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Dove non batte il sole
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Dove non batte il sole

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About this ebook

A Rammusa, una cittadina della Sicilia barocca dove la mafia non spara e non ammazza più da anni, vengono assassinati marito e moglie nella loro gioielleria. Si pensa a una rapina finita male, ma il magistrato che indaga sospetta del figlio della coppia, Stefano Macrì, studente universitario di 27 anni.
Per il giovane comincia un atroce calvario. Confidava nello Stato per avere giustizia per i suoi genitori, invece è costretto a liberarsi di un'accusa infamante. Per farlo, Stefano è tentato di cedere a logiche e dinamiche che ha sempre eticamente respinto. Sa che anche nella Sicilia dei giorni nostri, ci sono uomini potenti che contano ancora, che non fanno più la guerra allo Stato ma vogliono che niente e nessuno possa insidiare la tranquillità raggiunta. Don Tano Culella è uno di questi. Al boss quello che è accaduto non è piaciuto e anche lui vuole capire chi abbia osato fare una cosa simile nel suo paese. Quando viene a sapere che il principale sospettato è Stefano, capisce che qualcosa non quadra. Conosce quel ragazzo da quando era un bambino, abitano nello stesso palazzo. Fatalmente, i destini di don Tano e di Stefano si incroceranno, perché hanno lo stesso obiettivo: la ricerca della verità.
Un romanzo civile e di impegno sociale che affronta ed elabora temi di scottante attualità del sistema penale italiano che contempla il fine pena mai: una pena di morte in vita.

LanguageItaliano
Release dateNov 25, 2022
ISBN9788869348181
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    Dove non batte il sole - Carmelo Sardo

    Carmelo Sardo

    Dove non batte il sole

    Romanzo

    © 2022 Bibliotheka Edizioni

    www.bibliotheka.it

    I edizione, novembre 2022

    e-Isbn 9788869348181

    Tutti i diritti riservati.

    Foto di copertina: Giusi Bonomo

    www.giusibonomo.it

    Foto dell’autore: Jacopo Pesciarelli

    Elaborazione: Riccardo Brozzolo

    Carmelo Sardo

    Giornalista, caporedattore Tg5, siciliano di Porto Empedocle, è uno dei più acuti e appassionati scrittori di storie di mafia e di riscatto.

    Ha esordito nella narrativa con Vento di tramontana (Mondadori 2010) rieditato da Laurana editore (2018) a cui è seguito Malerba (Mondadori 2014) scritto a quattro mani con il detenuto ergastolano Giuseppe Grassonelli, tradotto in dieci paesi e vincitore del premio Leonardo Sciascia.

    Nel 2016 ha pubblicato, Per una madre (Mondadori) a cui sono seguiti Cani senza padrone - La Stidda, storia vera di una guerra di mafia (Zolfo editore 2020) e L’arte della salvezza - Storia favolosa di Marck Art (Zolfo Editore 2021).

    A Chiara e a Niccolò

    che staranno sempre

    dalla parte della legalità.

    A te, foca, dove il sole batte sempre.

    Io non preferirei né l’uno né l’altro; ma, se fosse necessario o commettere ingiustizia o subirla, sceglierei il subire ingiustizia piuttosto che il commetterla.

    Socrate

    La giustizia non ci salverà dalla terra incolta dell’oblio

    S.M.

    Primavera di bruma e di sangue a Rammusa

    La mattina di primavera insolitamente livida quando uccisero suo padre e sua madre, Stefano Macrì era perso nel sonno beato e pesante di chi ha mangiato e bevuto tanto. La sera prima aveva festeggiato la baldanza dei ventisette anni in un locale giù al mare, con Fulvia, la fidanzata, per una volta senza litigare, ma con la stanchezza dell’abitudine di un rapporto che si trascinava dai tempi della scuola media. Aveva fatto molto tardi e per questo non sentiva il telefono che alle nove meno un quarto vibrava sul comodino accanto al letto, nella piccola mansarda dove si era trasferito da qualche mese, all’ultimo piano di uno dei più bei palazzi barocchi di Rammusa, sopra l’appartamento dei suoi genitori. Li aveva convinti a prendergli in affitto quella specie di abbaino, per poter studiare meglio: questo almeno diceva; ma in realtà, oltre a preparare gli esami di giurisprudenza, aveva bisogno di ritagliarsi un po’ di indipendenza. E di intimità.

