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La casa che respirava ancora
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La casa che respirava ancora

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About this ebook

Un giallo intrigante, tra gli inquietanti bagliori della casa cantoniera nel cremonese, la maestosità dell’Etna e le meraviglie della Valle dei Templi.

Il romanzo si svolge in parte nelle terre della bassa Pianura Padana, in parte in Sicilia, tra Catania e Agrigento e si sviluppa su due binari che sembrano correre paralleli, ma al termine si incontreranno per svelare un finale inaspettato.

Tutto inizia con il ripetuto avvistamento di strane luci in una casa cantoniera nel cremonese, abbandonata da anni, pericolante e semidistrutta dal tempo. Due sorelle, Eva e Sofia, iniziano a indagare sullo strano fenomeno, sempre più convinte che non possa esserci nulla di soprannaturale.

Intanto in un palazzo di Catania vengono uccisi prima un piccolo gatto e successivamente il suo padrone, Peppino. L’inquietudine serpeggia tra i vari condomini e si fa strada il pregiudizio, quella insana attitudine a giudicare senza prove concrete. Ne fa le spese Domenico, un uomo buono, cugino di Romeo, maresciallo della caserma dei Carabinieri di Vescovato. Il militare, le due sorelle e altri cinque amici volano in Sicilia per una settimana di vacanza che, dopo le prime ricerche svolte dal gruppo per aiutare Domenico, verrà sconvolta da continue minacce di un’ombra misteriosa che conosce sempre le mosse del gruppo.

Suspense, intrighi, delitti e ombre creeranno il terreno per emozionare il lettore che rimarrà stupito anche per una delicata sorpresa finale…
LanguageItaliano
Release dateNov 7, 2022
ISBN9791222020204
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    La casa che respirava ancora - Michela Guindani

    -1-

    Avevano deciso di rompere la monotonia delle fredde serate invernali dandosi appuntamento per pianificare le vacanze estive. Così, Sofia e Nikolas, Eva con Andrea e gli altri due amici, Gianni e Achille, si ritrovarono al bar di Cicognolo per scambiarsi idee e proposte.

    «E se facessimo a luglio un viaggio a Roma?» esordì con entusiasmo Andrea, innamorato da sempre della Città Eterna.

    «Non saprei, non sono convinta sia una buona idea visitare la Capitale in un mese così caldo» controbatté Sofia. «Roma è bellissima ma credo che la soluzione migliore sia organizzare una vacanza in cui si possano alternare escursioni a relax, visite interessanti a giorni completamente liberi per goderci l’estate.»

    «Vero» convenne Andrea. «Hai ragione!»

    «A me viene in mente la Sicilia» continuò Eva. «In quella regione tutto è possibile e ci divertiremo, oltre a visitare posti nuovi.»

    «Interessante!» intervenne Achille che non aveva praticamente mai fatto una vera vacanza.

    «Ma dobbiamo prendere l’aereo?» chiese Gianni, timoroso della risposta.

    «Direi di sì» rispose Nikolas. «Sarà un viaggio più veloce.»

    «Ricordiamoci di avvertire il maresciallo Romeo e di invitarlo a venire con noi nella sua Sicilia!» puntualizzò Eva.

    La mini riunione proseguì con spunti interessanti ed entusiasmo crescente, poi qualche sbadiglio lasciò intendere che era opportuno tornare a casa.

    Sofia e Nikolas uscirono per primi dal bar. La serata era frizzante come quando erano entrati, forse di più. Un cielo terso e un leggerissimo vento da nord contribuivano a far percepire un freddo più freddo di quanto fosse in realtà.

    «Facciamo un giro in macchina?» chiese Sofia. «Non ho sonno. Ti va di stare ancora una mezz’ora insieme?»

    «Certo, splendida! Dove andiamo?» rispose con una domanda, a sua volta, Nikolas.

    I due giovani erano fidanzati da due anni, da quando si erano conosciuti in circostanze originali, proprio a Cicognolo.

