La "Comune" di Parigi. Otto conferenze: Raccolta di otto conferenze
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La "Comune" di Parigi. Otto conferenze - arturo labriola
La Comune di Parigi e il problema della rivoluzione. Un’introduzione storica e teorica - di Marco Montelisciani
Non avere paura di riconoscere le sconfitte. Imparare dall’esperienza delle sconfitte. Rifare con più cura, con maggior cautela e più sistematicamente ciò che è stato fatto male. Se noi ammettessimo che riconoscere una sconfitta determina sconforto e indebolisce il vigore della lotta con la resa di una posizione, allora bisognerebbe dire che rivoluzionari di tal fatta non valgono un soldo.
[Lenin, Relazione alla VII Conferenza del Partito del Governatorato di Mosca,
in Opere complete vol. XXXIII, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 77.]
Il volume che viene qui pubblicato raccoglie la trascrizione di otto conferenze tenute da Arturo Labriola nel 1906, in occasione del trentacinquesimo anniversario della Comune di Parigi. Per chi, come gli uomini e le donne di questa nostra contemporaneità, ha avuto in sorte di vivere in un tempo post, in un «tempo senza epoca» [1] , nel quale si presentano «davanti a noi solo avvenimenti, niente eventi» [2] , può risultare persino spiazzante l’approccio all’insieme degli avvenimenti di cui questo libro tratta e al modo politico, parziale, partigiano, ma non per questo privo di rigore, in cui l’autore ne dà conto. Appunto, perché l’insieme degli avvenimenti qui narrati, analizzati e commentati costituisce un evento, inteso come un fatto nel quale e attraverso il quale si esprime una forza capace di dire l’epoca. Un evento che si frappone nel preteso continuum della storia, per sostituire alla consolatoria apparenza di uno scorrere la realtà conturbante di un irrompere. In questo irrompere che dice l’epoca, che impone un ritmo nuovo e diverso al movimento che gli esseri umani compiono nel terreno discreto e nient’affatto fluido della storia, risiede l’arcano della Comune di Parigi, del suo fascino, della persistenza del suo mito, dell’interesse e dei dibattiti che, dopo centocinquanta anni, ancora oggi suscita.
Il bagno di sangue proletario riservato a Parigi dalla reazione del governo repubblicano di Thiers chiude il secolo breve delle rivoluzioni in Francia. Il lampo del 1789 aveva svegliato la vecchia Europa dal torpore aristocratico; la caduta della testa coronata di Luigi XVI aveva indignato e spaventato le dinastie del continente, che giustamente colsero, in quell’atto e in quella rivoluzione, un messaggio di portata universale che travalicava i confini di una nazione; una minaccia esistenziale per le classi che avevano fino ad allora dominato su popoli e territori; uno squillo di tromba che, sotto il vessillo dell’ égalité borghese, annunciava l’avvento di un mondo nuovo. La reazione delle monarchie europee fu tremenda, tanto da costringere prima il popolo francese a una eroica resistenza e controffensiva in armi (dal 1793) e poi la Rivoluzione a ripiegare su sé stessa, a negare il proprio principio repubblicano, a farsi Impero. L’epopea napoleonica – la storia della lotta delle forze dell’ ancien régime per soffocare la rivoluzione borghese e della rivoluzione borghese per autoaffermarsi di fronte e contro l’ ancien régime nel campo di battaglia europeo – fu una immane tragedia per la Francia e per il continente. Dei circa 30 milioni di abitanti che poteva contare la Francia a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo [3] , furono 1,3 milioni quelli che, arruolati negli sterminati eserciti napoleonici tramite la coscrizione obbligatoria di massa, non sopravvissero. In tutto, quella stagione sanguinosa costò all’Europa quasi 5 milioni di vite umane tra soldati e civili appartenenti a tutte le forze in campo. Mai l’Europa aveva assistito a una simile catastrofe, che rimarrà insuperata, per impatto e proporzioni, fino ai due conflitti mondiali del secolo successivo [4] .
Solo in maniera effimera, dopo Lipsia prima e Waterloo poi, le potenze controrivoluzionarie vincitrici si illusero di poter restaurare lo stato di cose anteriore al 1789. Il fuoco della rivoluzione covava ancora, infatti, sotto le ceneri del defunto Impero. Il mito dell’89 muoveva le coscienze e gli intelletti dei segmenti più moderni, dinamici e avanzati della società europea: un quarto di secolo di rivoluzioni, guerre, tragedie di massa e profonde trasformazioni sociali non era trascorso invano e nuove esplosioni si preparavano. La prima replica rivoluzionaria si fece attendere, in Francia, per soli quindici anni.