    Dormiva stravaccato a pancia sotto, con le braccia aperte che sembrava un Cristo in croce, e quelle gambe lunghe e secche allargate una a levante, l’altra a ponente, e i piedi quarantaquattro che gli penzolavano oltre il materasso. Lenzuolo e coperta erano scivolati per terra, come sempre. Il telefonino non lo aveva sentito, ma il citofono che dieci minuti dopo suonava impetuoso lo svegliò di soprassalto e lo costrinse ad abbandonare un sogno che faceva spesso, di una lontana fanciullezza: lui piccolo, al mare, sul suo canotto arancione e la madre dalla riva che gli urlava di non allontanarsi troppo che c’erano le onde, e la corrente. Si stiracchiò liberando uno sbadiglio stridulo, gettò un’occhiata sghemba all’orologio e trattenne a fatica un’imprecazione contro il cielo. Il citofono suonava e suonava e si interruppe solo quando Stefano andò a rispondere con la voce impastata di sonno.

    «Ma chi è?»

    «Polizia, apra per cortesia.»

    Raggelò. Si guardò attorno. Lasciò cadere la cornetta del citofono e nel disordine consueto di quelle due stanze recuperò veloce la busta con la cocaina. Non sapeva dove nasconderla, cominciò a sudare freddo mentre si domandava chi lo avesse tradito, come avessero fatto a scoprirlo. Cercava un posto sicuro e quasi gli prese un colpo quando gli agenti che prima citofonavano, ora prendevano a manate la porta della mansarda: «Polizia, apri. E stai tranquillo» disse uno dei due.

    Stefano, dentro a un pigiama il doppio di lui, che gli piaceva galleggiare nei vestiti, si liberò della busta con la cocaina mettendola in una scatola di cereali e andò ad aprire scombussolato per la paura, per il sonno perduto, per le conseguenze di quel micidiale mal di testa che gli prendeva ogni volta che beveva vino bianco: lo sapeva che non lo tollerava, ma lo preferiva sempre al rosso, era un bianchista come gli diceva sempre il suo amico Luigi.

    Si trovò davanti due poliziotti giovani, che potevano avere due, tre anni più di lui. E con sua grande sorpresa, non successe, come aveva temuto, che lo spingessero dentro e cominciassero a perquisirlo. No. I due agenti erano rimasti fermi sull’uscio e avevano le facce contrite, l’uno guardava l’altro, sperando che parlasse quello.

    Parlò invece Stefano.

    «Ma che cosa sta succedendo, mi spiegate?»

    «Vestiti e seguici» gli disse uno dei due agenti.

    Stefano per un attimo sospettò che non fossero venuti per la droga. Ma per cos’altro allora? Non avevano bisogno di perquisirlo? Sapevano già tutto? Avevano tutte le prove che servivano? Stefano non insistette subito, lì davanti alla porta, a chiedere perché mai dovesse seguirli; voleva allontanarli dalla tentazione che entrassero in cucina, che si avvicinassero allo stipite dove c’era la confezione di cereali con dentro la busta che lo avrebbe rovinato. Si voltò e spostando il ciuffo dei lunghi capelli neri che gli copriva mezza faccia, si avviò per andarsi a cambiare senza osare pronunciare l’invito che chiunque in quella circostanza avrebbe fatto: ma prego, accomodatevi. I due poliziotti non si insospettirono, presi com’erano dalla difficoltà di dover comunicare quella notizia così terribile. Come glielo avrebbero detto? Con la glaciale formalità di servizio? Oppure, come avrebbero parlato due giovani come lui, due amici? Si chiedevano questo mentre seguivano con lo sguardo Stefano che si avviava lento e impaurito verso la camera da letto. I due agenti entrarono lo stesso, anche senza invito, e cominciarono a buttare gli occhi di qua e di là in quella kasba di libri sparpagliati dovunque, di pantaloni e di camicie appoggiate sulle sedie e sull’unica poltrona; piatti da lavare, scatolette svuotate di tonno e di carne in gelatina sul tinello, e portacenere traboccanti e cartine e accendini.