    «A Cremona, ti va?» chiese Sofia. «Non voglio andare in alcun posto in particolare e poi fa freddo. Voglio solo fare due chiacchiere con te.»

    «Va bene. Arriviamo fino alla rotonda della città e poi torniamo.»

    «Perfetto. Aggiudicato!»

    Così i due ragazzi si immisero sulla statale e voltarono verso Cremona. Pochi mezzi transitavano a quell’ora, benché non fosse tardi. La radio accesa a basso volume e il riscaldamento adeguatamente impostato, contribuivano a creare un ambiente perfetto per un po’ di relax. L’auto di Nikolas procedeva a bassa velocità, tanto non c’erano mete particolari da raggiungere.

    «Hai visto, Nikolas, quella luce?» chiese improvvisamente Sofia.

    «No. Quale luce?»

    «In quella casa disabitata! L’abbiamo appena passata. Quella che una volta era dell’ANAS.»

    I ragazzi erano in territorio di Gadesco Pieve Delmona e proprio sulla statale si affacciavano i resti di un rudere in pietra, a due piani, ma senza una parte del tetto, crollato evidentemente sul pavimento sottostante. Era una delle case cantoniere dal caratteristico colore rosso pompeiano, diffuse un po’ su tutto il territorio nazionale, adibite all’epoca a magazzini, oppure ad abitazione del dipendente di ANAS e della sua famiglia. Queste strutture erano nate per ospitare chi aveva il compito di effettuare manutenzione al cantone, un tratto di strada di tre, quattro chilometri nei pressi dell’abitazione. Ebbero centocinquant’anni di vita. Quella cui erano appena passati davanti Nikolas e Sofia era piuttosto decadente, anche se contribuiva a far rimanere vivo il ricordo di una parte della nostra storia recente in chi era giovane nel 1982, anno in cui queste case persero la loro funzione.

    «Sei sicura di aver visto bene?» chiese Nikolas. «Io non mi sono accorto di nulla.»

    «Be’, proprio sicura no. Ma ho la sensazione di aver visto un piccolo bagliore.»

    Seguì un breve silenzio, come se ognuno dei due non sapesse cosa dire. A Sofia non usciva dalla mente quella luce, ma più lei si allontanava dalla casa in rovina, più l’immagine sfumava e la sicurezza svaniva. Stava pensando a quando, per San Lorenzo, si fissa una parte di cielo sperando che passi una stella cadente e poi si ha come la sensazione di aver visto con la coda dell’occhio la stella, passata, fulminea, nella parte di cielo accanto. Ma la certezza non c’è. Rimane la sensazione.

    «Sofia… cosa c’è?» chiese improvvisamente Nikolas.

    Sofia, assorta, fece un breve sussulto: «Niente, amore, ho negli occhi quella luce. Insomma, ma non so se l’ho vista o no. Non ne sono così sicura».

    «Lascia perdere» la incoraggiò il ragazzo. «Quando passeremo ancora davanti a quella casa farai più attenzione e vedrai se la noti di nuovo. Va bene?»

    «Certo, hai ragione. Forse sono solo un po’ stanca. Do i numeri!» e una risata spontanea riempì lo spazio nell’auto, rimbalzando sui vetri e creando un effetto stereo.

    Intanto i due ragazzi erano arrivati alla rotonda del Violino, alle porte di Cremona, e si riportarono sulla corsia del ritorno. Percorsero quindi la strada al contrario per tornare verso casa. Passarono ovviamente di nuovo davanti alla casa cantoniera e a entrambi venne spontaneo guardarla… ma non videro alcuna luce.

    Non ci pensarono più e dopo pochi minuti arrivarono a Cicognolo. Un breve saluto, un bacio e Sofia scese dall’auto.

