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Una rosa bianca per Polifemo
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Una rosa bianca per Polifemo
Ebook176 pages2 hours

Una rosa bianca per Polifemo

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Che bisogno c’era di un altro commissario? Ce ne sono già tanti: alcuni vanno in televisione, altri rimangono confinati tra le pagine dei libri, ma tutti riescono sempre a risolvere casi complicati. Che cos’ha allora di diverso il commissario Rodrigo Guarneri? Nulla. Ma c’è posto anche per lui in un paesino immaginario dell’hinterland milanese che finisce dove iniziano le risaie del Pavese.
Non darà fastidio, tranne che ai criminali s’intende, non vuole fare l’eroe o essere ’na cusa ’randi, come gli rimprovera la madre. Fa solo il suo lavoro. Per farlo è venuto su dalla Calabria.
Un operatore ecologico, da sempre emarginato dalla comunità e che ha problemi anche solo a parlare con uno sconosciuto, viene trovato morto accanto a un accampamento nomadi.
Tutte le prove sembrano far pensare che fosse coinvolto in un traffico di droga, ma il commissario Guarneri non tralascia nulla: fantasmi del passato, colleghi di lavoro, eppure ogni volta si ritrova a dover ricominciare daccapo. L’unica cosa certa è che è scomparso il cellulare della vittima e che prima di morire voleva fare una buona azione.
LanguageItaliano
Release dateNov 17, 2022
ISBN9788855392594
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    Una rosa bianca per Polifemo - Natalina Fragomeni

    Natalina Fragomeni

    UNA ROSA BIANCA PER POLIFEMO

    EEE - Edizioni Tripla E

    Natalina Fragomeni, Una rosa bianca per Polifemo

    © EEE- Edizioni Tripla E, 2022

    ISBN: 9788855392594

    Collana Giallo, Thriller & Noir, n. 45

    EEE - Edizioni Tripla E

    di Piera Rossotti

    www.edizionitriplae.it

    Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi.

    Copertina di Natalina Fragomeni. Nell’immagine sono presenti elementi tratti dal sito Freepik.com e figure liberamente ispirate a essi.

    I fatti e i personaggi narrati in questo libro sono opera di fantasia.

    Ogni riferimento a luoghi e persone esistenti o fatti realmente accaduti è puramente casuale.

    A mio padre

    Martedì 16 aprile 2019

    Era stato il responsabile della raccolta rifiuti a dare l’allarme.

    Alle tre del pomeriggio, come ogni giorno, Pietro Spalletti stava passando in rassegna i veicoli impiegati per la raccolta differenziata per controllare che non avessero subito danni durante la giornata.

    Era già capitato che qualcuno degli autisti avesse preso male le misure facendo manovra e avesse strisciato contro un muro o, peggio ancora, urtato un’auto parcheggiata. Ma figuriamoci se si erano presi il disturbo di riferirglielo rientrando a fine turno.

    Ispezionare tutti gli automezzi alla fine della giornata, quando gli uomini andavano a cambiarsi e fare la doccia prima di andare a casa, gli consentiva di inchiodare subito il colpevole dell’eventuale sinistro. Se avesse aspettato il giorno dopo, quello sicuramente si sarebbe difeso insinuando il dubbio che il danno fosse opera di vandali durante la notte, dato che il parcheggio non era custodito.

    I veicoli erano tutti allineati in uno spiazzo abbastanza distante dalle abitazioni poiché, a dispetto delle grosse margherite dipinte sulle fiancate, anche una volta svuotati del loro contenuto non emanavano proprio un odore di bouquet fiorito.

    Spalletti iniziò dal grosso compattatore per la raccolta della carta: paraurti intero, fanali interi, specchietti integri. Passò a quello del vetro: anche qui tutto a posto. Poi c’erano i due veicoli che separavano umido e secco: a parte una fiancata schizzata di fango, era tutto in ordine. E per finire i tre veicoli più piccoli con il cassonetto aperto, poco più grandi di un grosso SUV. Ciascuno copriva una zona diversa del paese ed erano impiegati per svuotare i cestini dei rifiuti posizionati sui marciapiedi o all’interno delle aree verdi.

    Il primo tutto in ordine, ma quando si spostò davanti al secondo, a Spalletti venne quasi un colpo.

    «Dove diavolo è finito il terzo?»

    Ne mancava uno.