    «Scusate per il disordine – disse a quel punto Stefano – , è la topaia di uno studente universitario, che volete farci?» e gli scappò una risata maldestra e se ne pentì perché si rese conto che forse, ora sì aveva insospettito quei due agenti, i quali si misero a curiosare muti dentro a quel disordine e per evitare che scoprissero la droga, Stefano si affrettò a prepararsi. Si lavò la faccia con acqua gelida, si sciacquò la bocca con un po’ di collutorio alla menta, con cui spesso sostituiva il dentifricio, si infilò un jeans, una felpa, il giubbotto e fu pronto. Scesero a piedi, con Stefano così rintronato che gli sembrava di essere rimasto ancora nel letto, inghiottito dal suo bel sogno di una vita fa.

    Quando sbucarono fuori dal palazzo, la lieve bruma che ammantava la collina su cui erano sminuzzate le vecchie case diroccate del centro storico, faceva apparire tutto irreale. Dov’era finito il sole che ogni mattina baciava il risveglio di Rammusa, si chiedeva Stefano, mentre i due poliziotti lo facevano salire nell’auto di servizio e a quel punto, che fosse o no un sogno, dovette chiedere con più determinazione cosa stesse succedendo, e gli agenti non poterono più rimandare la verità.

    «Stefano, è una cosa molto grave», disse uno. «Devi farti coraggio» aggiunse l’altro, e fecero una pausa nella speranza che lui capisse e rendesse meno difficile e tormentoso il loro compito.

    E Stefano qualcosa cominciò a capirla, ma non pensò subito ai suoi genitori.

    «È successo qualcosa a Fulvia?» chiese tirandosi dritto nel sedile posteriore.

    «Chi è Fulvia? No, non c’è nessuna Fulvia coinvolta», rispose l’agente che guidava.

    «E allora cosa? Oddio, mio padre? Mia madre?»

    La voce di Stefano si era incrinata e la domanda restò appesa alla risposta muta dei poliziotti, e la sua vita si interruppe.

    La sirena della volante ululava nella strada che si allunga in salita e dopo un paio di tornanti e due vicoli, spunta nella splendida piazza del Vespro sormontata dalla chiesa di san Francesco e dalla sua sontuosa scalinata. Una folla impietrita si era radunata oltre il nastro bianco e rosso che era stato steso tra una palma e un ficus beniamino, per delimitare lo spazio dove si affacciava la gioielleria dei Macrì. Sceso dall’auto, nonostante fosse stato preso per un braccio da un agente, Stefano si liberò e corse fin dentro al negozio, evitando il tentativo di placcarlo di un carabiniere un po’ appanzato. Lo fermarono altri due poliziotti un attimo prima che si buttasse sui corpi straziati di suo padre Mario e di sua madre Felicia, urlando di rabbia e di dolore, chiedendosi furioso cosa fosse successo, chi fosse stato.

    Il magistrato era un omino basso, curvo e spettrale, con un cognome beffardo che sintetizzava il suo aspetto: si chiamava Sparviero, Ubaldo Sparviero. Dentro al suo impermeabile beige, col bavero sempre tirato su che sembrava il solito detective dei thriller, aveva un ghigno stampato in faccia che esaltava il suo atteggiamento sprezzante, confermato dal tono severo con cui ordinò a un ispettore di allontanare il ragazzo perché stava intralciando il lavoro della scientifica.

