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I PROMESSI SPOSI che non hai mai letto prima: Se credi che il bellissimo romanzo del Manzoni non sia di facile lettura, con questa riscrittura l'amerai.
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Ebook828 pages13 hours

I PROMESSI SPOSI che non hai mai letto prima: Se credi che il bellissimo romanzo del Manzoni non sia di facile lettura, con questa riscrittura l'amerai.

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Il famoso romanzo I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, riscritto integralmente in italiano corrente.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateSep 19, 2022
ISBN9791221424744
I PROMESSI SPOSI che non hai mai letto prima: Se credi che il bellissimo romanzo del Manzoni non sia di facile lettura, con questa riscrittura l'amerai.

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    I PROMESSI SPOSI che non hai mai letto prima - Il Riscrittore

    CAPITOLO PRIMO

    Incontro tra don Abbondio e i bravi e spiegazione di come i bravi fossero personaggi realmente esistiti.

    Quel ramo del lago di Como, rivolto a mezzogiorno, tra due catene ininterrotte di monti, fatto di promontori e insenature a seconda che i monti si sporgano o rientrino, quasi d’improvviso si restringe, prendendo forma di fiume che scorre racchiuso tra un promontorio a destra e un’ampia costiera dall’altra parte. E il ponte, che lì congiunge le due rive, sembra rendere ancora più evidente quella trasformazione e segnare il punto in cui il lago termina e l’Adda ricomincia. Per poi riprendere il nome di lago laddove le rive, allontanandosi di nuovo, lasciano l’acqua distendersi e rallentare tra nuove insenature e nuovi promontori.

    La costa, formata dai detriti scaricati da tre grossi torrenti, discende morbidamente appoggiandosi a due monti contigui, uno detto di S. Martino e l’altro, chiamato in lingua lombarda, il Resegone, per via dei sui cucuzzoli messi in fila che lo fanno somigliare a una sega. Infatti non c’è chi non lo distingua subito per la sua strana forma, in mezzo a quella lunga e ampia fila di vette, dagli altri monti di nome meno conosciuti e dalle forme più comuni. Specialmente se lo si guarda di fronte, ad esempio dalle mura di Milano rivolte a settentrione.

    Per un bel tratto la costa sale con un pendio lieve e continuo, poi si spezza in poggi e valloncelli, in rive scoscese e in terrazze naturali, in base all’ossatura dei monti e al lavoro fatto dallo scorrere delle acque.

    In basso, la costa, tagliata dalle foci dei torrenti, è fatta quasi solo di sassi e ciottoli. Per il resto sono campi e vigne, terreni sparsi di ville e di casali. In parte anche boschi che si protendono verso la montagna.

    Lecco, la principale località della zona che dà anche il nome al territorio, giace poco lontano dal ponte e dalla riva, anzi in parte viene a trovarsi proprio sopra il lago, quando questo ingrossa, e oggi è un gran borgo che tende a diventare una città.

    Ai tempi in cui accaddero i fatti che sto per raccontare, quel borgo era già piuttosto importante ed era anche una sorta di castello. Aveva perciò l’onore di alloggiare un comandante e il piacere di ospitare una stabile guarnigione di soldati spagnoli, per i quali le fanciulle e le donne del paese avevano ben imparato a non mettersi troppo in mostra. Di tanto in tanto, quei soldati, accarezzavano la schiena a qualche marito o a qualche padre e, quando finiva l’estate, non mancavano di andare per le vigne a diradare le uve e ad alleggerire i contadini dalle fatiche della vendemmia…

    Dall’una all’altra di quelle terre, dalle alture alla riva, da un poggio ad un altro, c’era, e c’è anche oggi, un continuo saliscendi di strade e stradine. Alcune sono racchiuse tra due muri di pietra, al punto che alzando lo sguardo, non vi si scorge altro che un pezzetto di cielo e qualche cucuzzolo di monte. Altre invece sono elevate su terreni aperti. Da qui la vista spazia su panorami più o meno estesi, sempre ricchi e sempre con qualcosa di nuovo, che variano a seconda del punto in cui ci si trova e della vista che di lì si gode sul vasto paesaggio circondante. E i panorami mutano a seconda che si guardi a distanza o di scorcio, che una cosa o un’altra appaia o resti nascosta, che si scorga un pezzetto di lago piuttosto che un altro, o che si ammiri un ampio e variegato specchio d’acqua.

    Di qua vi è il lago, racchiuso da un lato, o meglio, smarrito in un andirivieni di monti, che poi via via si allarga in mezzo ad altri monti che si aprono allo sguardo e che l’acqua riflette capovolti, coi paesetti posti sulle rive.

    Di là vi è un braccio di fiume, che poi torna ad essere lago e dopo di nuovo fiume, e che va infine a perdersi in un lucido serpeggiare tra monti, i quali l’accompagnano degradando man mano, fino quasi a perdersi anch’essi, dietro l’orizzonte.

    Il luogo stesso da cui si ammira quello spettacolo è esso stesso uno spettacolo. Il monte sotto cui state passeggiando, si apre sopra e intorno a voi, mostrandovi le sue cime e i suoi pendii, ad ogni passo sempre diversi e sempre straordinari e si allarga poi, arricchendosi di nuove vette che diramano da quella che vi era sembrata una sola e unica vetta, e lassù compare ciò che poco prima ammiravate sulla costa. La bellezza, l’ambiente curato dalla mano dell’uomo, attenua piacevolmente l’aspetto selvatico e fa da cornice alla magnificenza di altre vedute.

    Per una di queste stradicciole, la sera del 7 novembre 1628, don Abbondio, parroco di uno dei paesetti sopra citati, se ne tornava bel bello dalla sua passeggiata verso casa (nel manoscritto non si trova né il nome del paese né il cognome del personaggio. Non si trovano lì, né li ho trovati altrove). Egli stava tranquillamente recitando le sue preghiere. Di tanto in tanto, tra un salmo e l’altro, richiudeva il breviario tenendovi in mezzo il dito della mano destra, a mo’ di segnalibro, e messa poi questa nell’altra mano dietro la schiena, proseguiva il suo cammino guardando in terra. Calciava col piede, verso il muro, i sassi che nel sentiero facevano da inciampo, poi, alzato il viso e girato oziosamente gli occhi intorno, pose lo sguardo su una parte di un monte dove la luce del sole, ormai tramontato, infilandosi tra le valli del monte opposto, dipingeva qua e là sulle rocce sporgenti, larghe pennellate irregolari di porpora.

    Aprì poi di nuovo il breviario e, recitandone un altro pezzetto, arrivò ad una curva del sentiero dove era solito alzare di nuovo gli occhi e guardare avanti. Così fece anche quel giorno. Passata la curva, la strada proseguiva diritta, forse un sessanta passi e poi si divideva in due, formando una Y. Il sentiero di destra saliva verso il monte e portava alla casa del parroco, l’altro scendeva nella valle fino ad un torrente. In questo tratto, il muro arrivava solamente ai fianchi del viandante.

    Là, dove il sentiero biforcava, i muri invece di unirsi e formare un angolo, terminavano in un’edicola votiva, su cui erano dipinte certe figure, lunghe e serpeggianti, che finivano a punta. Nelle intenzioni del pittore e agli occhi degli abitanti d’intorno, esse significavano fiamme. Alternate alle fiamme vi erano altre figure difficili da descrivere ma che significavano anime del purgatorio. Anime e fiamme di color rosso mattone, erano dipinte su un fondo grigiastro, in parte scrostato.

    Il prete, svoltato la curva, alzò come d’abitudine lo sguardo verso l’edicola, ma questa volta vide qualcosa che non si aspettava e che nemmeno avrebbe voluto vedere.

    Due uomini stavano uno di fronte all’altro, proprio dove confluivano, per così dire, le due stradicciole. Uno dei due era a cavalcioni del muro basso, con una gamba che penzolava fuori e l’altro piede poggiato sul terreno della strada. Il compare invece era in piedi, con la schiena contro il muro e le braccia incrociate sul petto. I vestiti, il loro modo di fare e ciò che era possibile vedere del loro aspetto da dove il parroco si trovava, non lasciavano dubbi a riguardo di chi fossero.