    -2-

    Era un ex biondo, carattere affabile, scherzoso ma allo stesso tempo mite e riflessivo. Sessantacinque anni portati bene, decisamente in forma, con due grandi passioni: la bicicletta e ancora di più la musica. Così, dopo aver raggiunta la tanto sospirata pensione, Alessandro aveva deciso di dedicarsi ai suoi hobbies. Organizzava uscite con pochi amici, oppure andava solo con la sua due ruote che lo portava dal cremonese fin sulle colline piacentine o verso altre mete che richiedevano comunque fiato e impegno muscolare. Quando il tempo non era favorevole a un’uscita in bicicletta, Alessandro sbrigava le sue faccende domestiche per poi suonare e perdersi tra le note del suo pianoforte. Poteva squillare il cellulare o bussare qualcuno alla porta, ma l’unica certezza era che Alessandro non avrebbe sentito altro che la sua musica. Autodidatta sin da piccolo, i risultati raggiunti erano ottimi, tanto che fu invitato a suonare nella chiesa di Cicognolo in occasione di matrimoni, messe natalizie o pasquali e in altri svariati eventi.

    Da piccolo abitava nel minuscolo paese della bassa padana, ma già adolescente si era trasferito con la famiglia a Cremona e non si era più spostato. Ritornava però spesso nella sua terra di origine, dove aveva molti amici e dove amava rilassarsi in aperta campagna.

    Una sera Alessandro, appena terminate le prove per un matrimonio, stava facendo due chiacchiere sul sagrato con Achille e Gianni, anche se la temperatura non era delle più invitanti a un ritrovo all’aperto.

    «Ehi, ciao!» salutò Nikolas dal finestrino abbassato della sua auto.

    Aveva rallentato, passando davanti al gruppo di amici, fino praticamente a fermarsi. La bolla invisibile di calore che si era creata nella macchina si dissolse rapidamente come se non aspettasse altro che una via di fuga. Sofia, sul lato passeggero, sentì l’aria fredda piombarle addosso ma un saluto proprio non si poteva evitare. Parcheggiata l’auto, i due ragazzi scesero: due chiacchiere si fecero quattro e poi otto, il loro aumento fu esponenziale in quanto l’argomento su cui si concentrò il discorso, nato da una semplicissima domanda di Sofia, fu davvero curioso.

    «Vi è mai capitato di vedere una luce in quella casa cantoniera sulla via Mantova, a Gadesco Pieve Delmona?»

    «No, ma è disabitata» rispose Achille. «Sta cadendo a pezzi.»

    «Lo so, lo so» ribatté Sofia. «È proprio per questo che ve lo chiedo. Se fosse veramente una luce quella che ho visto, direi che è piuttosto strana, be’… direi… inquietante.»

    Poi rivolse lo sguardo verso un punto qualsiasi della palazzina di fronte, come per riacquistare concentrazione e cercare di visualizzare nella mente quel flash e soprattutto per ritrovare la certezza di averlo visto. Più ci pensava, più si convinceva di averlo notato, ma allo stesso tempo, quando cercava di catturare con la mente l’immagine, questa si faceva sempre più evanescente.

    La riportò alla realtà proprio Alessandro: «Su quella casa girarono per anni molte voci che facevano capo all’uomo che ci abitava. È una storia lunga. Se volete vi racconto quello che so, ma un’altra sera; ci troviamo in un bar, oppure a casa di qualcuno di noi, in modo che quello che vi dirò non venga sentito da altri. Insomma, probabilmente si tratta di voci e non vorrei mettere in giro false notizie su una persona già morta».

    «Me lo sentivo che ci doveva essere sotto qualcosa!» concluse soddisfatta Sofia.

    Si salutarono e si diedero appuntamento alla sera successiva.

    Sofia salì in macchina, in parte soddisfatta, ma con un brivido che le percorse la schiena. E non era un brivido di freddo.

    -3-

    Il giorno seguente Sofia e Nikolas riferirono a Eva della probabile luce sulla via Mantova e che si sarebbero incontrati con Achille, Gianni e Alessandro, perché proprio quest’ultimo avrebbe avuto una storia interessante da raccontare.

    «Non è proprio certa d’averla vista» spiegò Nikolas, riferendosi alla sua ragazza. «Ma questa storia della luce la sta prendendo molto.»