    Stefano schiumava di rabbia e nella sua disperazione, per un attimo fu tentato di aggredire il magistrato. Due poliziotti lo afferrarono prima che in un impeto si scagliasse addosso a Sparviero. Lo sollevarono di peso e lo portarono fuori dalla gioielleria, mentre da dentro altri poliziotti abbassavano la saracinesca. Lo fecero sedere su una panchina nella piazza cinturata da un muro di curiosi addolorati e affranti, che tutti, in questa città di cinquantamila abitanti, più anziani che giovani, conoscevano i coniugi Macrì e quel ragazzo che ora si teneva la testa tra le mani e quasi si strappava i lunghi capelli neri e lisci. Uno dei poliziotti gli chiese se avesse un fratello, una sorella, un parente. Ma lui non rispondeva, risucchiato nel dolore che annegava in un pianto singhiozzante. Così lo trovò Fulvia quando giunse di corsa, facendosi largo a spintoni tra la folla. Se lo abbracciò forte e non sentì la domanda che le rivolsero i due poliziotti seduti accanto al ragazzo: «Chi è lei? La sorella? La fidanzata?»

    Fulvia, che era la metà di Stefano, bassa e minuta con un caschetto di capelli neri, gli accarezzava la testa come una madre, aggiungendo lacrime e singhiozzi all’angoscioso dramma che stava vivendo. La scena alimentava commozione agli occhi della folla.

    «Mario Macrì, anni 58… presenta un foro d’ingresso alla regione parietale destra, il proiettile è fuoriuscito dalla parte diametralmente opposta; Felicia Genovese, in Macrì, anni 54, attinta da un proiettile con foro d’ingresso nella regione toracica superiore.»

    Il freddo linguaggio giudiziario con cui l’ispettore relazionava al magistrato, raccontava che le due vittime erano state uccise con due colpi di pistola sparati da vicino: l’uno centrato alla testa, l’altra al petto. Erano morti all’istante.

    Ubaldo Sparviero si affezionò subito all’ipotesi di una rapina finita male ad opera di due balordi inesperti e arruffoni. Nella sua testa rivedeva già la scena di una reazione spropositata indotta dal panico. Pensava che assai probabilmente i due rapinatori avranno temuto che il gioielliere stesse impugnando una pistola, quando gli avranno visto aprire il cassetto del bancone. Il magistrato giunse a questa conclusione analizzando la scena del crimine: il cassetto era aperto a metà, non c’era nessuna arma. Il corpo del gioielliere piegato sul bancone, con una mano che penzolava. La moglie, stesa per terra con uno squarcio nel petto, a meno di un metro da lui.

    Dalla gioielleria non mancava niente. Altro segno, pensò il magistrato, dell’inesperienza dei due rapinatori. Ammesso che fossero due rapinatori! Quella che gli era sembrata una granitica certezza, cominciò nelle sue elucubrazioni ad essere messa in discussione dal dubbio che si insinuò nella prima sommaria ricostruzione che fece, ingenerato da un interrogativo inquietante lanciato lì per lì da un ispettore di polizia: e se si fosse trattato di una messa in scena?. Di sicuro c’era che gli assassini fossero due. Li aveva visti scappare il fruttivendolo della bottega accanto alla gioielleria. Disse che avevano il passamontagna calato sulla testa, e una pistola ciascuno in pugno. Che fossero armi corte lo confermò il ritrovamento di due bossoli calibro 7,65 x 21 millimetri Parabellum: i due colpi sparati per uccidere i coniugi Macrì.

    Interrogato subito, il fruttivendolo non seppe offrire molto di più alle indagini: «Mi parsero di altezza normale… vestiti di nivuru… con giubbotti nivuri, o forse marroni, pantaloni scuri, jeans, mi parsero jeans. I pistoli mmanu e i passamontagna», ripeté più volte all’ispettore prima e al magistrato dopo nel suo italiano incerto.

    Gli altri negozianti non avevano visto e non avevano sentito niente. Né il panettiere, né quelli del bar all’angolo, neppure gli impiegati e i clienti della banca di fronte. E non si trovava nessun passante, che pure dovevano esserci viste l’ora e la zona centrale, che potesse essere d’aiuto. Chissà come, chissà perché, Sparviero decise allora di torchiare Stefano Macrì, che continuava a disperarsi seduto nella panchina dove provava a confortarlo la fidanzata, con i due poliziotti che non si allontanavano di un centimetro e lo tenevano sott’occhio.