    Si girò e si diresse a grandi passi verso l’edificio. Con una manata spalancò la porta dello spogliatoio maschile. Anzi, dello spogliatoio e basta, poiché ce n’era uno solo. Fortunatamente al momento non c’erano donne impegnate nella raccolta dei rifiuti e quindi non si ponevano problemi.

    Garullo e Saggese afferrarono velocemente un asciugamano e se lo legarono intorno alla vita mentre gli altri, che erano già mezzi presentabili, si bloccarono con aria interrogativa.

    «Dov’è finito Polifemo?» urlò Spalletti.

    Gli uomini si guardarono in faccia uno con l’altro, ma chi alzava le spalle e chi scuoteva la testa. L’unico a parlare fu Garullo:

    «Verso l’una e mezza l’ho visto dall’altra parte della strada, poco prima della rotonda dei cipressi. Stava andando verso i grattacieli o forse verso la fabbrica di cioccolato. Probabilmente faceva la zona esterna oggi».

    «Lo so anch’io che faceva la zona esterna! Sono io che vi assegno le zone al mattino. Intendo dire dov’è adesso? In questo momento? Visto che non è rientrato» urlò in faccia a Garullo.

    Non aveva un’alta opinione degli uomini della sua squadra. Non aveva mai legato con nessuno di loro e non gli interessava conoscerli più di quello che serviva per lavorarci insieme.

    Uscì dallo spogliatoio più furioso di quando c’era entrato e fece di corsa la rampa di scale che portava agli uffici del primo piano. Per fortuna il suo ufficio era subito sulla destra. Si sedette alla scrivania e riprese fiato prima di afferrare la cornetta e comporre un numero.

    Pietro Spalletti aveva superato i cinquant’anni già da diverso tempo e non era mai stato un tipo sportivo, ma adesso era decisamente fuori forma e anche una singola rampa di scale gli procurava il fiatone. Dall’altra parte una voce femminile aprì la linea: «Polizia locale».

    «Sono Spalletti, della raccolta rifiuti, sa dirmi se un nostro mezzo è rimasto coinvolto in qualche incidente oggi?»

    Ci fu un attimo di silenzio: «No, non mi risulta».

    «E ci sono per caso problemi in qualche zona? Strade bloccate? Circolazione deviata?»

    «No, non mi risulta.»

    «Arrivederci» e riattaccò.

    Ruotò sulla sedia e guardò fuori dalla finestra: il cielo era coperto, minacciava pioggia.

    «Polifemo, se non arrivi entro mezz’ora, giuro che ti sbatto fuori a calci in culo e non m’importa di quanti problemi tu abbia.»

    * * *

    Ottobre 1984

    Polifemo, all’anagrafe Giovanni Fulco, doveva sapere già prima di nascere che la vita non sarebbe stata buona con lui e per questo aveva ritardato il più possibile il momento di affrontarla.

    La gravidanza della signora Fulco si era prolungata più del dovuto e forse per questo, forse perché la signora e il signor Fulco erano ormai avanti con gli anni o forse solo perché era destino, quando nacque, in una calda mattina d’agosto d’inizio anni ’70, i medici dissero ai signori Fulco che con il passare del tempo il bambino avrebbe avuto problemi di apprendimento.

    Da piccolo Giovanni era un bambino buono, sempre un passo indietro rispetto ai compagni quando si trattava di apprendere, ma una spanna più alto degli altri per statura.

    Inutile dire che tra le difficoltà a imparare e l’altezza fuori dal comune per la sua età, fu da subito il bersaglio preferito per scherzi e battute.

    Giovanni non protestava.

    Aveva capito che se restava in disparte, i compagni di classe spesso si dimenticavano della sua esistenza e lo lasciavano in pace.

    Spesso, ma non sempre.

    Capitava che tornasse a casa con i vestiti sporchi di pennarello o con delle gomme da masticare tra i capelli. La madre non diceva niente, lo ripuliva, lo consolava un po’ e gli raccomandava di fare sempre buone azioni e mai cattive azioni.

    Oltre all’affetto della madre, Giovanni poteva contare anche sulla pazienza della sua maestra. Faceva di tutto per rispettare i suoi tempi di apprendimento e, se necessario, gli ripeteva lo stesso concetto anche decine di volte finché non era sicura che lo avesse capito. La maestra faceva di tutto per difenderlo dagli altri bambini, ma qualche volta sfuggivano al suo controllo.

    Giovanni, con grande fatica, terminò la scuola elementare.

    La scuola dell’obbligo prevedeva altri tre anni, ma per lui diventarono un po’ di più.