    Entrambi avevano una reticella in testa che scendeva fin sul braccio sinistro e terminava con un grande fiocco di frange. Sulla fronte, un enorme ciuffo usciva dalla reticella e avevano due lunghi mustacchi arricciati in punta. Sui fianchi pendevano due pistole, attaccate ad una lucida cintura di cuoio mentre sul petto, simile a una collana, penzolava un piccolo corno contenente la polvere da sparo. Inoltre il manico di un gran coltellaccio sbucava da una tasca dei pantaloni ampi e rigonfi, era uno spadone con una gran guardia traforata di lamine d’ottone luccicante e lavorata a formare una lettera.

    A colpo d’occhio si capiva subito che era gentaglia che apparteneva alla categoria dei bravi.

    Questa specie di personaggi, che ora non c’è più, era floridissima in Lombardia, con profonde radici nel tempo. Tanto per farvene un’idea, riporto alcuni episodi autentici, che rivelano gli sforzi compiuti per estinguerla, sforzi risultati però inutili, tanto che quella razza rimase forte e vigorosa.

    Già in data 8 aprile 1583, l’Illustrissimo ed Eccellentissimo signor don Carlo d’Aragona, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranova, Marchese d’Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio e Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitano Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia essendo: …pienamente informato della intollerabile miseria in cui è vissuta e vive questa Città di Milano, per colpa di bravi e vagabondi pubblicava un bando contro di essi: …tutti coloro che sono compresi in questo bando, che sono dei bravi" o vagabondi… siano essi forestieri o della Città, i quali non hanno un’attività, o che avendola di fatto non la esercitano… e che, stipendiati o non stipendiati, si affiancano a qualche cavaliere o a un gentiluomo, ad un ufficiale o un mercante… per fargli favori e coprirgli le spalle, ma in realtà, come si può presumere, sono lì per insidiare altre persone… A tutti questi ordina che nel giro di sei giorni lascino la città, pena la galera per coloro che non obbediscono. Poi lascia agli ufficiali di giustizia le più stranamente ampie e indefinite facoltà per eseguire l’ordine.

    Ma esattamente un anno dopo, il 12 aprile, costui rendendosi conto che: …questa Città è ancora piena di questi bravi… tornati a vivere come prima, con gli stessi metodi, solamente ridotti un po’ di numero emette un nuovo bando, più severo e rigoroso, nel quale tra gli altri ordini si legge: Che qualsivoglia persona, di questa Città o forestiera, venga riconosciuta da due testimoni come un bravo e che abbia questa reputazione anche se non sia comprovabile l’aver effettivamente commesso delitti… per la sola sua reputazione di bravo, senza bisogno di altre prove, venga mandato davanti ai giudici e torturato per ricavargli informazioni… e anche se non confessa nessun delitto, sia messo a remare nelle galee per tre anni, per la sola reputazione di bravo di cui sopra. Tutto ciò, oltre al resto che non ho trascritto, perché: Sua Eccellenza è decisa nel voler essere obbedita da chiunque.

    Nel sentire queste parole, dette da un cotanto autorevole personaggio, così gagliarde, decise e accompagnate da ordini così drastici, siamo fortemente tentati di credere che al solo risuonare di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre.

    Però la testimonianza di un altro signore, non meno autorevole e con titoli non meno altisonanti, ci riporta a una realtà ben diversa. Costui è l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Juan Fernandez de Velasco, Contestabile di Castiglia, Cameriero maggiore di Sua Maestà, Duca della città di Frias, Conte di Haro e Castelnovo, Signore della Casa di Velasco e di quella dei sette Infanti di Lara, Governatore dello Stato di Milano, ecc, ecc. Il 5 giugno dell’anno 1593, anche lui pienamente informato di che danno e rovina siano… i bravi e i vagabondi e di che problema rappresenti questa gentaglia per il bene pubblico ed eludendo la giustizia, di nuovo intima ad essi che, entro sei giorni, sgombrino dal paese. Poi ripete le medesime prescrizioni e intimidazioni del suo predecessore.

    Ma ancora il 23 maggio del 1598, essendo venuto a conoscenza, con il più profondo dispiacere, che… in questa Città e Stato, va crescendo sempre più il numero di questi tipi (bravi e vagabondi) e che di essi, giorno e notte, non si sente altro che di ferite inflitte intenzionalmente, di omicidi e furti e di ogni altro tipo di delitti, resi ancor più facili dall’essere aiutati, questi bravi dai loro capi e protettori… prescrive di nuovo la stessa ricetta, aumentandone la dose, come si fa con le malattie ostinate. Ognuno dunque conclude infine si guardi bene dal contravvenire anche solo in parte al presente bando, perché invece di trovare clemenza in Sua Eccellenza, troverà il suo rigore e la sua ira… essendo risoluta e decisa a far sì che questo sia l’ultimo e definitivo ammonimento.

    Ma meno di due anni dopo, non era di questo parere l’illustrissimo ed eccellentissimo Signore, il Signor Don Pietro Enriquez de Acevedo, Conte di Fuentes, Capitano e Governatore dello Stato di Milano, e aveva le sue buone ragioni: Pienamente informato della miseria in cui vive questa Città e Stato per colpa del gran numero di bravi che in esso abbonda… e deciso ad estirpare una volta per sempre un simile seme tanto malefico… il 5 dicembre 1600 emette un bando anche questo pieno di severissime disposizioni, …con fermo proponimento che con massimo rigore e senza speranza di indulgenza alcuna, siano puntualmente eseguite.

    Dobbiamo però credere che costui non ci mise tutto l’ardore che impiegò nell’ordire intrighi e nell’aizzare nemici contro il suo maggior nemico, Enrico IV. Infatti a tal proposito, la storia ci narra di come riuscì a convincere il Duca di Savoia a muovere le armi contro quel re, facendogli poi perdere più di una città. Di come fece congiurare il Duca di Bairon, che ci rimise la testa. Ma per quanto riguardava il seme tento malefico dei bravi quello continuava a germogliare ancora il 22 settembre dell’anno 1612, data in cui l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Giovanni de Mendozza, Marchese de la Hyonjosa, Gentiluomo ecc., Governatore ecc., pensò seriamente di estirparlo. A tal proposito inviò a Pandolfo e a Marco Tullio Malatesti, regi stampatori camerali, il solito bando, corretto e rafforzato, perché lo stampassero a sterminio dei bravi.

    Ma questi vinsero ancora, per ricevere il 24 dicembre del 1618, i colpi ancora più duri dell’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Gomez Suarez de Figueroa, Duca di Feria, ecc., Governatore ecc.,

    Però non essendo morti neppure per questo, l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Gonzalo Fernandez di Cordova, sotto il cui governo avvenne la passeggiata di don Abbondio, il giorno 5 del mese di ottobre dell’anno 1627, era stato costretto a correggere e a ripubblicare nuovamente il solito bando contro i bravi. Vale a dire un anno, un mese e due giorni prima del nostro memorabile avvenimento.

    E non fu nemmeno questo l’ultimo decreto, ma di quelli che seguirono non è il caso di parlarne, giacché non rientrano nel periodo della storia che stiamo raccontando.

    Accenneremo solo ad uno di essi, del 13 febbraio 1632, nel quale l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, "et Duque de

    Feria per la seconda volta Governatore, ci avvisa che le maggiori scelleraggini siano fatte da quelli che chiamano bravi". Questo basta a farci comprendere che, nel periodo di nostro interesse, di bravi ce n’erano certamente ancora.

    Che i due sopra descritti, stessero aspettando qualcuno, era fin troppo evidente. Ma quel che dispiacque a don Abbondio fu di dover constatare, da certi comportamenti, che l’aspettato era proprio lui. Infatti, al suo apparire, i due si erano guardati in viso, avevano sollevato la testa con un movimento da cui si capiva che si erano detti: è lui. Quello che stava a cavalcioni si era alzato mettendo la gamba sulla strada, l’altro si era staccato dal muro ed entrambi ora gli andavano incontro. Improvvisamente fu assalito da mille pensieri.