La dinastia dei Borbone, reinsediata sul trono di Francia nella persona di Luigi XVIII per volontà delle altre case regnanti europee, fu dapprima costretta a concedere almeno il simulacro di istituzioni e libertà liberali a una società ormai abitata nel profondo dalle idee della rivoluzione e da una borghesia che aveva già sperimentato sia la gestione del potere politico sia l’emancipazione dai vecchi vincoli feudali, e che difficilmente poteva accettare il ritorno sic et simpliciter dell’assolutismo e dell’ ancien régime. Quando però, nel 1824, a Luigi XVIII successe Carlo X, insofferente agli elementi liberali della Carta del 1814, l’equilibrio della restaurazione mostrò tutta la sua fragilità. A farlo crollare bastò il tentativo del Primo Ministro Polignac di far approvare con le Ordinanze di Saint-Cloud del 1830, una serie di provvedimenti che – tra l’altro – comprimevano la libertà di stampa, restringevano i criteri censitari del suffragio e sfidavano il Parlamento a maggioranza liberale, imponendo lo scioglimento di un’assemblea appena eletta e non ancora insediata. La protesta contro quello che veniva visto come un tentativo di ripristinare l’assolutismo sfociò nelle tre giornate di luglio, al termine delle quali la dinastia dei Borbone, espressione dei vecchi ceti agrari e dei latifondisti, fu finalmente destituita dall’insorgenza di elementi sociali popolari e borghesi, liberali e democratici, radicali e conservatori, repubblicani e monarchici costituzionali. Al suo posto, fu instaurata la monarchia di Luigi Filippo d’Orléans, espressione dei nuovi ceti dell’alta borghesia e dell’aristocrazia finanziaria.
A proposito dei rapporti politici e di classe che si instaurarono con la Monarchia di luglio, sulle contraddizioni emergenti all’interno della stessa borghesia, sul ruolo giocato dallo Stato e dall’indebitamento pubblico in questa dinamica, e infine sul modo in cui si arrivò alla rivoluzione del febbraio 1848 e alla nascita della Seconda Repubblica, non si può che rimandare alla mirabile lettura che di tutto ciò diede Karl Marx ne Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, primo capitolo della sua trilogia di scritti sugli sconvolgimenti politici che riguardarono la Francia del suo tempo. La coalizione di forze sociali e politiche che fu alla base della rivoluzione di febbraio – una volta risolta in favore della borghesia industriale e repubblicana la contesa con la frazione parassitaria, finanziaria e monarchica del capitale – ripropose immediatamente un nuovo più profondo e radicale antagonismo tra le due classi principali della moderna società capitalistica: la borghesia e il proletariato. Marx interpreta da questa prospettiva le convulsioni e i conflitti che da subito attraversarono il Governo provvisorio e poi l’Assemblea costituente della seconda Repubblica francese, fino ad arrivare alla disfatta di giugno, avvenuta quando la maggioranza borghese dell’Assemblea costituente, eletta con le elezioni di aprile, e il nuovo Governo che ne fu espressione, disposero la soppressione dei Laboratori nazionali voluti da Louis Blanc, presidente della Commissione sui temi del lavoro insediata al Palazzo del Lussemburgo (un surrogato di quel vero Ministero del lavoro la cui istituzione le frazioni borghesi non vollero mai concedere). I Laboratori nazionali erano il segno più visibile e politicamente rilevante della preponderante presenza operaia nell’insurrezione di febbraio, nonché il primo sperimentale tentativo di partecipazione operaia alla gestione di una parte della produzione nazionale e di affermazione di quel diritto al lavoro che era stata la principale parola d’ordine delle componenti socialiste della coalizione rivoluzionaria. Facile capire come le frange borghesi del Governo e dell’Assemblea vedessero come una minaccia la forza politica acquisita dalla classe operaia con la rivoluzione; perciò, appena le elezioni ebbero ridotta quella forza, esse lavorarono affinché venissero presto soppressi sul nascere i Laboratori nazionali di Blanc. Ciò spinse gli operai alla sommossa, che si sviluppò in quattro giornate dal 23 al 26 giugno. Fu una disfatta, che la classe operaia parigina pagò con il sangue di migliaia di uomini, con l’estromissione dei suoi rappresentanti dal Governo, con la cancellazione di tutti i provvedimenti a carattere sociale attuati dopo la rivoluzione. Ma quella sommossa sancì anche l’ingresso in grande stile sul terreno della storia europea della moderna classe operaia rivoluzionaria [5] .