    «Più ci penso, invece, e più sono sicura» si difese Sofia.

    «Non è che, a forza di pensarci, ti convinci di aver visto davvero quello che credi di aver visto?» chiese il ragazzo.

    «No» ribatté Sofia. «Devo aver notato davvero qualcosa. Non posso aver immaginato quella luce dal nulla.»

    «Ma sai che forse una volta è capitato anche a me?» sorprese tutti Eva. «Non ho mai detto niente perché non ne ero certa e poi me ne sono scordata. È successo a dicembre. Stavo tornando da Cremona e passando davanti a quella casa, che cade veramente a pezzi, ho avuto l’impressione di vedere una luce, quasi un flash, uscire da una finestra. Il giorno dopo, quando ci sono ripassata davanti, l’ho guardata con più attenzione: ha chiaramente una buona parte del tetto crollato, non ha più infissi e sul davanti proliferano piante selvatiche che nascondono in parte il piano inferiore. Insomma chi o cosa potrebbe provocare una luce al suo interno?»

    Tutto sembrava molto improbabile, ma erano già due le persone che sostenevano di aver visto quel bagliore.

    «Partecipa anche tu questa sera al summit dal titolo La luce misteriosa» disse con enfasi teatrale Sofia. «Vengono tutti qui: Alessandro, Achille e Gianni. Alessandro ci deve parlare di una vecchia storia che riguarda chi abitava in quella casa prima che venisse abbandonata. Non sto nella pelle!»

    «Va bene, volentieri» rispose Eva, incuriosita dal viso eccitato della sorella.

    Il pomeriggio passò velocemente. Sofia chiese alla madre se non avesse qualche commissione da fare a Cremona. Non aveva ancora la patente e non era autonoma negli spostamenti; mai come quel giorno aveva desiderato andare da qualunque parte, purché la direzione fosse quella verso la città e la strada appunto la via Mantova. La madre, che aveva sentito parlare di quella fantomatica luce vista al buio, acconsentì volentieri ad accompagnare la figlia, approfittando di quel breve viaggio per fare tappa al centro commerciale vicino.

    In prossimità della casa cantoniera, Laura rallentò per consentire a Sofia di guardare bene. Ovviamente tutta la struttura sembrava aver perso la sua essenza da tempo. Nessuna traccia di presenza umana. I rovi e le erbacce sul davanti, lato strada, non erano calpestati. Segno che, forse da quando la casa aveva perso i suoi abitanti, solo qualche animale selvatico poteva essere entrato a curiosare o a ripararsi.

    «A proposito, Sofia, ma hai badato che c’è un’altra casa cantoniera proprio a Cicognolo, dopo il distributore?»

    «Davvero‽» rispose la ragazza eccitata. «Non ci ho mai fatto caso. Allora quando torniamo allunghi un po’ verso quella parte, così me la fai vedere?» chiese in modo un po’ ruffiano.

    «Va bene. Se non ricordo male, pur essendo disabitata da tempo, è in uno stato migliore di quella di Gadesco» spiegò Laura.

    «Ma perché sono state abbandonate queste case? Dovevano essere carine all’epoca...»

    «Vennero abbandonate per una questione di costi, credo» rispose la madre.

    Intanto arrivarono alla struttura di Cicognolo e poterono fermarsi proprio davanti, in uno spazio sterrato. Effettivamente la casa si trovava in uno stato migliore dell’altra. Ai loro tempi, non dovevano essere male queste strutture, tutte uguali, e quindi riconoscibili per la loro funzione, ma per questo motivo povere, se così si vuol dire, di una vera identità.

    Un messaggio sul cellulare di Sofia rabbuiò il suo bel viso dalla carnagione chiara.

    «Questa sera non posso proprio venire, scusatemi» scrisse Alessandro.

    «Facciamo un’altra sera?» fu la domanda di Nikolas.

    «Sì, volentieri, sarò libero la settimana prossima.»

    «Sento gli altri e ti facciamo sapere.»

    «Non scordarti di noi!» intervenne Sofia.