    Prima di tutto si domandò se tra lui e quei bravi c’era qualche scappatoia a destra o a sinistra. Ma si rese subito conto che no, non ce n’erano. Subito dopo fece un rapido esame di coscienza per capire se avesse in qualche modo peccato contro qualche potente, qualche vendicativo. Ma, anche se era molto agitato, la sua coscienza tendeva a rassicurarlo.

    I bravi intanto si avvicinavano fissandolo. Mise l’indice e il medio della mano sinistra nel collare come per sistemarlo e, girando le dita intorno al collo, volgeva il viso all’indietro, torcendo la bocca, per sbirciare con la coda dell’occhio fin dove poteva, e capire se dietro di lui c’era qualcun’altro che arrivava. Non vide nessuno.

    Diede un’occhiata al di sopra del muretto, verso i campi. Nessuno. Un’altra occhiata, più prudente, la diede alla strada davanti. Nessuno, soltanto i bravi.

    Che fare? Tornare indietro non poteva più. Darsela a gambe, era come dire prego, inseguitemi o peggio.

    Non potendo schivare il pericolo, decise di affrettarne l’incontro, perché il tempo che passava in quell’incertezza gli era insopportabile e desiderava solo accorciarlo. Affrettò il passo recitando un salmo a voce un po’ più alta, si sforzò di fare il viso più sereno e gioioso che poté e fece ogni sforzo per prepararsi a sorridere. Quando fu di fronte ai due gentiluomini, disse tra sé: ci siamo e si fermò.

    Signor curato attaccò uno dei due, piantandogli lo sguardo dritto in faccia.

    Cosa desidera? rispose subito don Abbondio, staccando gli occhi dal libro che gli rimase spalancato nelle mani come su di un leggio.

    Lei ha intenzione proseguì l’altro, con quel fare minaccioso e iracondo di chi sorprende un suo sottoposto che sta per combinare una balordaggine, lei ha intenzione di maritare domani, Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!

    Ma no… rispose con voce tremante don Abbondio, voglio dire, lor signori sono uomini di mondo, sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero parroco non centra nulla… quelli fanno i loro pasticci tra di loro e poi… e poi vengono da noi, come si andrebbe a riscuotere il salario. E noi… noi siamo solo dei servitori della comunità.

    Mi ascolti bene, gli disse il bravo all’orecchio, ma con tono solenne di comando questo matrimonio non s’ha da fare, ne domani ne mai!

    Ma signori miei, replicò don Abbondio con voce calma e mansueta di chi cerca di convincere qualcuno che è agitato, ma signori miei, vi prego di mettervi nei miei panni. Se fosse per me… sapete bene che a me non ne viene nulla in tasca.

    Orbene tagliò corto il bravo, se la cosa si decidesse a chiacchiere, staremmo qui un secolo. A noi non interessa e non intendiamo più parlarne. Uomo avvisato… ci siamo capiti, no?

    Ma certo, è fin troppo giusto e anche troppo ragionevole ma…

    Ma… lo interruppe l’altro compare che fino ad allora non aveva parlato, ma il matrimonio non si farà, o… e qui tirò giù una gran bestemmia, o chi lo farà, non se ne pentirà solo perché non ne avrà il tempo, e… giù un’altra bestemmia.

    Zitto, zitto riprese l’altro, il signor parroco è un uomo che sa stare al mondo, noi siamo galantuomini e non intendiamo fargli del male. Basta che abbia giudizio. Signor curato, il signor don Rodrigo, nostro padrone, la riverisce caramente.

    Questo nome esplose nella mente di don Abbondio come un fulmine nel bel mezzo di un violento temporale, che illumina per un attimo e in modo confuso gli oggetti e amplifica il terrore.

    Istintivamente fece un gran inchino e disse: Se loro sapessero suggerirmi…

    Oh, noi suggerire a lei, che sa anche il latino! lo interruppe di nuovo il bravo, con una risata tra lo sguaiato e il feroce. Sta a lei! E soprattutto, per il suo bene, non si lasci sfuggire una parola di questo avviso che le abbiamo dato, altrimenti… ehm… sarebbe lo stesso che fare quel matrimonio… Ebbene, cosa dobbiamo riferire all’Illustrissimo signor don Rodrigo?

    I miei rispetti…

    Sarebbe a dire?

    …Disposto… disposto ad obbedire, sempre. proferendo queste parole non sapeva neppure lui se intendeva fare una promessa o un complimento. I bravi le intesero, o mostrarono di intenderle, nella maniera più seria.

    Benissimo! E buona notte signore. disse uno di loro mentre si allontanava con il compagno.

    Don Abbondio, che un attimo prima avrebbe dato un occhio per scansarli, ora avrebbe voluto prolungare la conversazione e la trattativa.

    Signori… attaccò, chiudendo il libro con le due mani, ma quelli senza dargli ascolto si avviarono per strada da cui lui era arrivato e, allontanandosi, intonarono una canzonaccia che preferisco non trascrivere.

    Il povero don Abbondio rimase un momento come incantato, con la bocca aperta. Poi si incamminò sulla stradina che conduceva a casa sua, mettendo a stento una gamba davanti all’altra, come fossero rattrappite.

    Don Abbondio (il lettore l’avrà subito capito) non era nato con il cuore di leone. Fin dai suoi primi anni aveva dovuto comprendere che, a quel tempo, la condizione peggiore era quella di un animale senza artigli e senza zanne, che però, allo stesso tempo, non aveva nessuna voglia di farsi sbranare.

    La forza della legge non proteggeva in alcun modo l’uomo tranquillo, inoffensivo, senza i mezzi necessari per far paura agli altri. Non che mancassero leggi e pene contro le violenze private. Di leggi ce n’erano a bizzeffe. I delitti erano elencati, dettagliati, descritti minutamente. Le pene erano follemente esorbitanti e, se non bastava, potevano essere aumentate quasi in ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso e della moltitudine di esecutori. Le procedure erano studiate apposta per liberare il giudice da tutto ciò che poteva impedirgli di proferire una condanna. Gli stralci che abbiamo riportato dei bandi contro i bravi, sono solo un piccolo, ma fedele saggio.

    Con tutto questo, anzi, proprio per questo, quegli editti ripubblicati e rafforzati di governo in governo, non servivano ad altro che ad attestare l’impotenza dei loro autori. E se producevano qualche effetto, era soprattutto di aggiungere altre vessazioni a quelle che le persone pacifiche e deboli, già subivano dai prepotenti, accrescendo la violenza e l’astuzia di quest’ultimi.

    L’impunità era organizzata e aveva radici che nessun bando poteva toccare né smuovere.

    Le scappatoie e i privilegi di certe classi erano molti, in parte riconosciuti dalla legge stessa, in parte tollerati con silenzio ostile, o denunciati con finte proteste, ma di fatto difesi da quelle stesse classi, per il loro interesse e con gelosia di appartenenza.

    E quell’impunità, minacciata e ferita, ma non colpita a morte dai bandi, ad ogni nuova minaccia e ad ogni nuovo colpo, doveva per forza di cose accrescere gli sforzi e trovare nuove idee per mantenersi viva e vitale.

    Ed era effettivamente così. All’apparire degli editti con cui si intendeva reprimere i violenti, questi trovavano nuove risorse per continuare a fare ciò che quei decreti avrebbero voluto proibire. In definitiva riuscivano solo a creare problemi alle persone semplici, deboli e senza protezione, perché con l’intenzione di tenere sotto controllo tutti, per prevenire o punire ogni delitto, assoggettavano ogni azione del cittadino comune, al volere arbitrario di coloro che dovevano far rispettare la legge, chiunque essi fossero.