Se i mesi immediatamente successivi alla rivoluzione di febbraio avevano dimostrato la radicalità dell’antagonismo esistente «tra le due classi in cui è divisa la società moderna», quelli successivi alla disfatta di giugno dovevano dimostrare che nessuna di quelle due classi aveva in Francia, in quel frangente storico, la maturità politica e la forza di ergersi a classe generale e di esercitare una reale egemonia sulla maggioranza della nazione: «La borghesia aveva già perduto la facoltà di governare la nazione e il proletariato non l’aveva ancora acquistata» [6] , dirà Marx. Parigi, la sua modernità, le sue classi non erano la nazione. La maggioranza numerica del popolo francese era costituita dalla provincia e dai contadini piccoli proprietari, i quali, in assenza di una classe generale capace di guidare egemonicamente l’insieme della società, utilizzarono il suffragio universale conquistato dalla rivoluzione di Parigi per eleggere, nelle elezioni presidenziali del 10 dicembre, il loro presidente: Luigi Bonaparte, nipote di Napoleone. Per Marx, «il 10 dicembre 1848 fu il giorno dell’insurrezione dei contadini
» [7] , addirittura «il colpo di Stato dei contadini» [8] , «una reazione dei contadini, che avevano dovuto pagare le spese della rivoluzione di febbraio, contro le altre classi della nazione; una reazione della campagna contro la città» [9] . Nel secondo capitolo della sua trilogia, Marx dà conto, in maniera memorabile e insuperata, del modo in cui dal 10 dicembre 1848 si arrivò al 2 dicembre 1851 ovvero al 18 brumaio di Luigi Bonaparte; di come la tragedia si ripeté in farsa; di come nuovamente la Repubblica divenne Impero, il Presidente divenne Imperatore e il nipote di Bonaparte divenne quel Napoleone III che condurrà – essendovi a sua volta condotto dal più abile Bismarck – la Francia alla disastrosa guerra del 1870-1871 contro la Prussia, che sarà l’antefatto immediato della Comune. Da qui le otto conferenze pubblicate in questo volume iniziano a ricostruire fatti, avvenimenti, personaggi che condussero al massacro del maggio 1871 che concluse tragicamente la breve esperienza comunarda. La guerra fu una rapida e clamorosa disfatta per la Francia, che a Sédan perse il suo Imperatore, fatto prigioniero e costretto ad abdicare. Mentre la nazione veniva invasa, a Parigi fu proclamata la Repubblica al cui vertice si insediò un governo di Difesa nazionale guidato da un personale politico con idee e storie individuali monarchiche. La capitale assediata voleva resistere, ma ancora una volta si dimostrò che Parigi non era la nazione: la Francia voleva la pace e per ottenerla era pronta ad accettare una capitolazione umiliante; il popolo parigino voleva combattere e si preparava a resistere in armi. Proprio il fallito tentativo da parte del governo di Difesa nazionale di disarmare il popolo doveva lasciare la città nelle mani di questo, che vi instaurò il primo governo socialista della storia.
Si può pensare la Comune di Parigi come l’esito e il drammatico compimento dei decenni convulsi di cui, senza pretesa di esattezza né di esaustività, si è finora provato a restituire un quadro d’insieme, nell’arco dei quali la Francia cambiò per ben sette volte la propria forma di Stato, ogni volta passando attraverso esperienze traumatiche come rivolgimenti interni o sconfitte militari. In questo senso, si può dire anche che la Comune di Parigi chiuda il ciclo delle rivoluzioni borghesi aperto nel 1789 e apra quello delle rivoluzioni proletarie e che dunque, da questo punto di vista, annunci il Novecento. Allo stesso tempo, la Comune rappresenta l’atto finale della lunga epoca in cui la Francia fu il centro propulsivo delle innovazioni politiche in Europa, oltre che la potenza egemone del continente. Dopo l’unificazione tedesca, compiuta proprio in seguito alla sconfitta francese nella guerra del 1870-1871, sarà infatti chiaro che il baricentro politico dell’Europa migrerà da Parigi a Berlino. Ciò sarà vero sia dal punto di vista della politica di potenza degli Stati, sia dal punto di vista della capacità delle rispettive borghesie nazionali di guidare lo sviluppo capitalistico, ma anche dal punto di vista della capacità e forza politica del movimento operaio nonché degli equilibri, all’interno del movimento internazionale, tra le varie organizzazioni rappresentanti i lavoratori dei diversi Paesi.
