimensioni non si fossero sfogliate. Da un lato c’è Anna, che ha perso il fratellino da piccola e riversa nell’arte l’ossessione di riportarlo indietro. Dall’altro Lena, la quale si getta in un’indagine solitaria per scoprire l’origine dei quadri di una misteriosa artista che ritraggono la Trappola, la casa di campagna che la sua famiglia si tramanda da generazioni. A legare a filo doppio le loro vicende, un bambino che sembra apparso dal nulla.
Attraverso un sofisticato gioco di specchi, La Trappola intesse un racconto nel quale realtà e immaginazione si mescolano e si confondono, e in cui due giovani donne devono fare i conti con il proprio passato per dare un senso alle loro vite.
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La Trappola - Elisa Emiliani
Non sanno ancora di essere in due
Il mondo diventa scuro dall’altra parte del finestrino. Il treno invece è illuminato e, se non si concentrano, finiscono per vedere solo il proprio riflesso. È tardi, hanno preso il treno delle 21:35, quasi vuoto.
Il paradiso è un treno vuoto, pensano a volte.
Fuori si vedono solo le lucine delle case di campagna e i lampioni che illuminano chiazze di strade o campi, presto inghiottiti dal buio.
Si mettono a pensare a tutte quelle storie che sembrano una sola storia, in cui i bambini vengono attratti dalle lucine nell’oscurità e finiscono catturati, scompaiono, le streghe li mangiano, i genitori li abbandonano.
Strappano lo sguardo dall’oscurità, si sottraggono. Ma lo sferragliare del treno è una voce che racconta nuove storie. Così tornano a guardare l’esterno, che riflette i loro pensieri; un crepuscolo di campagna, con i campi che arrivano all’orizzonte e le ombre nascoste fitte tra i filari.
1.
Anna
Si specchia nel finestrino e si vede estranea. Strizza gli occhi. Li riapre. Passa le dita tra i capelli. Respira. Respira.
Cerca la mano di Enea, che è calda e reale. Ha paura, come prima di un esame. Prova a riflettere su uno dei quadri che sta dipingendo: concentrarsi sulle difficoltà tecniche la fa sentire meglio. La casa di campagna con le finestre illuminate (giallo di cadmio medio), piccole, in lontananza. Campi di grano che s’intravedono appena; niente luna, per carità. Forse questa volta ci metterà un bambino piccolo, pensa. No. Che gattona. No. Strizza gli occhi. Stringe la mano di Enea.
«Stai bene?»
Si volta a guardarlo e annuisce. Sa che lui non tenterà di estorcerle la verità, gliene ha fatta passare la voglia negli anni in cui si sono frequentati. La verità porta a una spirale discendente di angoscia che non fa bene a nessuno.
Torna a guardare il finestrino, buca il proprio riflesso e segue il ritmo dei lampioni e delle stazioni, gioca a tenerli nel campo visivo il più a lungo possibile. Ha lo stomaco contratto. Sono quasi a Castel Bolognese. Il treno lì non ferma, perché è un regionale veloce e Castello è un paese minuscolo.
Allora perché c’è un bambino fermo sulla banchina?
Anna fissa lo sguardo sulla stazione. Artiglia la mano di Enea, poi la lascia andare. Scatta in piedi. Corre verso l’uscita. Vede la leva rossa. Le orecchie rimbombano. Tira il freno d’emergenza.
Ha ventisette anni, frequenta l’Accademia di Belle Arti a Bologna (è un po’ in ritardo sulla tabella di marcia, ma davvero, nell’economia delle cose, che importa?), ha un fidanzato, anche lui pittore. Si chiama Enea. Capita che escano con una coppia di amici scultori. Sta bene. Dipinge, vende già qualcosa. Sfonderà: se c’è una che ce la può fare, è lei. Lo dicono tutti. Sta bene. No, non tenterà il suicidio. Sì, se dovesse capitare di nuovo telefonerà immediatamente. No, non pensa di aver bisogno di tornare in terapia. Ha creduto di vedere un bambino sulla banchina, ha avuto paura che cadesse sulle rotaie. È una ragazza sensibile, ovvio che la cosa l’abbia sconvolta. No, il suo ragazzo non l’ha visto. Forse è stata solo un’ombra, forse si è sbagliata. Le dispiace di aver causato dello scompiglio. Va bene, grazie. Sì, grazie. Buona giornata.