    «Ci mancherebbe! Intanto faccio mente locale sulla storia di quella casa in modo da non scordare niente di ciò che a suo tempo si diceva» concluse Alessandro.

    «Ci risentiamo non appena tutti avranno dato la loro disponibilità» concluse Sofia.

    Quella serata, intrigante e curiosa, era stata rimandata poiché non si era riusciti a mettere d’accordo gli impegni di tutti.

    Nel frattempo però il gruppo aveva preso la sua decisione. Quest’anno gli amici avrebbero fatto un ambizioso viaggio in Sicilia, un vero mix tra relax e cultura. In questa terra meravigliosa, del resto, sarebbe stato molto semplice coniugare l’uno all’altra. Si sarebbe trattato solamente di organizzare tutto per bene, lasciando spazio alla libertà di ogni partecipante, ma suggerendo al contempo escursioni interessanti. Due i momenti che sarebbero stati i punti cardine del viaggio: le pendici dell’Etna, con l’augurio di assistere a una sua elegante fumata, innocua ma attraente, e la Valle dei Templi, splendida raccolta di tesori, incantevoli di giorno e affascinanti la notte, grazie a sapienti luci che ne avrebbero esaltato la bellezza classica.

    -4-

    Dall’altra parte dell’Italia, in Sicilia, nella grande Catania, e precisamente in via Pamparini, un palazzo di piccole dimensioni, situato di fronte al mare, da anonimo agglomerato di vite umane, stava per trasformarsi in un luogo che per molto tempo sarebbe stato ricordato dagli abitanti del quartiere e non solo.

    All’interno vivevano due famiglie e tre single: due uomini e una donna. Più un gatto.

    Le famiglie erano paradossalmente più tranquille dei single.

    Domenico, pensionato dopo una vita da infermiere irreprensibile, dal carattere docile ma in grado di reagire anche in modo piuttosto colorito quando la situazione lo avesse richiesto, era primo cugino del maresciallo Romeo Francesco della caserma di Vescovato. Con quest’ultimo aveva passato un’infanzia particolare. Due cugini o meglio... due fratelli. E fino a qui nulla di particolare, se non fosse che Domenico aveva perso la madre quando aveva solo otto anni, travolta davanti ai suoi occhi da un pirata della strada.

    Il maresciallo, da allora, benché di quattro anni più giovane, si sentiva investito di un grande onere: colmare, come meglio gli fosse possibile, quel vuoto improvviso e crudele che il destino aveva riservato a suo cugino. E poi quando si cresce con un senso di protezione verso una persona cara, non si termina la missione per sopraggiunti limiti di età. La missione continua in realtà per tutta la vita. Il lavoro aveva portato il maresciallo Romeo lontano dalla sua terra, mentre Domenico aveva deciso di restare in quei luoghi, ricordi di dolore, ma anche indomabili fonti di energia, perché il mare e quel vulcano, amico della gente, gli scorrevano dentro e gli erano indispensabili come l’aria nei polmoni. Era un uomo elegante nell’aspetto e nei modi, gentile e disponibile. Insomma, quella che si dice una bella persona.

    Viveva in un appartamento sobrio, a fianco di Peppino, e costantemente il gatto di quest’ultimo dormiva davanti alla sua porta. Povero gatto, quell’Etneo! Probabilmente non aveva mai visto il mare…

    Peppino l’aveva trovato che vagava tra i sassi, sulle pendici del vulcano. Un giorno, mentre in pausa pranzo si stava fumando una sigaretta appoggiato a una staccionata, a circa duemila metri, l’uomo vide, verso valle, qualcosa muoversi sulle pietre. Poi nulla. Lo sguardo cercava incuriosito cosa fosse quell’ombra. Un sasso in movimento? Praticamente impossibile. Eppure era certo che ci fosse qualcosa. Concentrò lo sguardo su alcuni metri quadrati davanti a lui, fino a quando ebbe finalmente la conferma di ciò che prima era solo una sensazione. Nero anche lui come la pietra lavica, un piccolo gatto vagava spaurito e affamato. Curioso e opportunista, l’animaletto si era avvicinato a Peppino, forse nella speranza di trovare qualcosa da mettere sotto i denti. L’uomo, che aveva un piccolo negozio di souvenir a duemila metri, in una delle casette di legno sistemate tutte in fila per accogliere e accontentare i turisti, riuscì a farsi seguire dal gatto fin dentro il suo bazar e qui mise a terra gli avanzi del suo pranzo. L’animale, di poche pretese, dimostrò di apprezzare e spazzolò tutto in pochi secondi.