    «Chiedete al ragazzo se abbia bisogno di tornare a casa a darsi una sistemata, a farsi una doccia, a mettersi una camicia pulita, una giacca, chessò io, mi sembra indecente così, poi portatelo nel mio ufficio. Un’ora di tempo, non un minuto di più. Vi aspetto. E non perdetelo di vista», ordinò ai due poliziotti. Poi si avvicinò a uno di loro, e gli sussurrò in un orecchio: «Già che ci siete date un’occhiata dentro casa, con discrezione, e se trovate qualcosa di interessante portatemela: questo ragazzo non mi convince.»

    «Ma dottore, così? Senza un mandato di perquisizione?» si azzardò a chiedere un ispettore.

    «Sono io il mandato!», rispose secco Ubaldo Sparviero prima di stiracchiare il bavero dell’impermeabile e infilarsi nell’auto di servizio e comandare al suo autista di tornare presto in Procura. L’auto sgommò facendosi largo tra la folla che si apriva allertata dal suono ficcante della sirena, in quella giornata lattiginosa di maggio che aveva sconquassato la tranquillità di Rammusa.

    Don Tano

    Gaetano Culella anche quella mattina si era allisciato i capelli con la brillantina, si era spruzzato la solita colonia di bergamotto e nel suo candido vestito di lino bianco, si stava accendendo il sigaro mentre smargiasso scendeva le scale del palazzo di casa, quando incrociò Stefano Macrì sorretto da un poliziotto e dalla fidanzata. Rimase con l’accendino in mano davanti al sigaro, stretto in un lato della bocca, e gli occhi sgranati in un’espressione interrogativa e inquieta.

    Il poliziotto lo riconobbe e si scostò per farlo passare. Stefano si trascinava con lo sguardo incollato ai piedi, e sembrò non accorgersi di lui.

    «C’è cosa…?» chiese Gaetano Culella inarcando il sopracciglio sinistro della sua faccia sempre abbronzata, mentre gli sfilavano davanti.

    «Niente che possa riguardarla», rispose con un tono secco il poliziotto.

    «Meglio accusì» ribatté lui dando di nuovo fuoco al sigaro.

    Fulvia gli lanciò un’occhiataccia e quando superarono la prima rampa di scale chiese al poliziotto: «Lo sa chi è quello, vero?»

    «E certo che lo so, signorina! Chi vuole che non lo conosca a don Tano Culella.»

    Lo chiamavano tutti don Tano. Mille inchieste lo avevano sfiorato, mai nessuno era riuscito a incastrarlo. Pure le pietre, in quella città incastonata tra colline arse dal sole di Sicilia, sapevano che don Tano Culella era un mafioso vero, all’antica, di quelli cinematografici. Bastava guardarlo come andava vestito, come camminava, come salutava e come prendeva saluti: sembrava uscito da una pellicola americana anni Trenta.

    Era rispettato, temuto e riverito. Tutti sapevano che a Rammusa comandava lui. Che non abbaiava cane senza il suo consenso. E anche per questo da molti anni non succedeva più niente a Rammusa. C’erano volute due guerre di mafia e decine di morti però prima che si arrivasse a quella apparente tranquillità. E don Tano aveva avuto un ruolo decisivo in quelle faide, anche se nessuno aveva mai saputo se un boss come lui gli omicidi li avesse solo ordinati, oppure anche eseguiti personalmente. Certo, con la pace raggiunta con le cosche dei paesi vicini, lui ora aveva compiti meno gravosi da gestire: molti a Rammusa, quando avevano una rogna da risolvere si rivolgevano a lui e non allo Stato, e lui faceva da paciere, lui sistemava sempre tutto. Decideva perfino sindaci e assessori. Non c’era uomo insediato al vertice delle istituzioni, dei centri di potere, che non avesse avuto la sua benedizione. L’ordine pubblico lo garantiva più la sua presenza, che quella di carabinieri e di polizia. Per questo, quando al bar sotto casa, Giannuzzo il banconista mentre gli serviva il caffè gli raccontò cosa era accaduto, don Tano inarcò il solito sopracciglio che si trascinò dietro la mandibola in una smorfia che gli fece cadere il sigaro dalla bocca. Lo lasciò a terra, bevve il caffè con un colpo secco, si allisciò i capelli col pettine, ne aveva sempre uno nel taschino interno della giacca, e si avviò senza pagare: Giannuzzo segnava sempre e a fine mese don Tano saldava tutto.