    In realtà, chi prima di compiere un'azione criminale aveva preso le sue precauzioni per rifugiarsi in tempo in un convento o in un palazzo nobiliare, dove gli sbirri si sarebbero ben guardati dall’entrare, oppure chi apparteneva a un casato e godeva della protezione della sua potente famiglia, se non di tutto il suo ceto, era libero di far quello che gli pareva e poteva ridersela del baccano fatto da quei bandi.

    Inoltre, alcuni di quelli che erano incaricati di farli rispettare, appartenevano per nascita alla classe privilegiata e altri ne dipendevano per clientelismo. Questi e quelli, vuoi per interesse, vuoi per abitudine, vuoi perché così avevano imparato a fare, o per imitazione, ne condividevano le regole e si sarebbero ben guardati dal contraddirle per amor di un pezzo di carta attaccato agli angoli dei muri.

    E se anche gli uomini incaricati di far rispettare le leggi, fossero stati solerti fino all’eroismo, ubbidienti come monaci e pronti a sacrificarsi come dei martiri, non l’avrebbero comunque avuta vinta, inferiori com’erano di numero rispetto a quelli da sottomettere. In più, probabilmente, sarebbero stati lasciati soli proprio da chi, solo in teoria, imponeva loro di agire. Anzi, proprio tra questi s’annidavano i peggiori farabutti. Inoltre l’attività di quei poveretti incaricati di far rispettare le regole, era disprezzata da quegli stessi che avrebbero dovuto temerli e il loro incarico era considerato spregevole.

    Era perciò naturale che questi invece di rischiare, anzi di buttare la loro vita in un’impresa disperata, vendessero ai potenti il loro chiudere entrambi gli occhi, il loro favoreggiamento. Riservandosi di esercitare la loro autorità e la forza, che pure avevano, solo in quelle occasioni in cui di pericoli non ce n’erano, opprimendo e vessando quindi, solamente persone pacifiche e indifese.

    Colui che vuole far del male, o teme a sua volta di subire malversazioni, cerca ovviamente alleati e compagni. Perciò a quel tempo, vi era la tendenza a raggrupparsi in corporazioni, a formarne di nuove e ognuno si sforzava di accrescere la forza della compagine a cui apparteneva.

    Il clero stava attento a difendere, cercando semmai di accrescere, le proprie impunità, la nobiltà difendeva i suoi privilegi, i militari le loro esenzioni. I mercanti e gli artigiani si raggruppavano in associazioni e confraternite, gli avvocati in una lega, i medici in una corporazione. Ognuna di queste piccole oligarchie aveva una sua forza. In ciascuna di queste, il singolo individuo poteva sfruttare a proprio personale vantaggio, a seconda della propria autorità e abilità, le forze unite di molti. I più onesti si avvalevano di questo vantaggio soltanto per difendersi. Quelli astuti e facinorosi invece, ne approfittavano per ordire faccende losche, che solamente con i loro mezzi personali, non sarebbero riusciti a mettere in atto. E anche per assicurarsi l’impunità.

    Le forze di queste varie corporazioni erano molto disuguali e, soprattutto nella campagna, un nobile facoltoso e violento, attorniato da uno stuolo di bravi e da una popolazione di contadini che per tradizione di famiglia, per interesse personale, oppure costretti, si comportano quasi come dei sudditi o come dei soldati al servizio del loro padrone, deteneva un potere a cui difficilmente un’altra fazione poteva resistervi.

    Il nostro don Abbondio, non nobile, non ricco, meno che mai coraggioso, si era reso conto molto bene e ancora prima di arrivare all’età del buon senso, d’essere in quella società come un vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva perciò ubbidito di buon grado ai genitori, che volevano si facesse prete. A dire il vero non aveva pensato molto agli obblighi e ai nobili fini del ministero a cui si sarebbe dedicato: trovare il modo di vivere con qualche agio e sistemarsi in una classe riverita e potente, gli erano sembrate due ragioni più che sufficienti per quella scelta.

    Ma una classe, qualunque essa sia, non protegge mai il singolo individuo e non lo rassicura che fino a un certo punto. Nessuno viene perciò dispensato dal doversi creare un suo sistema personale. Don Abbondio, che pensava solo alla propria tranquillità, non si curava di quei vantaggi, perché erano troppo difficili da ottenere e per essi occorreva impegnarsi molto o arricchirsi un poco. Il suo sistema consisteva soprattutto nello scansare tutte le controversie e nel cedere a quelle che non poteva schivare, nel mantenere una neutralità disarmata in tutte le guerre che gli scoppiavano intorno, dalle contese, allora molto frequenti, tra il clero e le autorità laiche, tra le autorità militari e quelle civili, tra nobili e nobili, fino alle questioni tra contadini, nate da una parola e risolte a pugni o a coltellate. Se proprio era costretto a prendere le parti di qualcuno, stava con i più forti ma in retroguardia, assicurandosi di far sapere all’altra parte che non era molto contento di essergli nemico. Sembrava quasi volergli dire: Ma perché non siete stati capaci di essere voi i più forti che io mi sarei volentieri schierato dalla vostra!

    Stando alla larga dai prepotenti, tollerando le loro vessazioni passeggere e capricciose, accettando la sottomissione in determinate situazioni, costringendo a forza di inchini e di gioviale rispetto, anche i più burberi e sdegnosi a fargli un sorriso quando li incontrava per la strada, il poveretto era riuscito a passare i sessant’anni senza particolari burrasche.

    Comunque anche lui aveva un po’ di fiele in corpo. Quel suo continuo portar pazienza, quel dare troppo spesso ragione agli altri, i tanti bocconi amari inghiottiti in silenzio, l’avevano esasperato al punto che, se non si fosse un po’ sfogato anche lui, la sua salute ne avrebbe risentito. E giacché c’erano persone intorno a lui che erano incapaci di fare male a una mosca, sfogava su di esse il suo malumore troppo lungamente represso. Così ogni tanto si toglieva pure lui la voglia di dare di matto, sbraitando a torto.

    Inoltre era molto critico verso le persone che non si comportavano come lui, ma solo quando non vi era, neppure lontanamente, il più piccolo rischio che la sua critica lo mettesse in pericolo.

    Il bastonato come minimo era stato un imprudente, l’ammazzato era sempre stato un uomo che sguazzava nel torbido. A colui che si era opposto a un potente per difendere le proprie ragioni e si era ritrovato con la testa fracassata, don Abbondio sapeva sempre come attribuirgli qualche tipo di torto. Cosa non difficile visto che ragione e torto non sono mai così nettamente separati, che le parti non hanno mai solo di questo o solo di quella.

    Soprattutto sentenziava poi contro quei suoi confratelli che, a loro rischio, prendevano le parti di un debole oppresso da un prepotente. Definiva ciò un comprarsi i problemi in moneta sonante, un voler raddrizzare le gambe ai cani. Lo definiva anche e seriamente un immischiarsi in faccende profane a danno della dignità del loro sacro ministero.

    Però ad essi faceva la predica solamente quando erano soli o in un gruppetto ristretto di persone. E più sapeva che quelle persone non se la sarebbero presa troppo per la cose che li riguardavano, tanto più lui ci metteva impeto. Aveva anche una sua personale sentenza con cui amava concludere quel genere di discorsi: a una persona per bene, che badi agli affari suoi e sappia stare al suo posto, non accadono mai incontri spiacevoli.