Sarebbe impossibile in questa sede dedicarsi, con lo scrupolo teorico e filologico necessario, alla disamina delle molte interpretazioni che in questi centocinquanta anni sono state avanzate in merito all’esperienza comunalista. Proviamo qui solo a suggerire alcune linee di riflessione che la vicenda della Comune di Parigi ha aperto o consente di aprire.
La prima di queste linee riguarda il rapporto tra guerra e rivoluzione. In generale la guerra esterna può offrire l’occasione rivoluzionaria e ciò sarà reso evidente anche dalle due grandi rivoluzioni socialiste del Novecento, quella russa e quella cinese. In un senso più specifico, quello che concerne il nesso che intercorse tra quella particolare guerra e la rivoluzione comunalista, è di massimo interesse il modo in cui quel nesso è intervenuto nell’elaborazione che dell’evento fu data dal movimento operaio, dai suoi dirigenti, dalle sue migliori teste pensanti. Fondamentali, da questo punto di vista, rimangono le corrispondenze che intercorsero tra Marx e alcuni suoi interlocutori, primo fra tutti Engels, sulla guerra franco-prussiana.
Lo sguardo di Marx è duplice. Da un lato, come teorico della classe operaia, osserva con distacco il processo storico che si sviluppa sotto i suoi occhi, tentando di comprenderne la natura, prefigurarne i possibili esiti, anticiparne le tendenze per collocare il pensiero all’altezza della dinamica storica e oltre la contingenza. Dall’altro lato, ragionando come dirigente del movimento operaio europeo e dell’Associazione internazionale dei lavoratori (AIL), egli si pone il problema di costruire una linea politica per le classi operaie dei due paesi belligeranti e per le sezioni locali dell’Internazionale, che quelle classi operaie avevano il compito di organizzare politicamente. Per quanto riguarda questo secondo aspetto, Marx si sforza di proporre all’AIL una linea coerente con l’internazionalismo che essa professa: condanna della guerra di aggressione portata avanti dalla Francia di Napoleone III e, per conseguenza, indicazione alla classe operaia tedesca di partecipare «al movimento nazionale», ma solo «nella misura in cui si limiterà e solo fino a quando si limiterà alla difesa della Germania» [10] . Il punto era evitare che la contrapposizione degli Stati e la conseguente ventata nazionalista sollecitata dalle classi dominanti producessero fratture all’interno del proletariato europeo, che invece doveva costruire un’unica grande alleanza transnazionale di lavoratori nello spirito dell’Internazionale. Rimaneva valido il motto con il quale, ventidue anni prima, Marx ed Engels avevano chiuso il Manifesto comunista: «proletari di tutti i Paesi unitevi!». Tale orientamento sarà coerentemente assunto, come si vede nelle appendici allegate da Arturo Labriola alla prima delle conferenze pubblicate in questo volume, sia dalla sezione parigina dell’Internazionale sia da quella berlinese. Ex post, non si può non segnalare che lo stesso non accadrà nel 1914, quando in seno alla Socialdemocrazia tedesca – il più grande partito operaio d’Europa e primo partito del Parlamento tedesco, seppure all’opposizione – prevalse un orientamento sciovinista che la portò a votare in favore della concessione dei crediti di guerra al Governo del Reich.