    La polizia mortuaria stava portando via i cadaveri di Mario Macrì e di sua moglie Felicia, quando la sagoma poderosa di don Tano Culella si profilò severa alle spalle della folla muta e attonita che continuava a stazionare nella piazza. Chiunque, non appena si accorgeva della sua presenza, d’istinto faceva un passo indietro di deferenza e chinava lievemente il capo in un saluto riverente. Tutti avrebbero voluto chiedergli qualcosa, ma nessuno osava solo incrociare lo sguardo di don Tano che aveva ripreso a mordicchiare un altro sigaro e avanzava lento. Avrebbero voluto sapere come fosse stato possibile che a Rammusa, dove nessuno si azzardava a rapinare il più scalcinato dei tabaccai, qualcuno aveva addirittura ammazzato due persone perbene, due commercianti onesti, un padre e una madre che tutti conoscevano e a cui tutti volevano bene. Nel mormorio ovattato della piazza, all’improvviso si levò alta una voce rauca: «Devono morire questi figli di cane!»

    Tutti cercarono con gli occhi chi avesse lanciato quell’anatema. Don Tano si concesse un’altra delle sue smorfie, dondolò la testa su e giù, come a dimostrare di aver recepito il messaggio, si voltò e lasciò la piazza seguito da due uomini che non lo perdevano di vista un attimo. Quando si fu allontanato, il parlottio della piazza crebbe e sfociò in un cicaleccio incontrollato.

    Quelli che simpatizzavano per don Tano si accaldavano nel sostenere che ci avrebbe pensato lui a fare giustizia e interpretavano la sua presenza come un segnale chiaro e forte. Quelli che lo osteggiavano, si affannavano a dimostrare come con don Tano o senza don Tano, Rammusa fosse tornato un posto di terrore e di morte, e che una cosa del genere non succedeva neppure negli anni ‘80, negli anni della guerra di mafia quando almeno si scannavano tra di loro, era solita commentare la gente onesta. E qualcuno si spingeva oltre e sospettava che dietro a questa brutta storia potesse esserci addirittura la mano dello stesso don Tano, il quale per sviare le tracce si era fatto vedere, platealmente, proprio per allontanare i sospetti da lui. Lo strepitio della piazza si placò quando l’autista mise in moto il furgone che trasportava le salme dei coniugi Macrì, fece marcia indietro e preceduto da un’auto dei vigili urbani, si avviò verso la camera mortuaria dell’ospedale dove il medico legale e i suoi assistenti erano già pronti per l’autopsia.

    Il sospetto del magistrato

    «Stefano Macrì, nato a Rammusa, ventisette anni fa…di Mario e di Felicia Genovese, di professione studente, residente in via…»

    «Va bene, va bene… basta con queste formalità» lo interruppe Ubaldo Sparviero agitando una mano davanti alla faccia.

    In piedi, davanti alla scrivania del magistrato, l’ispettore Matteo Scannella esibì un sorriso amaro e abbassò lo sguardo. Era un poliziotto giovane e determinato. Era nato e cresciuto a Rammusa, conosceva tutti e tutti conoscevano lui, e se non fosse stato per questo, nessuno lo avrebbe scambiato per un poliziotto: aveva una massa consistente di capelli ricci e biondi, gli occhi castani, e si vestiva come un picciuttazzu, con jeans, camicie colorate a scacchi, giubbotti di pelle, e foulard. Glielo permettevano perché era uno tosto, uno dei migliori. Lavorava da tre anni nell’ufficio di polizia giudiziaria della Procura, a stretto contatto con Sparviero, e aveva imparato presto a conoscere le sfaccettature del suo carattere spigoloso e le tollerava perché in fondo lo stimava, o forse gli faceva solo tenerezza.