Enea l’aspetta al bar dell’ospedale, non l’hanno fatto entrare perché non è un parente. Anna si trattiene dal corrergli incontro. Cammina composta. Quando lo raggiunge, l’abbraccia.
«Andiamo a casa dei miei», dice Anna. «Non c’è nessuno».
Enea la prende per mano e le fa l’occhiolino, con disinvoltura, come se gli fosse scappato.
«Sai che questo contribuirà, vero? Ora ti serve solo una piccola denuncia, possibilmente per sesso o droga».
«Ed è subito Continua», dice Anna, facendo dondolare le loro mani intrecciate come in fila per due alle elementari. Ridacchia. Fare ipotesi su cosa li renderà famosi è uno scherzo che è diventato consuetudine.
«Se proprio vuoi limitarti all’Italia. Se lo chiedi a me, il limite è il moma».
Lei gli dà un buffetto sulla spalla; deve farlo, ma un po’ ci crede. Non al moma, magari, ma alla Continua perché no. Ha deciso che una moderata dose di ambizione può far parte della sua identità.
Escono nel grande parcheggio sul retro. Enea non ha la macchina, se l’è fatta prestare dal padre. Quando finalmente avranno dei soldi Anna comprerà un’Alfa Romeo Giulietta, elegantemente sportiva. Sale sulla Punto, allaccia la cintura, guarda fuori dal finestrino.
«Anna». Enea mette in moto. «Mi puoi dire cos’hai visto sul treno?»
Sono passati dieci anni. Dieci anni esatti (ma lo sa solo lei). In tutto quel tempo, non c’è stato giorno senza che ci abbia pensato. Lo sa con certezza, perché aspetta il momento in cui non ci penserà per tutto il giorno, poi per una settimana intera, e poi, forse, guarirà. Vuole un appartamento suo e di Enea, vuole la macchina, la laurea, di certo non un… No. Che gattona. No.
«Anna, tutto bene?» chiede Enea.
Lei strizza gli occhi una volta, due.
«Devo dipingere», dice.
2.
Lena
Lena guarda fuori dal finestrino oleoso del regionale. È allegra. Brilla, insomma. E quando arriveranno andranno a bere ancora, perché la fine della sessione estiva va festeggiata degnamente, soprattutto se si conclude con una serie di 30 e lode che prospettano a breve un bel 110. Poi bando per assistente alla didattica, all’Accademia di Firenze, magari. Lena c’è stata qualche volta e si è innamorata del chiostro con le statue, di quell’atmosfera antica ma viva.
Smette di seguire i lampioni con gli occhi perché le viene la nausea, gioca a tenere lo sguardo fermo, senza concentrarsi su nulla in particolare, come incantata, per vedere se qualcosa di interessante le s’imprime sulla retina.
Sta finendo una serie di piloni dell’alta tensione ed è a caccia di un nuovo soggetto. La pittura è una ricerca continua. Di materiali, di idee, di tecniche. Per un momento si chiede se condividere il pensiero con gli altri, seduti vicino a lei, ma decide di no. A volte preferisce non dire le cose. Ridacchia. Ormai dovrebbero essere a Castello. Il treno lì non ferma, perché è un regionale veloce e Castel Bolognese uno sputacchio di paesino.
Allora perché c’è un bambino fermo al binario? Lena si sente invadere da una sensazione di panico, scatta in piedi, corre lungo il vagone, individua il freno d’emergenza, rosso, e tira con tutte le sue forze.
Si risveglia su una barella. Ha addosso una coperta, di quelle marroncine squallide dell’ospedale, anche se è estate. La barella, un lettino con le ruote, ha anche delle sbarre laterali.
«Ehi».
Chiude gli occhi e si sente accarezzare i capelli.
«Va tutto bene», dice suo fratello. «La dottoressa ha detto di aspettare».
Lena scatta a sedere. «Il bambino?»
«Quale bambino?»
Si rimette stesa, lentamente. «C’era un bambino, sul binario. Ho avuto paura che cadesse».
«Per quello hai tirato il freno d’emergenza?»
Ora sembra preoccupato, lo vede dalle rughette attorno agli occhi. Lena le trova adorabili, anche se lui cerca di coprirle col correttore.
«Non lo so», risponde. Chiude gli occhi.
«Ti porto qualcosa dalle macchinette?»
Davide è un bravo fratello minore. Lena se n’è accorta quando è tornata dall’Erasmus. Stare con lui le dà una sensazione piacevole di calore e giustezza; di famiglia, insomma.