Per quanto riguarda lo sguardo del Marx teorico, invece, va sottolineato come gli eventi bellici legati alla politica di potenza degli Stati siano costantemente visti con vivo interesse in una prospettiva squisitamente di parte: Marx si pone il problema di quale, tra i possibili esiti della guerra, sarebbe il più favorevole per le prospettive politiche della classe operaia. È da questo peculiare punto di vista, che tiene insieme teoria e strategia, teoria e prassi, che egli auspica una vittoria prussiana. Marx, infatti, confida nella riuscita del tentativo di unificazione nazionale della Germania portato avanti dal cancelliere Bismarck, del quale la guerra è un passaggio decisivo. Già quattro anni prima, durante la guerra tra Prussia e Austria, Marx ed Engels avevano discusso in una loro corrispondenza della situazione tedesca. In una lettera del 25 luglio del 1866, Engels enfatizzava la possibilità che l’unificazione politica della Germania portasse al superamento dei localismi che costringevano l’organizzazione politica dei partiti operai al di sotto dell’altezza dei problemi posti dallo sviluppo capitalistico; Marx chiosava, nella sua risposta datata 27 luglio, che «per i lavoratori, ovviamente, tutto ciò che centralizza la borghesia è un vantaggio» [11] . Simili concetti Marx ed Engels esprimeranno anche nel 1870. In particolare, in una lettera a Engels del 20 luglio, Marx affermerà che «se vincono i prussiani, l’accentramento dello state power sarà utile per l’accentramento della classe operaia tedesca» [12] .
Il tema del rapporto tra centralizzazione e localismo – rispetto al quale, per quanto riguarda lo Stato borghese, il proletariato deve dunque, a giudizio di Marx, compiere una scelta netta a favore della centralizzazione – entrerà in gioco anche nelle riflessioni sulla Comune, la quale come è noto e come si vedrà nel volume, opera una forte critica dello Stato centralizzato. Scrive Marx:
A misura che il progresso dell’industria moderna sviluppava, allargava, accentuava l’antagonismo di classe tra il capitale e il lavoro, il potere dello Stato assumeva sempre più il carattere di potere nazionale del capitale sul lavoro, di forza pubblica organizzata per l’asservimento sociale, di uno strumento di dispotismo di classe. Dopo ogni rivoluzione che segnava un passo in avanti nella lotta di classe, il carattere puramente repressivo del potere dello Stato risultava in modo sempre più evidente. [13]
L’Impero è, da questo punto di vista,
[…] l’ultima forma di quel potere statale che la nascente società della classe media aveva incominciato ad elaborare come strumento della propria emancipazione dal feudalesimo, e che la società borghese in piena maturità aveva alla fine trasformato in strumento per l’asservimento del lavoro al capitale. La Comune fu l’antitesi diretta dell’Impero. [14]
Durante l’Impero, infatti, il potere dello Stato era fortemente centralizzato e «apparentemente librato al di sopra della società, era esso stesso lo scandalo più grande di questa società e in pari tempo il vero e proprio vivaio di tutta la sua corruzione» [15] . Per questo la classe operaia non poteva «mettere semplicemente la mano sulla macchina dello Stato bella e pronta, e metterla in movimento per i propri fini» [16] . Il moderno Stato nazionale centralizzato, nella sua forma e nella sua struttura, porta in sé la matrice della classe per iniziativa della quale fu edificato, del suo orizzonte ideologico, dei suoi obiettivi strategici e politici, dei suoi interessi economici. La classe operaia non può accontentarsi di prendere lo Stato per come lo ha costruito la borghesia; essa deve spezzarlo nei suoi interni meccanismi di funzionamento, per rifondarlo daccapo sulla base di altri princìpi. Lo Stato operaio non nasce dunque, per Marx, in continuità con lo Stato borghese: né tramite una riforma che avvenga restando all’interno della sua intima logica, né tanto meno come esito spontaneo del dispiegamento del suo principio repubblicano.
In questo senso, e non in un senso autonomistico e federalistico, Marx interpreta la critica dello Stato centralizzato di cui la Comune fu portatrice.