    I concetti da imparare erano diventati ancora più difficili e non poteva più fare affidamento sulla pazienza della sua maestra. Così, alla fine del primo anno di scuola media, i professori dissero alla signora Fulco che sarebbe stato meglio per il ragazzo ripetere l’anno.

    La stessa cosa accadde anche alla fine del secondo anno di scuola media.

    Giovanni non si disperò. Aveva da poco compiuto quattordici anni quando si preparò a ripetere la seconda media.

    Fu quell’anno che le cose precipitarono.

    L’anno scolastico, in verità, era iniziato nel migliore dei modi per lui. Dopo tanto tempo aveva finalmente trovato un amico.

    Daniel Rigoni, un ragazzino un po’ più basso degli altri e notevolmente in sovrappeso, si era trasferito da un’altra città ed era stato messo in banco con Giovanni.

    I due scoprirono presto che passare la ricreazione o l’ora di ginnastica insieme era più piacevole che starsene da soli in un angolo, sperando di non diventare l’oggetto della barzelletta del giorno.

    La strana amicizia, ovviamente, non passò inosservata al resto dei compagni.

    La prima cosa che fecero fu soprannominarli I-o per via della loro statura: tanto alto e magro Giovanni quanto piccolo e paffuto Daniel. Quando entravano in classe, ma spesso anche nel mezzo di qualche lezione, si levava un coro di I-o, I-o, I-o, cadenzato come se fosse il raglio di un asino.

    Le attenzioni malsane dei compagni adesso erano concentrate soprattutto su Daniel, il cui fisico si prestava a diverse ingiurie.

    Una mattina di metà ottobre in cui la temperatura era ancora piacevolmente mite, Marco Moretti, insegnante di educazione fisica, ritenne che fosse più salutare per i ragazzi giocare all’aria aperta nel piccolo giardino della scuola anziché fare esercizi in palestra.

    Le ragazze iniziarono a giocare a pallavolo. Due strisce di nastro adesivo marrone correvano parallele dal tubo della grondaia fino a uno dei due lampioni e rappresentavano la rete. A terra dei segni di gesso bianco venivano rinnovati dopo ogni temporale per delimitare un campo di pallavolo improvvisato, molto più piccolo di uno regolamentare. Questa era stata la risposta creativa dei ragazzi al taglio dei fondi da parte del Ministero della Pubblica Istruzione.

    Poco più in là, i ragazzi non se la passavano meglio.

    Giocavano a calcio in un campo arrangiato con materiali abbandonati davanti al cancello della scuola.

    Nel mese di luglio era stato rifatto il manto stradale davanti alla scuola, ma a lavoro completato parte del materiale era stato abbandonato sul marciapiede. Probabilmente doveva essere recuperato in seguito oppure era stato dimenticato dagli operai nella fretta di allontanarsi dalla puzza di catrame fresco e dalla calura estiva.

    A settembre quel mucchio di oggetti era ancora lì. Al ritorno dalle vacanze estive, i ragazzi per qualche giorno si erano divertiti a prenderli a calci, giusto per diletto personale, poi qualcuno aveva cominciato a trasportarne dei pezzi all’interno della scuola e a depositarli in giardino.

    I coni fosforescenti, che erano serviti a delimitare l’area dei lavori, potevano essere utilizzati per costruire un percorso di atletica. I cavalletti formati da un asse di legno, con strisce diagonali bianche e rosse, montata su due V in ferro capovolte, che avevano segnalato l’inizio e la fine del cantiere stradale, potevano demarcare l’area della porta del campo di calcio.

    In quella mattina di metà ottobre, i ragazzi della II B dell’Istituto Alessandro Volta stavano giocando a calcio in un campetto un po’ sbilenco delimitato da quattro coni arancioni, una linea di metà campo un po’ storta e due porte, non proprio allineate tra di loro, rappresentate ciascuna da due cavalletti affiancati.

    «Passa!»

    «Dai passa Roberto! Non fare il solito!»

    Roberto Lombardi pensava di essere il più forte, il più bello e il più intelligente di tutta la scuola. Un piccolo bullo sarebbe definito oggi e, per tenere alta la sua reputazione di bullo, anziché passare la palla ai compagni di squadra, la scagliò alta nel cielo.

    Il pallone disegnò un’iperbole e finì oltre il muro della scuola. Atterrò nel giardino della villetta di fronte, dall’altra parte del vialetto che divideva i due edifici. Non era la prima volta che capitava. In quella villetta

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