    Provate ora a pensare miei cari lettori, che immagino non sarete più di venticinque, che segno ha lasciato l’incontro con quei due, nell’animo del nostro povero don Abbondio. Lo spavento per quelle brutte facce, per le parolacce e per la minaccia di un signore, famoso per essere uno che non minaccia a caso. Il suo tanto ricercato quieto vivere, che gli era costato anni di studio e pazienza, crollato in un attimo! E quella scadenza troppo vicina per trovare il modo di uscirne indenni. Un mare di pensieri tumultuosi si agitavano ora nel capo chino di don Abbondio:

    - Renzo non è uno che si fa liquidare con un bel: non se ne fa nulla! Figurarsi, vorrà delle ragioni. E io santo cielo, che posso dirgli? E, e, e… anche lui è una testa: un agnello se non lo si tocca, ma se lo si contraddice… levati! E poi, e poi… perduto dietro a quella Lucia, innamorato come… ragazzacci, che non sapendo più cosa fare, s’innamorano, vogliono sposarsi e non pensano ad altro. Figurarsi se ci pensano ai problemi in cui cacciano un povero parroco. Povero me, ma proprio sulla mia strada dovevano piantarsi quei due e prendersela con me? Cosa c'entro io? Mica sono io quello che vuole maritarsi! Potevo dire a quei due di andare piuttosto a parlare con… Che sfortunato che sono, le cose mi vengono sempre in mente un attimo dopo il momento giusto. -

    Ma a questo punto il nostro prete si accorse che pentirsi di non aver consigliato come perpetrare meglio un atto malvagio, sarebbe stato davvero una malvagità.

    Perciò diresse tutta la sua stizza contro quello che gli aveva tolto la pace. Conosceva don Rodrigo solo di nome e di vista, ma non aveva mai avuto a che fare con lui, se non per toccarsi il petto con il mento nel riverirlo, o per toccare la terra con la punta del suo cappello quando gli s’inchinava davanti, quelle poche volte che l’aveva incontrato per strada.

    Gli era capitato, in più di un’occasione, di difendere la reputazione di quel signore contro chi, sospirando a bassa voce e alzando gli occhi al cielo, malediceva qualche sua malefatta, mentre lui sosteneva fosse un rispettabile cavaliere.

    Ma in quel momento, in cuor suo, lo caricò di tutti gli appellativi che non aveva mai udito attribuirgli da nessun altro, senza metterci in mezzo un amen.

    Giunto che fu alla porta di casa sua, che stava in fondo al paesello, sopraffatto da mille pensieri, mise in fretta nella toppa la chiave che già teneva in mano. Aprì, entrò e richiuse con cautela.

    Ansioso di ritrovarsi in compagnia di una persona fidata, si affrettò a chiamare:

    Perpetua! Perpetua!

    E si avviò nel salotto dove quella sicuramente stava già apparecchiando la tavola per la cena.

    Perpetua era, com’è facile immaginare, la serva di don Abbondio: fedele e affezionata. Che sapeva ubbidire e comandare, a seconda dell’occasione. Che sapeva sopportare, quando era il momento, i brontolii e le balordaggini del padrone e, all’occasione fargli sopportare i propri, che diventavano ogni giorno più frequenti da dopo che aveva superato i 40 anni, l’età prestabilita per essere una perpetua. Era rimasta nubile per aver rifiutato tutti i partiti che le si erano offerti, almeno così diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la prendesse in moglie, che è quello che dicevano le sue amiche.

    Vengo rispose posando sul tavolo al solito posto, il fiaschetto del vino preferito di don Abbondio e si avviò lentamente. Non aveva ancora toccato la soglia del salotto, che lui entrò con un passo così affaticato, con uno sguardo così adombrato, con il viso così stravolto, che non sarebbero stati necessari neppure gli occhi esperti di Perpetua, per capire a prima vista che era successo davvero qualcosa di terribile.

    Misericordia! Cos’ha signor padrone?

    Niente, niente. rispose don Abbondio lasciandosi cadere sulla sua poltrona con lo sguardo assente.

    Come niente?! Vuole darla ad intendere a me, con quella faccia? Qualcosa di brutto è successo di sicuro.

    Per amor del cielo! Se dico niente è niente… oppure è qualcosa che non posso dire.

    Che non può dire neppure a me? Chi si prenderà cura della sua salute? Chi le darà un parere…?

    Povero me! Taci e non perdere altro tempo ad apparecchiare. Dammi solo un bicchiere del mio vino.

    E lei vuole convincermi che non ha niente! disse Perpetua riempiendo il bicchiere e tenendolo poi in mano come se volesse darglielo solo come premio per la confidenza che si faceva tanto aspettare.

    Dammi qua, dammi qua. disse don Abbondio prendendole il bicchiere con la mano tremolante e vuotandolo poi in fretta come se fosse stata una medicina.

    Cosa vuole dunque, che io sia costretta ad andare in giro a chiedere cosa le è accaduto? disse Perpetua dritta davanti a lui, con le mani rovesciate sui fianchi e i gomiti puntati in avanti, fissandolo come se volesse succhiargli il segreto dagli occhi.

    Per amor del cielo! Non fare pettegolezzi, non spargere la voce! Ne va… ne va della mia vita!

    La vita?!

    La vita!

    Lei sa bene che quando mi ha detto delle cose in sincerità e in confidenza, io non ho mai…

    Brava! Come quando…

    Perpetua si accorse di aver toccato un tasto falso e cambiò subito discorso:

    Signor padrone disse con voce commossa e in grado di commuovere io le sono sempre stata affezionata, se voglio sapere, è solo perché sono premurosa, perché vorrei aiutarla, darle un buon consiglio, sollevarle l’animo…

    Sta di fatto che don Abbondio aveva tanta voglia di liberarsi del suo doloroso segreto, almeno quanto ne avesse Perpetua di conoscerlo. Perciò dopo aver respinto, sempre più debolmente gli attacchi di lei, dopo averle fatto giurare più volte che non ne avrebbe parlato ad anima viva, finalmente, con molte sospensioni e molti ahimè le raccontò il miserabile caso. Quando dovette pronunciare il nome del mandante fece di nuovo giurare

    Perpetua, con un giuramento ancora più solenne. E dopo aver proferito quel nome, don Abbondio si accasciò sulla spalliera della seggiola con un gran sospiro, sollevò le mani in un atto di comando e insieme di supplica e disse:

    Per amor del cielo!

    Accidenti! esclamò Perpetua Ma che villano! Ma che prepotente! Ma che uomo senza timor di Dio!

    Vuoi tacere? O vuoi rovinarmi del tutto?

    Ma se siamo soli e nessuno ci sente. Piuttosto, come farà ora, povero il mio padrone.

    Ecco là disse don Abbondio con voce stizzita eccoli i buoni consigli che mi da questa! Mi chiede come farò, come farò… quasi fosse lei nei pasticci e fossi io a dovercela tirare fuori.

    Ma, io ce l’avrei un consiglio da darle! Però poi…

    Però poi? Sentiamo.

    La mia idea sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro arcivescovo è un sant’uomo, un uomo di polso, che non ha paura di nessuno e quando può mettere in riga uno di quei prepotenti per sostenere un curato, ne è ben felice, io direi, anzi dico, di scrivergli una bella lettera per informarlo di com’è che…

    Vuoi tacere? Vuoi tacere?! Sarebbe questo il buon consiglio per un pover’uomo. Quando mi pianteranno una bella schioppettata nella schiena, Dio me ne scampi, l’arcivescovo me la leverà?!

    Ma su, le schioppettate mica si danno via come dolcetti. Guai se i cani mordessero ogni volta che abbaiano! Io ho sempre visto che a chi sa mostrare i denti e si fa stimare, gli si porta rispetto. Proprio perché lei non si fa mai le sue ragioni, siamo ridotti al punto che tutti si sentono in diritto di venire qui a…

    Ma basta!

    Va bene, sto zitta, però è certo che quando il mondo si accorge che uno, ad ogni disputa, è sempre pronto a calar le…

    Stai zitta! Ti sembra il caso di dire simili fesserie?!

    Basta così, ci ripenserà questa notte. Per adesso eviti di farsi del male da solo e di rovinarsi la salute, mangi un boccone.

    Ci penserò io, rispose brontolando don Abbondio sicuro, io ci penserò, sono io quello che ci deve pensare. si alzò Non mi va di mangiare niente di niente. Ho altro per la testa, lo so che sono io che quello ci deve pensare. Ma proprio a me doveva capitare?

    Butti almeno giù quest’altro goccetto disse Perpetua versandogli dell’altro vino sa che questo le rimette sempre in sesto lo stomaco.

