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I decaduti
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I decaduti

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Letteratura - romanzo (177 pagine) - Come una delicata fogliolina verde spicca nell’arida distesa graveolente di una discarica, così in queste opere lo spessore emotivo di alcuni personaggi riesce a emergere in tutta la sua freschezza nonostante il contesto di asfittica e putrescente corruzione morale. E il lettore deve tenere salda la mascella per non restare a bocca aperta


Due lunghi racconti, anzi quasi due romanzi, risalenti entrambi al 1897, accomunati dalla rappresentazione dell’indigenza materiale come specchio della miseria interiore. Anime depravate si aggirano in un ambiente contaminato dalla povertà, dalla sporcizia, dalla malattia e, soprattutto, dal vizio, peccato inevitabile per chi non ha altra scelta, per chi riesce a piegare le labbra in qualcosa di simile a un sorriso solo innaffiando il proprio organismo con fiumi di acquavite. La speranza non esiste e non è nemmeno contemplata, perché per gli individui tratteggiati da Gor’kij interrogarsi sul mistero della vita e sull’origine della sofferenza umana corrispondono alla stessa cosa. Un elemento, però, certamente manca a queste pagine: la superficialità. Ogni sfumatura dello spirito viene, infatti, scandagliata dalla penna ardente ed energica dello scrittore russo che non sa dimenticare (e qui si ritrova tutta la sua potenza) di essere stato, e in qualche modo di essere ancora, un vagabondo in preda al vento della disperazione.


Aleksej Maksimovič Peškov (Nižnij Novgorod, 28 marzo 1868 – Mosca, 18 giugno 1936), noto con lo pseudonimo Maksim Gor’kij (ovvero “l’amaro”), fece talmente tanti lavori diversi nella propria vita che elencarli tutti esaurirebbe questo spazio biografico. Dopo anni di peregrinazioni attraverso la propria nazione e impieghi saltuari, si affermò come giornalista e scrittore, entrando nel 1902 nella prestigiosa Accademia russa delle scienze, dalla quale fu però presto espulso a causa delle sue idee rivoluzionarie. Tentò il suicidio, conobbe il carcere, il confino, l’esilio, la malattia (per guarire da una forma severa di tubercolosi risiedette a Capri e poi a Sorrento) e morì in circostanze non chiare: in molti non credettero alla versione ufficiale (polmonite) e ipotizzarono un assassinio voluto da Stalin. Tra le sue numerose opere, possiamo citare i racconti lunghi Konovalov (1897) e Varen’ka Olesova (1898), il dramma Bassifondi (1902), il romanzo La madre (1906) e il ‘trittico autobiografico’ Infanzia (1913), Tra gente estranea (1915) e Le mie università (1922).

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateNov 22, 2022
ISBN9788825422382
I decaduti
Author

Maksim Gor'kij

Максим Горький (1868 - 1936) – русский писатель. Настоящее имя в биографии М. Горького – Алексей Максимович Пешков. Родители рано умерли, так Горький детство провел в жестких, тяжелых условиях, живя у своего деда. В жизни Горького всего два года были посвящены учебе в Нижегородском училище. Затем из-за бедности он пошел работать, но постоянно занимался самообучением. 1887 год был одним из труднейших в биографии Максима Горького. Из-за навалившихся бед он пытался покончить с собой, тем не менее, выжил. Путешествуя по стране, Горький пропагандировал революцию, за что был взят под надзор полиции, арестован. Первый напечатанный рассказ Горького вышел в 1892 году. Затем опубликованная в 1898 году библиотека Горького из двух томов «Очерки и рассказы», принесла писателю известность. Ему было присвоено звание члена Академии наук, однако по приказу Николая II вскоре признано недействительным. После этого писатель эмигрировал в США, затем в Италию. Даже там творчество Горького защищало революцию. Возвращение в Россию в биографии Горького произошло в 1913 году. Он работает в издательствах, проводит общественную деятельность. После 12 лет проживания в Италии, снова возвращается в Москву. К известным произведениям Горького относятся «На дне», «Мещане», «Детство», «Жизнь Клима Самгина», а также многие циклы рассказов.

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    I decaduti - Maksim Gor'kij

    Introduzione

    Milena Contini

    Non si può imparare senza sanguinare, e con imparare non intendo istruzione o acculturazione o il modo corretto di pronunciare una parola; intendo quando puoi guardare la luce del sole e sentire le ossa i vasi bruciare, o una cosa del genere […] E le ombre si dileguano e se ne vanno senza dolore.