Lui la guarda interrogativo.
«Caffè con cioccolata?» dice lei, sperando di contrastare il tasso alcolemico.
Lasciano il pronto soccorso con la promessa di evitare gli alcolici e gestire meglio lo stress degli esami. Neanche facessimo ingegneria, pensa Lena, ma non lo dice. Decidono di fare due passi, l’aria è tiepida e dolce, le zanzare hanno lasciato il posto ai grilli. Forse arriverà una multa salata, ma forse no, bisogna essere ottimisti.
Cerca di razionalizzare. Non ci riesce. Davide la porta a casa sua, un bilocale che ha preso in affitto mentre Lena era all’estero (lei invece non ha ancora lasciato la stanza a casa della madre). Le presta un pigiama con gli unicorni, lei non commenta. Si mettono a letto e guardano The oa su Netflix. Lena pensa al bambino. Forse era più ubriaca di quanto credesse. Che cosa avevano bevuto? Un paio di bottiglie, un paio di gin tonic. Non le era mai successo di collassare. Forse non aveva mangiato abbastanza.
«Ordiniamo una pizza?» chiede.
C’è un motivo se lo chiamano comfort food. In più, la pizza è concreta. Ha il potere di farla sentire una cosa sola col suo corpo e il mondo circostante, ma non lo dice.
«Ti ricordi quando siamo andati tutti a Imola per la mostra della mamma?» chiede invece, mentre Davide armeggia con Glovo.
«Vagamente. Era la prima a usare gli stampi ceramici come opere d’arte, giusto?»
«La prima e ultima».
Sua madre pensava che fosse geniale usare gli stampi anziché le sculture che potevano produrre per colaggio. Si infuriava quando i grandi artisti esponevano sculture fatte con gli stampi commissionati a tecnici che neanche figuravano nel catalogo.
«Ma è l’idea che conta, non la tecnica, no? L’antico adagio dell’arte contemporanea».
«Dillo allo scultore di Cattelan».
«Quindi aveva ragione, secondo te? La mamma».
Lena alza le spalle. «Secondo me sì, ma la sua mostra è stata comunque un flop».
«I suoi stampi erano pazzeschi, però».
«Ma li ha distrutti tutti».
Davide scuote la testa. «Ce ne sono alcuni in cantina. Ne ho smontato uno, anni fa. Era progettato per una statua di Medusa. Decine di incastri. Presente i capelli serpenti? Sono impazzito per ricomporlo. Perché tiri fuori quella vecchia mostra, comunque?»
«Io e te ci andammo in treno, con il babbo. Il giorno dell’inaugurazione. Lei era già lì. È lo stesso treno, tutto qui. Lo stesso percorso per andare a Bologna, solo che si scende prima».
«Vuoi dire che quel treno porta sfiga?»
«No. No, è solo che mi sembra un po’ come una resa dei conti. La mamma che non espone da anni e anni, ha anche smesso di scolpire, e io che mi devo laureare, la mamma che già ci dà per falliti, io che collasso sul treno, sogni infranti, cose così».
«Ti serve una pizza».
«Sì».
«Sta arrivando, resisti ancora cinque minuti».
«Ok».
«E domattina andiamo in studio».
«Ok».
«Altro che falliti».
«Giusto».
Guarda suo fratello. Le viene da piangere. Giusto, ripensa.
Lo studio di Lena e Davide ha due stanze, un bagno e un corridoio. Le pareti sono dipinte di bianco e macchiate di giallo di cadmio arancio, rosso di cadmio chiaro, verde oltremare, blu ceruleo, nero di Marte. Il pavimento non è messo meglio, ma il disegno delle piastrelle confonde un po’. C’è un vecchio tavolo coperto di pennelli, tubetti di colore a olio, qualche acrilico, acquaragia, olio di lino, trementina. Al centro della stanza campeggia un cavalletto di legno massiccio.
Lascia passare qualche giorno, si dice Lena. Non preoccuparti.
Non è mai stata una persona ansiosa. Fissa il quadro a cui sta lavorando. Una vecchia tela di lino con un bel ricamo che risalta dall’imprimitura. Vorrebbe sfruttarlo in qualche modo, ma non riesce a concentrarsi.
Davide, nell’altra stanza, ascolta musica indie e si esercita col tornio che la mamma gli ha regalato per il compleanno. Sta certamente schizzando argilla su tutti i muri. Finora è riuscito a produrre solo simil posacenere. Niente che valga la pena di cuocere. Ma non molla. È così che si fa. Non si molla.