    Magari! Ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro. Così dicendo prese il lume e continuò brontolando:

    Che stupida storia! A un galantuomo come me! E domani cosa succederà?

    Proseguendo con simili lamentele si avviò per salire in camera. Giunto sulla soglia si girò indietro verso Perpetua, mise il dito davanti alla bocca e con tono lento e solenne disse:

    Per amor del cielo! E scomparve.

    CAPITOLO SECONDO

    Don Abbondio inventa scuse per dire a Renzo che il matrimonio non si può fare.

    Si racconta che il principe Condé dormì profondamente la notte prima della battaglia di Rocroi. Prima di tutto perché era molto stanco, ma anche perché aveva già dato tutte le disposizioni necessarie e stabilito cosa si dovesse fare la mattina seguente. Don Abbondio, invece, non sapeva altro se non che l’indomani sarebbe stata giornata di battaglia. Perciò buona parte della notte la passò a porsi domande angoscianti.

    Ignorare l’intimidazione e le minacce e fare il matrimonio era una possibilità che non volle neppure prendere in considerazione. Confidare a Renzo cos’era successo e cercare con lui una scappatoia? Dio ce ne scampi! Uno di quei bravi aveva detto: … non si lasci sfuggire una parola… altrimenti… ehm!…. Nel risentire quell’ehm!... che gli rimbombava nella testa, non solo non ci pensava proprio a trasgredire, ma si pentiva di averne ciarlato con Perpetua.

    Fuggire? Dove? E poi, quanti problemi e quante faccende con cui fare i conti! Ogni volta che la sua mente rifiutava una possibilità, si rivoltava nel letto.

    Ciò che alla fine gli parve meglio, o il meno peggio, fu di guadagnare tempo. A tale proposito si ricordò che mancavano pochi giorni al tempo proibito per celebrare le nozze:

    - Se riesco a tenere a bada quel ragazzone per questi pochi giorni, - pensò - ho poi due mesi di respiro. E in due mesi può succedere di tutto. -

    Ruminò quindi un po’ di scuse da mettere in campo e anche se gli sembravano un po’ misere, si rassicurava pensando che la sua autorità le avrebbe fatte sembrare della giusta importanza. Inoltre la sua lunga esperienza gli avrebbe dato un buon vantaggio su quel ragazzotto ignorante.

    - Vedremo, - disse tra se - lui pensa alla morosa, ma io penso alla pelle. Sono io quello più motivato, senza contare che sono il più scaltro. Caro figliolo, se tu ha il fuoco addosso, non so che dirti. Io però non ci voglio andare di mezzo! -

    Finalmente, dopo aver preso una decisione, riuscì a chiudere occhio. Ma che sonno e che sogni: bravi, don Rodrigo, Renzo, stradine, viuzze, dirupi, fughe, inseguimenti, grida, spari!

    Il primo risveglio, dopo una sciagura che vi ha messo nei guai, è un momento molto spiacevole. La mente cerca di aggrapparsi alle tranquille abitudini dei giorni precedenti, ma ecco che il pensiero della nuova, sgradevole situazione prende subito brutalmente il sopravvento. E il paragone tra la tranquillità di prima e l’angoscia di adesso, rende il dispiacere ancora più doloroso. Con in bocca il sapore amaro e il dolore di quel momento, don Abbondio ricapitolò le decisioni prese nella notte. Le confermò, le ordinò meglio, poi si alzò e rimase ad aspettare Renzo, timoroso, ma allo stesso tempo, impaziente.

    Lorenzo, o come tutti lo chiamavano, Renzo, non si fece aspettare molto. Appena gli sembrò il momento giusto per recarsi dal curato senza disturbare, ci andò con la lieta baldanza di un ragazzo di vent’anni che sa che in quel giorno sposerà la ragazza che ama. Fin dall’adolescenza era rimasto senza parenti ed esercitava la professione del filatore di seta che, potremmo dire, era ereditaria in famiglia. Quel lavoro, che negli anni addietro rendeva parecchio, ora era in decadenza, ma non al punto che un abile operaio non potesse guadagnarci il necessario per vivere onestamente. Anche se il lavoro andava riducendosi ogni giorno di più, l’emigrazione continua di lavoratori verso gli stati vicini, attirati da promesse, da privilegi e grosse paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora a quelli che rimanevano in paese. Oltre a ciò, Renzo possedeva un piccolo podere che faceva lavorare, o che lavorava egli stesso quando il filatoio era fermo, così che per la sua condizione, poteva dirsi agiato. E nonostante che quell’annata fosse peggiore delle precedenti e già stesse per arrivare una vera e propria carestia, il nostro giovane, che da quando aveva messo gli occhi su Lucia aveva cominciato a risparmiare, aveva tutto ciò di cui aveva bisogno e non doveva fare i conti con la fame.

    Comparve davanti a don Abbondio tutto agghindato, con penne variopinte sul cappello, il suo pugnale dal bel manico nel taschino dei calzoni e quell’aria di festa e al tempo stesso di spavalderia, che a quel tempo era normale anche nelle persone più tranquille.

    L’accoglienza incerta e misteriosa di don Abbondio, si contrappose ai modi gioviali e decisi del giovane: - Che abbia qualche pensiero per la testa? - pensò tra sé e sé Renzo. Poi disse:

    Signor curato, sono venuto per sapere a che ora le fa comodo che ci troviamo in chiesa.

    Di che giorno parliamo?

    Come di che giorno! Non si ricorda? È oggi.

    Oggi? replicò don Abbondio, come se lo sentisse per la prima volta. Oggi, oggi… mi dispiace ma oggi non posso.

    Oggi non può?! Ma cosa succede?

    Prima di tutto non sto bene, vedi?

    Mi dispiace. Ma quello che deve fare richiede poco tempo e così poca fatica…

    E poi, e poi, e poi…

    E poi che cosa?

    E poi ci sono dei problemi

    Dei problemi? Quali problemi possono esserci?

    Bisognerebbe essere al mio posto per capire quanti problemi possono saltar fuori in queste faccende, di quante cose devo rendere conto. Io sono troppo gentile, penso solo a togliere di mezzo gli ostacoli, a rendere tutto facile, a far le cose secondo il piacere altrui e trascuro il mio dovere. Poi mi toccano i rimproveri, se non di peggio.

    Santo cielo, non mi tenga così sulle spine e mi dica chiaro e tondo cosa c’è.

    Lo sai tu quante e quali formalità servono per fare un matrimonio in piena regola?

    Insomma mi dica qualcosa, rispose Renzo che cominciava a innervosirsi perché lei me ne ha già fatto una testa così nei giorni scorsi. Non avevamo già fatto tutto quanto? Non abbiamo già fatto tutto quello che dovevamo fare?

    Tutto, tutto lo sembra a te. Abbi pazienza ma la bestia sono io che trascuro il mio dovere per non far penare le persone. Ma adesso… basta, so quello che dico. Noi curati siamo tra l’incudine e il martello. Tu sei impaziente, ti capisco e compatisco, povero giovane. Ma i superiori… basta, non posso dire di più. Noi siamo quelli che ci vanno di mezzo.

    Per piacere mi spieghi cos’è quest’altra formalità che, come lei dice, dobbiamo fare e la facciamo subito.

    Tu sai quanti sono gli impedimenti dirimenti?

    Cosa vuole che ne sappia io d’impedimenti!

    Error, conditio, votum, cognatio, crimen, cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, si sis affinis… attaccò don Abbondio contano sulle dita.

    Mi sta prendendo in giro? lo interruppe il giovane. Che vuole che ci faccia io del suo latinorum?

    Allora se non sai le cose, abbi pazienza e affidati a chi le sa…

    Ma non è possibile!

    Via caro Renzo, non ti arrabbiare, che io sono disposto a fare… tutto quello che dipende da me. Io, io vorrei farti contento, ti voglio bene io. Ma… quando penso che stavi così bene. Che cosa ti mancava che ti è saltato in testa di sposarti…?

    Che discorso è mai questo, signor curato! sbottò Renzo tra l’incredulo e l’arrabbiato.