    Charles Bukowski, lettera a Sheri Martinelli, 14 giugno 1961

    Raramente viene fatto il nome di Gor’kij nella rapida panoramica sulla letteratura russa che i professori delle superiori, in affanno per l’incombere del programma ministeriale, sono costretti a proporre in tutta fretta ai loro studenti. Solitamente il nostro autore è schiacciato da pesi massimi come Tolstoj, Dostoevskij, Bulgàkov, Majakovskij e, quando va bene, Gogol (che, come abbiamo visto, Immortali 13, scriveva in russo, ma era ucraino). Anche io devo ammettere di aver preso in mano un volume gorkiano (si dice gorkiano? Ma sì, diciamolo!) solo grazie all’intercessione, se così si può definire, di Grazia Deledda. La mia scrittrice, infatti, all’inizio del racconto Lo stracciaiolo del bosco (1933) usava un superlativo assoluto per descrivere una novella di Gor’kij: In una bellissima novella di Gorki [sic] c’è un vagabondo affamato, che nelle nuvole leggere e vaporose sull’orizzonte della steppa, vede vassoi fumanti e colmi di squisite vivande; ma quando nel suo delirio stende la mano per toccarli, quelli dileguano crudelmente, divorati dallo spazio. Quel superlativo aveva solleticato la mia curiositas perché sapevo che Deledda non era avvezza a dispensare complimenti sperticati a destra e a manca, preferendo sempre dire una parola di meno che una parola di più. Mi ero così fiondata nella biblioteca Sormani per colmare la mia lacuna seduta stante (attendendo giusto i dieci minuti necessari a far risalire i volumi dallo sconfinato magazzino sotterraneo), restando letteralmente folgorata dalla penna amara di Aleksej Maksimovič Peškov, in arte Gor’kij, l’amaro appunto.

    Molti sono i punti di contatto tra il russo e la sua ammiratrice sarda: lo stile asciutto, la maestria nel descrivere i risvolti dignitosamente tragici delle vite più miserevoli, la rappresentazione della decadenza, strisciante epidemia destinata a trionfare su ogni dettaglio, e, soprattutto, l’importanza della narrazione orale degli anziani nella fase di apprendistato narrativo. Se, come abbiamo visto (Immortali 4), Deledda aveva frequentato le scuole solo fino alla quarta elementare, Gor’kij, dal canto suo, non aveva mai messo piede in un’aula e si era fatto scrittore prima innamorandosi dei racconti della nonna (straordinaria affabulatrice) e poi imparando i rudimenti dell’alfabeto da un cuoco, quando lavorava come sguattero su una scalcinata imbarcazione fluviale. Dobbiamo quindi ringraziare quello chef volonteroso per aver strappato il giovane Gor’kij dalla morsa dell’ignoranza? Forse. O forse Maksim avrebbe cercato un maestro altrove. Sicuramente dobbiamo benedire l’imperizia da lui dimostrata nel togliersi la vita da ragazzo, altrimenti avremmo potuto dire addio a capolavori come il dramma Bassifondi (1902).

    Si dice che Gor’kij avesse cercato di farla finita a causa della morte dell’amatissima nonna, avvenimento che lo aveva precipitato nel gorgo della disperazione. Sta di fatto che, fallito il suicidio, Maksim aveva iniziato a vagabondare in lungo e in largo per il suo paese, sostentandosi con lavori precari e stagionali, incarnando una figura assimilabile a quella degli hobo della cultura statunitense. Mozzo, panettiere, guardiano notturno, scaricatore di porto, fattorino, operaio… questi alcuni dei suoi lavori saltuari. E qui, se il parallelo con Deledda non regge più, si impone invece un doveroso paragone con un altro mostro sacro della penna, Bukowski, che per decenni si era trascinato per gli States, alternando una vita da vero e proprio homeless a lavoretti di puro sostentamento momentaneo. Come dimenticare le strepitose pagine di Factotum (1975)? Ecco, nella scrittura di Gor’kij, come in quella di Buk, si percepisce tutta l’autenticità di un autore che non si è limitato a osservare la vita come un pensionato guarda i piccioni dalla propria panchina, ma l’ha vissuta prepotentemente e affannosamente dal primo all’ultimo battito.