La Costituzione della Comune è stata presa a torto per un tentativo di spezzare in una federazione di piccoli Stati, come era stata sognata da Montesquieu e dai girondini, quella unità delle grandi nazioni, che se originariamente è stata realizzata con la forza politica, è ora diventata un potente fattore di produzione sociale. L’antagonismo tra la Comune e il potere statale è stato preso a torto per una forma esagerata della vecchia lotta contro l’eccesso di centralizzazione. Speciali circostanze storiche possono avere impedito in altri paesi lo sviluppo classico della forma borghese di governo che si è avuta in Francia e possono avere permesso, come in Inghilterra, di completare i grandi organi centrali dello Stato con corrotti consigli parrocchiali, con consigliere comunali trafficanti, feroci custodi della legge dei poveri nelle città e magistrati virtualmente ereditari nelle campagne. La Costituzione della Comune avrebbe invece restituito al corpo sociale tutte le energie sino allora assorbite dallo Stato parassita, che si nutre alle spalle della società e ne intralcia i liberi movimenti. […] In realtà la Costituzione della Comune metteva i produttori rurali sotto la direzione intellettuale dei capoluoghi dei loro distretti, e quivi garantiva loro, negli operai, i naturali tutori dei loro interessi. [17]
Il punto per la Comune, dunque, non era rompere l’unità nazionale francese, cosa di cui l’accusavano i suoi avversari, ma ricostruirla su basi nuove [18] . Ciò che la Comune voleva era costruire uno Stato che non fosse più funzionale al dominio borghese sul resto della società e nemmeno, banalmente, al dominio uguale e contrario di un’altra classe. La Comune avrebbe edificato uno Stato che facesse della direzione politica della classe operaia una tappa per giungere al superamento di quella separazione tra Stato e società civile – che era in realtà la sussunzione dell’uno sotto l’altra e il cui contenuto specifico era l’irruzione della classe borghese nello Stato – che Marx, sin dai suoi scritti giovanili [19] , aveva individuato come un tratto specifico della moderna società borghese. In questo senso, la Comune
fu una forma politica fondamentalmente espansiva, mentre tutte le precedenti forme di governo erano state unilateralmente repressive. Il suo vero segreto fu questo: che essa fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta di classe dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma politica finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l’emancipazione economica del lavoro. [20]
Così, a partire dalla riflessione sulla Comune, siamo posti di fronte alla questione cruciale della dittatura del proletariato, del suo significato, delle sue forme, dei suoi scopi. Una forma di governo la cui essenza sia di essere il governo della classe operaia è tale perché in essa non solo si può, ma si deve compiere l’emancipazione economica del lavoro. Infatti «il dominio politico dei produttori non può coesistere con la perpetuazione del loro asservimento sociale» [21] . L’elemento della possibilità indica che non c’è nulla di necessitato o predeterminato nel passaggio dal governo della classe operaia al socialismo compiuto, cioè al superamento dell’asservimento sociale dei lavoratori; quello del dovere, d’altra parte, indica che il governo della classe operaia – la dittatura del proletariato – si instaura dandosi quel fine precipuo. Nello scarto tra la possibilità e il dovere del superamento del sistema dello sfruttamento, si aprono un nuovo spazio e un nuovo tempo, un nuovo terreno e una nuova stagione della lotta di classe. Infatti,
La Comune doveva dunque servire da leva per svellere le basi economiche su cui riposa l’esistenza delle classi, e quindi del dominio di classe. Con l’emancipazione del lavoro tutti diventano operai, e il lavoro produttivo cessa di essere un attributo di classe. [22]
La presa del potere da parte della classe operaia, che spezza la macchina dello Stato borghese e ne edifica una nuova, è dunque propedeutica e necessaria al superamento della società capitalistica, ma non è sufficiente. Presa del potere e superamento della società capitalistica non sono contestuali né sussiste tra loro un nesso di causalità meccanica, ma al contrario hanno tempi differenti e non necessariamente all’una segue l’altro. Il potere politico è una leva, uno strumento che va utilizzato dalla classe operaia contro una società civile che non solo è e resta ancora capitalistica e borghese, ma oppone resistenza al processo rivoluzionario. La presa del potere politico da parte della classe operaia, dunque, determina un dualismo antagonistico di potere politico operaio e situazione sociale borghese, di classe politica e classe economica, che riproduce il dualismo tipico della prima modernità europea, in cui coesistevano in maniera antagonistica una borghesia egemone nella società civile e una aristocrazia egemone nello Stato. La rivoluzione borghese aveva rappresentato l’irruzione della classe economica nello Stato e la fine del dualismo; la rivoluzione operaia ripristina il dualismo di politica ed economia, rimettendo così in moto la storia che la borghesia aveva dichiarato conclusa. L’antagonismo permane, dunque, dopo la rivoluzione, ma viene riproposto a un diverso livello: prima il proletariato, sussunto sotto i rapporti economici e sociali borghesi, lotta dal basso contro quei rapporti e contro il potere politico ridotto a