    Da lì all’adozione di Etneo, il passo fu brevissimo. Etneo naturalmente in onore della montagna più cara ai siciliani. Ma dopo pochi giorni, per comodità di pronuncia, il nome cambiò in ET, come il famoso extraterrestre di Spielberg. La sua casa divenne l’appartamento di Peppino, che si trovava a fianco di quello di Domenico, a sua volta di fronte a quello di un’anziana signora, Ninetta.

    «ET… Dove sei?» urlava ogni volta che doveva uscire e non lo trovava.

    ET non sempre rispondeva ai richiami; a volte sì, veniva e si strusciava contro la gamba del suo burbero padrone, come solo i gatti sanno fare. Altre volte però non si faceva proprio vedere e Peppino, sempre in ritardo, non perdeva troppo tempo a cercarlo. Anche perché non l’avrebbe mai trovato. ET. infatti, non appena la porta rimaneva socchiusa, usciva sul pianerottolo e poi saliva e scendeva le scale come se andasse ogni volta a esplorare nuovi mondi. Il gatto, da quando fu trovato sulle pendici dell’Etna, non mise più fuori le zampette dal condominio. Peppino era troppo indaffarato a vendere souvenir e non avrebbe avuto il tempo per andare a cercare il piccolo felino in giro per il quartiere. Del resto, chi non sa dell’esistenza di qualcosa, non la desidera, pensava l’uomo. Così ET, che con il passare del tempo aveva sicuramente dimenticato dove era stato trovato, credeva che il mondo fosse tutto racchiuso nell’appartamento di Peppino e, perché no, nel resto del condominio, sui diversi pianerottoli, davanti alle porte dei vari condomini, sui loro zerbini, qualche volta nei loro vasi di fiori.

    Non sempre i vicini erano contenti del libero scorrazzare del gatto. Non che questo disturbasse eccessivamente. È che a volte, poveretto, non sapeva dove andare per le sue esigenze fisiologiche… Così si arrangiava come poteva e i vari condomini subivano. Spesso se la prendevano con il suo padrone perché erano stanchi di doversi adattare alla routine quotidiana del micio. A volte arrivava, soprattutto da Ninetta, qualche colpo di saggina che sfiorava appena l’incolpevole gatto. Era una vedova, vecchio stampo, di quelle che dovevano avere tutto in ordine e nessuno poteva alterarne l’equilibrio; un po’ manesca e molto tirchia, qualunque cosa dovesse comprare era troppo cara per lei. Utilizzava tutto fino a quando non fosse proprio da buttare, nulla andava sprecato, neppure lo zerbino ormai sfatto, sul quale a volte ET si accovacciava.

    -5-

    Sofia non vedeva l’ora di ascoltare Alessandro. Si erano riuniti all’oratorio e il don si era seduto con loro; finalmente era arrivato il giorno in cui tutti erano liberi.

    «Chi ha abitato quella casa cantoniera? E che nesso può esserci con le luci che penso di aver visto?» chiese impaziente Sofia.

    «Andiamo con ordine» rispose Alessandro che, dopo un caffè, si sentiva pronto a fare l’oratore della serata, pur sapendo che qualcun altro dei presenti, esclusi i ragazzi, avrebbe potuto far riemergere ricordi.

    «Innanzitutto vi riferisco ciò di cui si parlava, ma non posso sapere quanto ci fosse di vero. Forse sanno qualcosa anche Gianni e Achille…»

    «Va bene! Comincia, dai!» incalzò Sofia.