    Dico per dire, abbi pazienza, dico per dire. Vorrei vederti felice.

    Insomma…

    Insomma lo dico io, caro figliolo, io non ne posso nulla. La legge non l’ho fatta io. Prima di concludere un matrimonio, noi siamo proprio obbligati a fare molte ricerche, per assicurarci che non ci siano impedimenti.

    Mi dica alla buon’ora che impedimento è saltato fuori!

    Sii paziente, non sono cose che si quantificano così su due piedi. Non ci sarà nulla, almeno lo spero. Ma comunque noi queste ricerche le dobbiamo fare. Il testo parla chiaro: antequam matrimonium denunciet...

    Niente latino, per favore!

    Bisogna pure ch’io ti spieghi…

    Ma non le ha già fatte queste ricerche?

    Ti dico che non le ho fatte tutte come avrei dovuto.

    Perché non le ha fatte a suo tempo? Perché dirmi prima che tutto era a posto e poi… Perché aspettare ancora…?

    Ecco! Tu mi rimproveri la mia troppa bontà. Ho cercato di semplificarti le cose per fare prima, ma… ma ora è saltato fuori… basta, so io cosa.

    E cosa dovrei fare?

    Solo avere pazienza per qualche giorno. Ragazzo mio, qualche giorno non è l’eternità. Abbi pazienza.

    Per quanto?

    - Ci siamo! - pensò tra sé don Abbondio e con fare più gentile che mai, disse:

    Via, in quindici giorni dovrei… credo…

    Quindici giorni!? Oh questa sì che è bella! Abbiamo fatto tutto quello che ha voluto lei, abbiamo fissato la data e ora che il giorno è arrivato lei mi viene a dire di aspettare quindici giorni! Quindici… riprese con voce più alta e stizzita, agitando il pugno nell’aria e chissà che parolaccia ci avrebbe attaccato a quel numero se don Abbondio non l’avesse interrotto prendendogli l’altra mano con amorevolezza timida e premurosa:

    Su dai, non ti alterare, per amor del cielo. Vedrò, cercherò se… in una settimana…

    E a Lucia cosa dico?

    Che è stato un mio errore.

    E la gente, cosa dirà?

    Dite pure a tutti che ho sbagliato io, per troppa fretta, per troppo buon cuore. Date pure tutta la colpa a me. Più di così. Suvvia, una settimana.

    Poi non ci saranno più altri impedimenti?

    Se ti dico…

    Va bene, pazienterò una settimana. Ma sappia bene che passata questa, non mi accontenterò più di chiacchiere. Intanto la riverisco.

    Così dicendo Renzo se ne andò facendo al parroco un inchino meno profondo del solito e dandogli un’occhiata più significativa che riverente.

    Uscito in strada e camminando per la prima volta di malavoglia verso la casa della promessa sposa, con rabbia gli tornava alla mente il colloquio di poco prima. E sempre di più lo trovava strano.

    L’accoglienza fredda e impacciata di don Abbondio, quel suo parlare stentato e allo stesso tempo impaziente, quei due occhi grigi che, mentre parlava, scappavano continuamente di qua e di là come avessero paura di incontrarsi con le parole che gli uscivano dalla bocca, quello stupirsi del matrimonio come fosse una novità, dopo che tutto era stato così chiaramente concordato e soprattutto quel continuo far riferimento a qualcosa di importante senza mai dire cosa, tutte queste circostanze messe insieme, facevano sì che Renzo pensasse che sotto sotto ci fosse un mistero molto diverso da quello che don Abbondio volesse far credere.

    Per un momento pensò di tornare indietro per metterlo alle strette e farlo parlar chiaro, ma alzando gli occhi vide Perpetua che camminava davanti a lui ed entrava nell’orticello poco lontano da casa. La chiamò mentre stava aprendo l’uscio. Allungò il passo, la raggiunse e la fermò sulla soglia. Con la speranza di scovare qualcosa di più concreto, attaccò discorso:

    Buongiorno Perpetua. Io pensavo che oggi ci saremmo ritrovati insieme a far festa

    Mah! Come piace a Dio, mio povero Renzo

    Ascolti, vorrei un piacere: quel benedetto uomo del parroco mi ha impastocchiato con delle ragioni che io non ci ho capito nulla, potrebbe spiegarmi meglio perché non può o non vuole sposarci oggi?

    Oh, ma ti pare che io sappia i segreti del mio padrone?

    - Lo sapevo che c’era sotto un mistero. - pensò Renzo e, per scoprirlo, continuò:

    Via Perpetua, siamo amici, mi dica quello che sa, mi dia un piccolo aiuto.

    Brutta cosa nascere povero mio caro Renzo.

    È vero. rispose Renzo, sempre più sicuro dei suoi sospetti e cercando di avvicinarsi di più al punto, È vero, riprese ma tocca ai preti maltrattare i poveri?

    Senti, Renzo, io non posso dire niente perché… non so niente, ma ti assicuro che il mio padrone non vuole fare un torto né a te, né a nessuno. Lui non ne ha colpa.

    Allora la colpa di chi è? chiese Renzo fingendosi disinteressato, ma con il cuore sospeso e l’orecchio teso.

    Come ti ho detto, io non so niente… Ma posso parlare in difesa del mio padrone perché mi spiace che lo si incolpi di voler far del male a qualcuno. Pover’uomo! Se pecca è perché è troppo buono. Purtroppo a questo mondo ci sono dei mascalzoni, dei prepotenti, degli uomini senza timor di Dio…

    - Prepotenti! Mascalzoni! - pensò Renzo - questi non sono i superiori… -

    Via, disse poi nascondendo a fatica l’agitazione crescente, via, mi dica chi è.

    E no! Tu vuoi farmi parlare ma io non posso parlare perché… non so niente. Quando dico che non so niente, è come avessi giurato di stare zitta! Mi possono anche torturare che non mi uscirebbe una parola dalla bocca. Basta così, stiamo perdendo tempo tutt’e due. Addio.

    Così dicendo entrò in fretta nell’orto e chiuse la porta. Renzo le rispose con un saluto, poi tornò da dove era venuto, pian piano, per non far capire a Perpetua che direzione aveva preso. Ma quando fu sicuro di essere fuori dall’orecchio della buona donna, allungò il passo. In un attimo fu di nuovo davanti all’uscio di don Abbondio. Entrò, andò di filato nel salotto dove l’aveva lasciato, lo vide e si diresse verso lui con fare deciso e lo sguardo stravolto.

    Ehi, ehi! Cos’è questa trovata?! disse don Abbondio.

    Chi è quel prepotente? attaccò Renzo con la voce di uomo che è deciso a ottenere una risposta precisa. Chi è quel prepotente che non vuole che io sposi Lucia?!

    Co-sa? Cosa? balbettò il povero prete, con il volto improvvisamente fattosi bianco e floscio come uno straccio caduto fuori dal cesto del bucato. E, mentre brontolava, spiccò un salto dalla sua poltrona per lanciarsi verso l’uscio. Ma Renzo, che quella mossa se l’aspettava, ci arrivò prima di lui, girò la chiave e se la mise in tasca.

    Ecco qua! Ora signor curato, mi dirà quello che mi deve dire. Tutti sanno i fatti miei tranne il sottoscritto. Voglio saperli anch’io, accidenti! Come si chiama costui?

    Renzo, Renzo! Per carità, bada a quello che fai. Pensa all’anima tua!

    Penso che voglio sapere quel nome, adesso! E così dicendo, forse senza accorgersene, mise la mano sul manico del coltello che gli usciva dalla tasca.

    Misericordia! esclamò con un filo di voce don Abbondio. Lo voglio sapere!

    Chi ti ha detto…

    E no, niente più chiacchiere, parli chiaro e subito.

    Vuoi vedermi morto?

    Voglio sapere quello che è mio diritto sapere.

    Ma se parlo sono morto. Non dovrei preoccuparmi della mia vita?

    Parli dunque!