    Non aveva amici Ubaldo Sparviero, non era sposato e pare non avesse neppure una fidanzata. O meglio: nessuno lo sapeva, e nessuno l’aveva mai visto con una donna. Era figlio unico e suo padre e sua madre vivevano da soli nel paesino di Calabria affacciato sullo Jonio dove erano nati e cresciuti, senza mai essersi allontanati.

    «È già qui? Se è già qui lo faccia entrare» disse infine Sparviero.

    L’ispettore Scannella annuì e si avviò. I suoi passi riecheggiarono sotto il tacco degli stivali di pelle, in quella stanza dai soffitti alti e antichi come l’edificio quattrocentesco che prima ospitava un convento e da almeno mezzo secolo il palazzo di giustizia di Rammusa.

    Stefano era seduto nell’anticamera su una panca di legno, in mezzo ai due poliziotti che lo avevano accompagnato a casa a cambiarsi. Si era messo una camicia e una giacca, ma continuava ad avere un aspetto trasandato.

    «Macrì entri, il dottor Sparviero la sta aspettando», gli disse l’ispettore.

    «Ispettore, se permette…», fece uno dei due poliziotti scattando in piedi.

    L’agente si avvicinò a Scannella per evitare che Stefano sentisse.

    «Devo prima conferire col dottore, è urgente.»

    L’ispettore capì e lo fece passare.

    «Dov’è Macrì?» chiese subito il magistrato quando si vide spuntare il poliziotto.

    «Dottore, devo farle vedere una cosa…» fece l’agente mentre tirava fuori dalla giacca una busta trasparente che conteneva una polvere bianca.

    «Guarda guarda, cocaina?»

    «Purissima dottore», chiosò il poliziotto nella sua malcelata soddisfazione.

    «Dove l’avete trovata?»

    «Nella mansarda del ragazzo, dentro a una scatola di cereali.»

    «Quanto sarà a occhio e croce?» chiese il magistrato.

    «Una decina di grammi.»

    «Un po’ troppa per uso personale, non crede?»

    «Bè, dipende. Consideri che una striscia per una sniffata può arrivare anche a un grammo.»

    «Bene bene, fate passare il giovanotto.»

    L’ispettore chiamò Stefano Macrì. Il ragazzo si mosse lentamente con l’aria stordita di chi non capisce cosa stia succedendo.

    «Si accomodi e abbia pazienza, l’ho fatta chiamare subito per guadagnare tempo. Se vogliamo acciuffare gli assassini di suo padre e sua madre dobbiamo fare in fretta, non possiamo concedere loro altro vantaggio.»

    Stefano si sedette senza dire niente. Continuava a guardare per terra, si sentiva come dentro a un incubo. Aveva ancora davanti la scena straziante dei corpi di suo padre e di sua madre trucidati e cercava di scacciarla via sforzandosi di ricordarli negli anni felici della sua fanciullezza. La voce baritonale del magistrato, che stonava in quel corpo mingherlino, lo distolse.

    «Dunque, io comprendo il suo dolore, ma confido nella sua intelligenza. Ho bisogno di rivolgerle alcune domande.»

    Stefano non mosse un muscolo della faccia.

    «Mi ha sentito? Non perdiamo altro tempo, la prego. Mi dica: che lei sappia i suoi genitori avevano mai ricevuto minacce? Avevano debitori? Creditori?»

    Stefano solo allora sollevò lo sguardo e cercò gli occhi piccoli del magistrato.

    «Ma… ma che domande… che domande sono?» balbettò voltandosi a cercare alle sue spalle la faccia dell’ispettore Scannella, seduto dietro a uno scrittoio, impegnato a battere sul computer il resoconto dell’interrogatorio.

    «Senti Stefano…» si inalberò il dottor Sparviero scattando in piedi e passando a dargli del tu, «...qui le domande le faccio io! Tu devi limitarti a rispondere, se vuoi che la

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