    Gor’kij descrive la vita dei bosjaki (vagabondi russi) con la vividezza e la tragicità di chi è stato uno di loro e conserva ancora un sottile strato di fango sotto le unghie, un fango che non può e non vuole pulire. Nei due lunghi, direi lunghissimi, racconti che compongono il nostro volume, Coniugi Orlov ed Ex-persone, entrambi del 1897, emerge questa maestria nel rappresentare un mondo tutt’altro che estraneo. Gor’kij non ha bisogno di indossare la tuta isolante, i guanti e gli occhiali protettivi per maneggiare le realtà tossiche delle quali parla in queste narrazioni, perché la vita lo ha vaccinato, anzi lo ha fatto diventare, alla lunga, un portatore sano di quei veleni. Nei Coniugi Orlov si assiste a una vera e propria discesa negli inferi e non solo perché i due protagonisti vivono in uno scantinato asfissiante e infestato di insetti, che rappresenta la tomba delle loro fragili e rabbiose coscienze, ma perché al lettore sembra di entrare nella stanza degli orrori di un lunapark senza aver pagato il biglietto: la gola nera del camino guardava i coniugi come se sentisse di doverli inghiottire alla prima propizia occasione. Il campionario della abiezione sembra completo: violenza, alcolismo, sporcizia, morte, ignoranza, povertà, depravazione… E il paradosso sarà che i due personaggi per sfuggire al sottosuolo finiranno in un inferno ancora peggiore: sotto i caldi e luminosi raggi del sole, infatti, il colera mieterà vittime, facendo vibrare la sua falce alla cieca. Il ricovero dei colerosi sembra così una camera delle torture per tutti e cinque i sensi: L’acqua colava e spruzzava, e tutti quei rumori fluttuavano nell’aria talmente impregnati di odori acri, irritanti le narici, che pareva che ogni parola del medico, ed ogni sospiro di malati puzzasse […] facce terree, le ossa che parevano essere state assottigliate dalla malattia, la pelle madida, vischiosa, puzzolente, le orribili contorsioni di quei corpi ancora vivi.

    Squallore, povertà e dannazione imperano anche in Ex-uomini, opera in cui gli individui che gravitano intorno a una dimora fatiscente, vero ricettacolo di dolore e fallimento, dopo aver perso ogni cosa sembrano smarrire la loro stessa identità umana: senza diventare inumani, disumani o animali, semplicemente si riducono alla negazione di se stessi. Eppure anche in queste narrazioni disperate qualcosa di sublime e quasi delicato ogni tanto riesce ad affiorare, mostrando come l’uomo che ha buttato via la propria individualità acquisti una libertà da outsider molto simile a quella dell’inetto di sveviana memoria, perdente sì, ma allo stesso tempo autentico eroe inconsapevole dell’anticonformismo.

    Per stemperare chiudo sottolineando che, se qualche produttore americano decidesse di mettere in piedi una pellicola sulla vita di Gor’kij, non dovrebbe spendere molto in trucco perché l’attore Kevin Bacon è assai simile allo scrittore russo (provate a confrontare le foto dei due servendovi del vostro motore di ricerca preferito): la truccatrice se la caverebbe giusto con un paio di baffi! Ma negli uffici di Hollywood non credo ci sia una lotta all’ultimo sangue per accaparrarsi tale soggetto e ci toccherà vedere l’ennesimo film di 007…

    I coniugi Orlof

    Quasi ogni sabato, prima dei vespri, si udivano uscire, dal sottosuolo di una vecchia e sporca casa appartenente al mercante Petunnikof, le grida furiose di una donna, le quali si spandevano nello stretto cortile ingombro di ogni specie di tritume, e dove erano costruite le dispense e le tettoie in legno, ma il tutto così vecchio da reggersi appena in piedi.

    – Fermati! fermati! ubbriacone! gridava una donna con voce da contralto.

    – Lasciami! rispondeva una voce maschile da tenore.

    – No, non ti lascerò… non ti lascerò… assassino!

    – Sì, che mi lascerai!

    – Uccidimi… ma non lascerò.

    – Menti… eretica che sei!

    – Ah! padri miei!… mi ha uccisa,… Ah, padri miei!

    – Lascerai!

    – Ammazzami, belva che sei, ammazzami!

    – Ci vorrà tempo!

    Fin dalle prime parole di un dialogo presso a poco analogo, Sienka Fringuello, il garzone del pittore di stanze Sutkof, che passava giornate intere a stemperare colori sotto una delle tettoie del cortile ne usciva lesto come un dardo, e, coi suoi occhietti neri e scintillanti come quelli di un topo, gridava a squarciagola:

    – I calzolai Orlof si stanno battendo!… Oh! Oh! Oh!..