    Quel dunque fu proferito con così tanta energia e l’aspetto di Renzo divenne così minaccioso, che don Abbondio non pensò più a disobbedire.

    Mi prometti, mi giuri, disse infine di non parlarne con nessuno, di non dire…

    Giuro che faccio uno sproposito se lei non mi dice subito quel nome.

    A quel nuovo spergiuro don Abbondio, con lo sguardo e il viso stravolto come avesse in bocca le tenaglie del cavadenti, disse:

    Don…

    Don? ripeté Renzo come per aiutare il paziente a buttare fuori il resto. Stava piegato sull’orecchio di lui, con le braccia tese e i pugni serrati all’indietro.

    Don Rodrigo! pronunciò in fretta il forzato, sputando fuori quelle poche sillabe e strascicando le consonanti, in parte per l’agitazione, in parte perché, dedicando quella poca lucidità che gli rimaneva a cercare un compromesso tra le due paure, sembrava volesse far scomparire la parola mentre era costretto a tirarla fuori.

    Ah, cane! urlò Renzo E come ha fatto? Cosa le ha detto per…

    Come, eh? Come? rispose con voce quasi sdegnosa don Abbondio, il quale dopo un così grande sacrificio, si sentiva quasi creditore.

    Come, eh? Vorrei che fosse toccato a te, quello ch’è toccato a me! A me che non c'entro nulla. Certamente non ti sarebbero rimasti tanti grilli per la testa! e gli raccontò il brutto incontro dipingendolo con colori terribili. Nel raccontare si rese conto di quanta rabbia aveva in corpo e che fino a quel momento era rimasta nascosta, impacchettata nella paura. Inoltre, vedendo che Renzo, preso tra la rabbia e la confusione, rimaneva immobile col capo chino, continuò allegramente:

    Bella cosa hai fatto! Che bel servizio che mi hai reso! Un tiro simile a un galantuomo come me, al tuo parroco! In casa sua, in un luogo sacro! Proprio una bella prodezza, per strapparmi di bocca la mia disgrazia! Cosa che io ti nascondevo per prudenza, per il tuo bene. E adesso che lo sai, cosa vuoi fare? Per amor del cielo, qui non si scherza! Non si tratta di torto o di ragione, si tratta di forza. Questa mattina io ti ho dato un buon consiglio, ma tu… eh! Subito su tutte le furie. Cercavo di avere buon senso per me e per te. Ma figuriamoci...! Apri almeno, dammi la mia chiave.

    Posso aver sbagliato, rispose Renzo con voce addolcita verso don Abbondio, ma nella quale si percepiva tutta la rabbia verso il nemico scoperto, posso aver sbagliato, ma si metta una mano sulla coscienza e pensi se al mio posto… Così dicendo prese la chiave dalla tasca per andare ad aprire. Don Abbondio lo seguì e mentre lui girava la chiave nella toppa, gli si accostò e con volto serio e ansioso e alzandogli davanti agli occhi le prime tre dita della mano destra, come per aiutarlo anche lui, gli disse:

    Giura almeno…

    Posso aver sbagliato, mi scusi… rispose Renzo aprendo e cercando di uscire.

    Giura… replicò don Abbondio, prendendolo per il braccio con la mano tremante.

    Posso aver sbagliato… ripeté Renzo e, liberatosi di lui, scappò via come una furia, troncando così la questione che, al pari d’una disputa tra letterati, tra filosofi, o tra uomini di scienza, avrebbe potuto durare dei secoli, giacché ciascuna delle parti non faceva che ripetere il proprio argomento.

    Perpetua! Perpetua! gridò don Abbondio, dopo aver invano richiamato il fuggitivo. Ma Perpetua non rispose e don Abbondio non sapeva più in che mondo stava.

    È accaduto più d’una volta a personaggi di ben più alto rango che don Abbondio, di ritrovarsi in situazioni tanto fastidiose, in circostanze talmente critiche, che sembrò loro un buon ripiego darsi per malati. Questo ripiego lui non dovette cercarlo perché arrivò da sé. Lo spavento del giorno prima, il dormiveglia di quella notte, la paura avuta in quel momento e l’incertezza dell’avvenire, fecero il loro effetto. Affannato e confuso, andò a sedersi sulla sua poltrona. Cominciava a sentire qualche brivido nelle ossa, si guardava le unghie sospirando e di tanto in tanto chiamava con voce tremolante e stizzita: Perpetua!

    Alla fine questa arrivò, con un gran cavolo sotto il braccio e la sua bella faccia tosta, come nulla fosse successo.

    Risparmio al lettore le lamentele, i piagnistei, le accuse, le difese, i tu sola puoi aver parlato e i non ho detto niente, insomma, tutti i pasticci di quel colloquio. Dirò solo che don Abbondio ordinò di sprangare l’uscio e di non aprire più per nessuna ragione. Se qualcuno bussava, lei doveva dire che il parroco era andato a letto con la febbre. Poi salì le scale lentamente dicendo ogni tre scalini, eccomi sistemato e si mise a letto per davvero, dove lo lasceremo.

    Renzo intanto camminava con passi furiosi verso casa. Non aveva deciso cosa convenisse fare, ma addosso aveva una gran smania di fare qualcosa d’inconsueto e terribile. I provocatori, i prepotenti, tutti quelli che in un modo o nell’altro, fanno dei torti al prossimo, sono colpevoli non solo del male che fanno, ma anche della perversione a cui spingono gli animi degli offesi. Renzo era un giovane pacifico e contrario alla violenza, un giovane sincero, che rifiutava ogni inganno. Ma in quel momento, nel suo cuore si annidava il desiderio di vendetta omicida e con la mente fantasticava il modo di perpetrare la sua vendetta. Avrebbe voluto correre alla casa di don Rodrigo, afferrarlo per la gola e… ma poi si ricordava che quella era una specie di fortezza, con dentro uomini pronti a tutto e ben guardata dal di fuori. Solo i servitori e gli amici ben conosciuti vi entravano liberamente, senza essere perquisiti da capo a piedi. Un povero artigiano sconosciuto, non ci sarebbe entrato senza un accurato controllo. Senza contare che lui, probabilmente, era anche troppo conosciuto.

    Allora immaginava di prendere lo schioppo, di nascondersi dietro una siepe ad aspettare, se mai quella persona fosse uscita sola. E sprofondando con atroce compiacenza in quella fantasia, s’immaginava di sentirne il passo, quel passo, di alzare con calma la testa, di riconoscere il suo nemico, di puntare lo schioppo, di prendere la mira e sparare. Lo vedeva cadere e rantolare scalciando, poi gli mandava una maledizione e correva al di là del confine per mettersi in salvo.

    - E Lucia? - Appena questo pensiero cadde in mezzo quelle orribili fantasie, le immagini migliori, a cui la mente di Renzo era abituata, ritornarono tutte assieme: si ricordò degli ultimi momenti trascorsi con i suoi parenti prima della loro morte, si ricordò di Dio, della Madonna e dei santi. Pensò che il non avere delitti sulla coscienza gli era stato sempre di conforto, ricordò l’orrore che aveva provato tutte le volte che gli avevano raccontato di un omicidio. Si risvegliò dunque dal quel suo sogno di sangue, con spavento e rimorso. E al tempo stesso con gioia, per non aver fatto altro che immaginare.

    Ma il pensiero di Lucia, quanti altri ne tirava dietro di sé! Tante speranze, tante promesse. Un avvenire così tanto desiderato, che ormai era dato per certo. Quel giorno così sospirato!

    E ora con quali parole le avrebbe raccontato di quella novità? E poi, quali decisioni prendere? Come farla diventare sua moglie a dispetto di quel malvagio prepotente? E in mezzo a tutto questo, anche se non era un vero e proprio sospetto, c’era un’ombra tormentosa che gli insidiava la mente: il sopruso di don Rodrigo non poteva che nascere da una brutale passione per Lucia. E Lucia? Gli aveva forse dato qualche piccola occasione di credere… una qualche minima lusinga? Questo pensiero, che si era acceso nella mente di Renzo, non

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