    «Allora, si diceva che ci abitasse un uomo soprannominato, in dialetto cremonese, el PES. Nessun riferimento a un pesce, naturalmente. Questo soprannome era in realtà l’acronimo di Piccolo Egoista Superstizioso; piccolo non era in senso affettuoso, ma si riferiva alla sua statura. Teo, credo si chiamasse, era piuttosto basso: dicono non arrivasse a un metro e sessanta e fin qui non era colpa sua. Quanto agli altri due aggettivi, be’… questi riguardavano proprio il suo modo di essere. Io all’epoca avevo venticinque anni e non mi interessavo assolutamente a lui; Teo era oggetto di chiacchiere più dei suoi coetanei, i sessantenni di allora. Dicevano fosse un egoista di prima categoria e confondesse la religione con la superstizione. Sentivo raccontare da mia madre che la sua povera moglie, Teresina, si era gravemente ammalata e lui, anziché assisterla, andava a giocare a carte nei bar dei paesi vicini. Non avevano figli e quella povera donna stava meglio quando veniva ricoverata rispetto a quando era a casa. Sempre sola, non vedeva quasi mai il marito se non quando tornava a casa con mille pretese.»

    «Ma che uomo! Mi vengono i brividi a immaginarlo» commentò Eva.

    «È vero!» intervenne Gianni. «Ricordo quanto sentivo da mio padre. Diceva che Teo non aveva voglia di lavorare e qualunque occasione era buona per stare a casa. Una volta aveva mal di gola, un’altra pioveva e non poteva fare manutenzione al tratto di strada assegnatogli, un’altra volta aveva dolori addominali, un’altra c’era troppo umido o faceva freddo. Credo che Anas non avesse un altro dipendente così fannullone, per sua fortuna!»

    I quattro ragazzi, attorno al tavolo dell’oratorio, erano molto interessati al racconto di Alessandro, integrato dai ricordi di Achille e Gianni che stavano risvegliando la loro memoria.

    Tra un caffè e una bibita, la serata si stava rivelando interessante, anche se le ragazze non capivano che relazione potesse eventualmente esserci tra il vecchio abitante della casa cantoniera e le fantomatiche luci viste poco più che un paio di volte.

    «In che senso era superstizioso?» incalzò Eva.

    «Eh, qui credo che il racconto possa farsi interessante, anche se nessuno sembra avere le prove di ciò che sto per dirvi» rispose Alessandro.

    «Dai, allora!» lo incoraggiò Eva. «Prove o non prove, credo che tutti noi ora vogliamo sapere qualcosa di più su quest’uomo.»

    Alessandro riprese, sforzandosi di ricordare il più possibile.

    «Teo, come ho detto, si diceva che confondesse la religione con la superstizione. Si vantava di essere credente anche se non sapeva neppure dove fosse la chiesa del paese. Delle preghiere conosceva a malapena l’inizio. E proprio la sua fama di ignorante e pauroso aveva attratto persone che si approfittavano di lui per interesse. Infatti, ed è qui che ci vorrebbero le prove, si dice che un tipo, un trafficante che non so da dove venisse, avesse portato un quadro raffigurante una versione della Madonna con Bambino a Teo, pregandolo di non mostrarlo a nessuno per evitare che potesse accadergli qualcosa. L’immagine sacra raffigurata gli avrebbe indicato, così disse l’uomo poco raccomandabile, il tempo meteorologico per il giorno dopo, cosicché, se fosse stata prevista pioggia o neve, Teo avrebbe potuto evitare di andare a lavorare. L’uomo aveva fatto leva su uno dei suoi punti deboli. Teo avrebbe dovuto solo interpretare le espressioni, di volta in volta mutevoli, del viso della Madonna. Ma vi rendete conto di quanto stupido dovesse essere quell’uomo per credere a una fandonia del genere?»

    La domanda non attendeva in realtà una risposta.

    Alessandro proseguì: «Quel quadro, di grande valore, era stato

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