    Amatore appassionato di qualunque incidente, il Fringuello correva verso le finestre degli Orlof, si coricava sulla pancia, lasciava penzolare la sua testa arruffata di pessimo soggetto, dal magro muso astuto, tutto sporco di colori, e guardava giù cogli occhi spalancati, avidi, nel buco nero ed umido d'onde usciva un odore di roba marcita, di vecchio cuoio e di colla di pesce. Lì, in fondo, si agitavano furiosamente due forme umane, che emettevano grida rauche, gemiti ed invettive.

    – Mi ucciderai!… diceva la donna tutta ansante.

    – È cosa da nulla! rispondeva l'uomo, sicuro del fatto suo, con collera concentrata.

    Si udivano colpi pesanti e sordi cadere sopra qualche cosa di molle, dei sospiri, delle grida acute, l'ansare di un uomo che solleva un forte peso.

    – Oh! oh! oh!…. Che bel colpo le ha assestato con la forma!

    Il Fringuello descriveva il succedersi degli avvenimenti nel sottosuolo, ed il pubblico aggruppato intorno a lui – i sarti, l'usciere Levcènko, il suonatore di fisarmonica Kisliakòf, ed altri amatori dì divertimenti gratuiti, interrogavano continuamente Sienka, e, nella loro impazienza di notizie, lo tiravano ora per i piedi, ora per i calzoni unti e bisunti di colori oleosi.

    – Ebbene?… Ora, che fa?

    – È a cavallo su di lei e le strofina il muso a terra!… raccontava Sienka, che pareva godere con voluttà le impressioni che mano mano gli venivano.

    Il pubblico si chinava anch'esso verso le finestre degli Orlof, preso dal desiderio cocente di vedere da sè le peripezie della lotta; e benchè tutti i vicini conoscessero da tempo la tattica di Griscka Orlof quando era in guerra con la moglie, pure l'ammiravano e ne stupivano sempre.

    – Ah! il diavolo!… l'ha conciata per le feste!

    – Ha il naso tutto insanguinato! e come scorre!…. diceva Sienka.

    – Ah! Dio mio!… Dio buono!… esclamavano le donne. Che assassino!… Che carnefice!

    Gli uomini, invece discutevano in modo meno soggettivo.

    – Finirà certamente per accopparla! dicevano.

    Ed il suonatore di fisarmonica aggiungeva con fare da profeta;

    – Ricordatevi di quello che vi dico: le aprirà la pancia con una coltellata. Vedrete: un giorno si stancherà di percuoterla a quel modo e la finirà con un buon colpo coronato!

    – È finita! diceva Sienka a mezzavoce; e, rialzandosi di scatto, rimbalzava come una palla dalla finestra ad un altro angolo del cortile, dove andava a prendere un altro posto di osservazione, giacchè sapeva che Griscka Orlof non poteva tardare ad uscire.

    Gli altri si sperdevano al più presto, non volendo essere visti dal feroce calzolaio: ora che la battaglia era terminata, egli non aveva alcun interesse ai loro occhi, e, d'altronde, Griscka era un essere da evitarsi. Perciò quando Orlof saliva dal suo sottosuolo, nel cortile non c'era più anima viva (eccetto Sienka.) Ansante, colla camicia lacera, i capelli scarmigliati, il volto graffiato e madido di sudore, gli occhi iniettati di sangue, gettava di soppiatto uno sguardo circolare intorno al cortile; poi, colle mani dietro la schiena, si avviava lentamente verso una vecchia slitta che giaceva, rovesciata, vicino alla parete di legno della tettoia. Talvolta si metteva a fischiare fra i denti con aria spavalda ed intanto si guardava attorno, da tutti i lati, quasi volesse provocare tutti gl'inquilini della casa Petunnikof. Dopo di che, si sedeva sui pattini della slitta, si asciugava colla manica della camicia il sangue ed il sudore che gli scorreva dal volto, ed immobilizzandosi in un'atteggiamento stanco, guardava con occhio triste il muro sporco della casa, tutto scalcinato e striato da strisce di varii colori: i pittori di Sutkof, tornando dal lavoro, erano soliti pulire i loro pennelli su quella parte del muro.