Concentrati, si ripete Lena mentre mette a fuoco la tela bianca. Un treno, ecco cosa potrebbe farci. Binari, una stazione. Sbuffa. Una stazione con un bambino, magari. Si butta sul divano e carica la pipetta. Prende il telefono, apre Chrome. Fantasma bambino stazione
. Cancella. Che idiozia. Apparizione bambino stazione
. Cancella.
«Stai perdendo la testa», bisbiglia a sé stessa. Si passa le mani tra i capelli.
Allontana il telefono, accende la pipetta, torna a fissare la tela bianca.
Era solido sotto la luce pallida della stazione, non aveva niente di etereo, e infatti i fantasmi non esistono. Però era improbabile che un bambino fosse in stazione a quell’ora, da solo. Quindi sta tutto nella tua testa, ecco l’unica conclusione logica. Hai dato di matto. È successo, lo sapevi che poteva succedere.
Ti alzi di scatto, ti avvicini alla tela, la tocchi, accarezzi il ricamo in rilievo.
«E va be’», dici.
Da quando ha scoperto l’esistenza dell’erba, Lena la fuma mista a un pizzico di tabacco in una pipetta minuscola, di legno intagliato, che viene dall’Argentina. Sospira. Sei mesi di sesso, droga e reggaeton. Forse il suo corpo si sta ribellando alla noia romagnola della cena con le galline, dei colori smorti di arbusti impastati d’afa. Certo che non riesce a dipingere. Non c’entrano niente i fantasmi. È depressa.
La nitidezza di quell’idea può venire solo dalla marijuana carbonizzata nel fornello della pipetta; ciononostante le piace, le sembra calzante. Ecco. Calzante.
«Mi sembrava di aver sentito l’odore», dice Davide facendo capolino dallo stipite. È coperto di macchie grigie. Argilla, arbusti e afa. Così stanno le cose. «Sei sicura che sia il caso?»
Lena adora suo fratello, ma adesso vorrebbe proprio che tornasse nella sua stanza a far collassare vasi. Decide di rimanere zitta.
«Cioè, dopo quello che ci hanno detto al pronto soccorso».
Lena si concentra sul verso in tre tempi delle tortore che entra dalla finestra aperta, così morbido. In Argentina non c’è.
«Avevo bisogno di fare un po’ di introspezione», risponde.
«Ti va di andare al MamBo?»
Lena se ne vergogna molto, ma il primo collegamento del suo cervello è con il ballo latino.
«C’è qualcosa di particolare?»
Non che importi. Gli studenti dell’Accademia entrano gratis e l’abbonamento del treno è ancora valido. Quindi costo zero.
«Forse dei notturni», risponde Davide con un sorriso complice. E così è deciso, perché Lena ha un debole per i notturni.
Se ne rende conto quando si tratta di scegliere il posto a sedere, che forse il treno non è stata una grande idea. Ha l’impressione che se ne accorga solo in quel momento anche Davide, e che a quello sia dovuto un velo d’imbarazzo mentre occupa rapidamente il posto vicino al finestrino, invitandola a sederglisi accanto.
Cercherai di non guardare fuori, comanda a sé stessa, ma sarà molto difficile rispettare quell’imposizione. Non c’è niente di interessante da guardare, dentro. A parte forse l’interno della mente.
Il treno parte.
Normalmente, quando pensa uno spazio, è ampio e aperto. L’orizzonte lontano, aria e freddo. La sua mente è così. Adesso invece le s’impone con insistenza uno spazio angusto. Non riesce a vedere altro. Uno spazio angusto ma non protetto, che rigurgita buio e a pensarci le fa una paura del diavolo. Stringe la mano di suo fratello. Forse, dopotutto, è meglio guardare fuori dal finestrino.
Quando passano Castello ha il cuore come una falena, ma non c’è nessun bambino. Superata la stazione si rende conto che Davide si rilassa, lo vede dal gioco di sfumature disegnato dai muscoli del volto. Siamo fatti di luce, pensa. Per fortuna che è giorno; di notte smettiamo di esistere.
Scendono a Bologna, mano nella mano. Passano davanti al loro negozio preferito, che ha un assortimento pressoché illimitato di colori e materiale per l’arte, di tutti i prezzi. Lena è tentata ma non entrano, sta cercando di risparmiare. Certo, spesso