    Orlof aveva circa trent'anni; aveva un volto nervoso, bronzino, tratti regolari, piccoli baffi neri che facevano spiccare vivamente le sue labbra rosse e carnose. Il suo gran naso aquilino era sormontato dalle sopracciglia così folte che quasi si univano; e sotto di esse si aprivano gli occhi neri, perennemente accesi da una fiamma inquieta. Capelli ricci, arruffati sul davanti, ricadevano dietro sopra un collo bruno e nervoso. Di media statura, un po’curvo dal lavoro, avrebbe potuto essere un bell'uomo. Rimaneva a lungo sulla slitta e contemplava, in una specie di sonnolenza, il muro dipinto, mentre il suo petto robusto ed abbronzato dal sole, respirava profondamente.

    Il sole è tramontato; ma non c'è un soffio d'aria nel cortile; vi si sente solo un puzzo di pittura ad olio, di catrame, di cavoli fermentati e di roba marcita. Canti ed urli escono da tutte le finestre dei due piani della casa: qualche rara volta, una faccia anemica, china dietro una imposta, guarda un momento Orlof, poi scompare con un sorriso.

    I pittori tornano dal lavoro; passano davanti al calzolaio, lo guardano di sbieco, ammiccando coll'occhio fra di loro, e dopo aver riempito il cortile del loro lesto dialetto di Kostroma, si preparano chi ad andare al bagno, chi alla cantina. Dal secondo piano, scendono zoppicando i sarti – tutta gente lacera, anemica, dalle gambe storte – ed incominciano a burlarsi di quelli di Kostroma, a causa del loro parlare rapido, a scatti.

    Tutto il cortile è pieno di rumori, di risa, di scherzi, di motti di spirito: solo Orlof rimane seduto al suo posto, in disparte, tacito, e senza guardare alcuno. Nessuno gli si avvicina, nessuno gli dà retta, nessuno si arrischia a scherzare sul conto suo, perché tutti sanno che, in quel momento, è una bestia feroce.

    Rimane lì, in preda ad una sorda e pesante collera, che gli opprime il petto e gli rende difficile il respiro; ogni tanto, gli fremono le narici e gli dànno l'espressione di un uccello da preda; e quando le sue labbra si contraggono, scoprono due file di denti gialli, grossi e solidi. Qualche cosa d'informe e di oscuro sembra spandersi su di lui – macchie rosse, indecise gli ballano davanti agli occhi, mentre sente le viscere rose dall'angoscia e da una sete sfrenata di acquavite. Sa che quando avrà bevuto, si sentirà alquanto meglio, ma il giorno è ancora chiaro ed ha vergogna di andare in cantina, malconcio e lacero com'è, per la via dove tutti lo conoscono… Non vuole uscire per servire di ludibrio a tutti gli sfaccendati del quartiere, ma non può neanche rientrare in casa per lavarsi e vestirsi.. Sua moglie è là, stesa a terra, tutta ammaccata, ed ora gli fa disgusto in tutti modi. Geme e piange – ed egli sa che è una martire e che ha ragione di ribellarsi contro di lui… lo sa. Sa che essa ha assolutamente ragione e che egli ha torto, e questa circostanza non fa altro che accrescere il suo odio, perché a fianco a quella coscienza, gli bolle in cuore un altro sentimento curioso ed oscuro, che è più forte della sua coscienza. Tutto è torbido e doloroso in lui, ed egli si lascia accasciare sotto il grave peso delle sue sensazioni interne, che non può sbrogliare – sapendo soltanto che c'è un sol rimedio, unico sollievo: una mezza bottiglia di acquavite!

    Ecco venire Kisliakof, il suonatore di fisarmonica. Ha una giacca di velluto senza maniche, una camicia di seta rossa, larghe brache ficcate in eleganti stivaloni. Sotto il braccio tiene la fisarmonica ben chiusa in una fodera verde; i suoi piccoli baffi neri sono ben incerati e rialzati in punte aguzze; il suo berretto sta posato spavaldamente sull'orecchio; tutta la sua persona spira l'allegria e l'audacia. Orlof gli voleva bene appunto per la sua arditezza, la sua allegria, il suo buon umore, e gl'invidiava la sua esistenza facile e spensierata.

    «I miei complimenti per la vittoria

    Di cui la tua guancia porta la gloria!».

    Orlof non se n'ha a male di questo scherzo, ripetuto già una cinquantina di volte, perché sa che il suonatore di fisarmonica non lo dice con malizia, ma semplicemente per ridere.

    – Ebbene, fratellino, c'è stata un'altra battaglia di Plevna? domanda Kisliakof, fermandosi davanti al calzolaio. Ah! povero Griscia, avresti dovuto andare lì dove la nostra sorte ci conduce tutti quanti… a bere un paio di bicchierini insieme.

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