Il cadavere del Canal Grande
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Jean de Briac ha un sogno, fare il pittore. Ma suo padre, un nobile francese assai più interessato al guadagno che all’arte, non vuole sentirne parlare. Così Jean, rubato un cavallo dalla scuderia paterna, galoppa fino a Venezia, dove riesce a farsi prendere a bottega dal pittore che ama di più, il Maestro Giambattista Tiepolo. La vita tra i canali e gli affreschi gli sembra tutto quello che ha sempre desiderato, finché un giorno va a sbattere contro una bellissima ragazza. Lei lo guarda e prima di svanire tra la folla gli affida un sacchetto di velluto con la preghiera di consegnarlo il prima possibile a donna Ginevra, la proprietaria della locanda Alle due Spade. Jean lo apre: contiene uno smeraldo di dimensioni stupefacenti. Pochi minuti dopo dal Ponte di Rialto si alzano delle grida, “c’è un cadavere nel Canal Grande”. È la ragazza del sacchetto…Dopo una notte turbata da un sonno inquieto Jean si reca alla locanda. Incontrerà Ginevra, la donna più sensuale che abbia mai visto, e finirà in un misterioso intrigo che coinvolgerà i potenti di tutta Europa e il più celebre veneziano di sempre: il Cavalier Giacomo Casanova. Un po’ Tre moschettieri un po’ Le relazioni pericolose, con qualcosa del ciclo di Angelica, qualcosa di Goldoni e qualcos’altro di Kill Bill, Il cadavere del Canal Grande è un giallo storico sorprendente e da cui è impossibile staccarsi. Un libro che rivela ancora una volta l’eclettico e straordinario talento di Enrico Vanzina.
Enrico Vanzina
Enrico Vanzina è figlio del grande regista Steno, uno dei fondatori della commedia italiana. Nel 1976 ha iniziato a scrivere sceneggiature e da allora ha collaborato con i maggiori esponenti del nostro cinema. Nel corso degli ultimi quarant’anni ha firmato, insieme al fratello Carlo, alcuni dei più grandi successi al botteghino italiano. Ha realizzato anche moltissime fiction televisive. Ha vinto il Nastro d’argento, la Grolla d’oro, il Premio De Sica e il Premio Flaiano. Ma il cinema e la tv non sono la sua unica occupazione. Ha collaborato con il Corriere della Sera e scrive come editorialista su Il Messaggero. Ha pubblicato diversi libri, tra cui i recenti La sera a Roma (Mondadori, 2018) e, per HarperCollins, Mio fratello Carlo (2019), Una giornata di nebbia a Milano (2021), Diario diurno (2022).
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Il cadavere del Canal Grande - Enrico Vanzina
PARTE PRIMA
LO SMERALDO
1
JEAN DE BRIAC
Era a Venezia, in una notte governata dal segno del Leone, rischiarata da una luna diafana che tingeva di riflessi lattiginosi l’acqua ferma del Canal Grande.
Lungo i canali, nelle calli e nelle piazze, e intorno ai ponti, si avvertiva la frenesia che anima spesso, in maniera insensata, il moto perpetuo delle grandi città. Venezia – come Parigi, Londra, Amsterdam, Dresda, o San Pietroburgo – viveva due vite complementari. Di giorno, quella scandita dal ritmo forsennato dei commerci: il vocio dei mercati, le passeggiate incantate dei nobili stranieri che facevano tappa a Venezia durante il Grand Tour, i passi frettolosi del popolino; di notte, invece, scorreva un’altra vita, tra i segreti e gli intrighi delle passioni umane, quando prendono il sopravvento gli amori, i tradimenti, i postumi di qualche sbornia, le chiacchiere degli insonni e le trame criminali di chi, coperto dal buio, regola i suoi conti personali usando cappi, lame o armi da fuoco.
Jean de Briac non apparteneva a nessuna di queste categorie di nottambuli. Era un bel giovanotto biondo di venticinque anni e di nobili origini bretoni, sguardo dolce ma fiero, giunto a Venezia dalla Francia per imparare il mestiere dell’Arte. Tornava a casa, stremato dopo una lunga giornata trascorsa accanto a Giambattista Tiepolo nella chiesa della Pietà, dove il venerato maestro stava realizzando, per la volta della navata, l’affresco dell’Incoronazione di Maria Immacolata. Il giovane Jean, grazie alla benevola introduzione di un cugino carnale, Mathieu de Briac, monsignore a Würzburg, dove Tiepolo aveva affrescato la residenza del principe vescovo Karl Philipp von Greiffenclau, era entrato a far parte del manipolo di allievi del grande pittore veneziano. Da circa due mesi, l’apprendista francese seguiva l’estenuante lavoro del maestro sulla volta della Pietà, con l’incarico di preparare alcuni colori: macinava cinabro, giallolino, carminio e miscelava con pazienza punte di bianco, di nero e di blu.
Quella sera, le mani ancora imbrattate, Jean era particolarmente stanco. Stava per scoccare la mezzanotte e non aveva ancora cenato. A pranzo, nella cucina del refettorio della Pietà, aveva mandato giù in fretta e furia due bocconi di pesce in saor preparato da Agnese, la giovane cuoca che, dal giorno in cui era arrivato, lo divorava con gli occhi. Poca cosa due bocconi di pesce per i suoi circa novanta chili e il suo metro e ottantacinque di altezza.
Sfinito e affamato, nei pressi della Chiesa di San Salvador si fermò in una tavernetta frequentata da sbirri, ladri e donnine notturne. Mezz’ora dopo, con il ventre saziato, riprese il cammino verso il Sotoportego del Bancogiro, al di là del Ponte di Rialto, dove aveva preso in affitto per poche monete al giorno la stanzetta di una locanda marcia, dato che le rimesse paterne destinate a finanziare il suo apprendistato non gli permettevano localini più prestigiosi. Suo padre, nobile di campagna decaduto, odiava l’arte. Nelle lettere che inviava mensilmente al figlio, cariche di rimproveri e di brutte notizie sullo stato patrimoniale della famiglia, prima dei saluti di rito usava ammonirlo sempre allo stesso modo: Tienilo a mente, con la pittura non si mangia
. Una frase che, secoli dopo, si sarebbe fatta largo nel repertorio comune della stupidità umana.
Jean non si curava granché di quei rimproveri. Il padre era un uomo gretto, un nobile nato tra le vacche, senza alcuna nobiltà d’animo, interessato solo alla mungitura, ai raccolti e al fieno con cui nutrire gli animali. Era stata sua madre, Henriette Bazin, figlia di un insegnante di musica, donna delicata e appassionata di letteratura, a fargli scoprire la vertigine della bellezza estetica. Sin da piccolo, Jean aveva iniziato a tracciare segni a matita sulle pagine di un vecchio quaderno, poi schizzi con un carboncino; a otto anni, avendo ricevuto in regalo dalla madre un pennello con dei colori, già realizzava veri e propri quadretti su tela. Il ragazzo aveva talento, disse padre Giroud, il suo insegnante di Belle Arti al Collège des Saints-Pères a Rouen. Confortato dal giudizio del sacerdote, Jean decise che la pittura sarebbe stata la sua vita. Qualche anno dopo padre Giroud gli parlò dell’accademia di pittura, scultura e architettura istituita di recente dal Senato veneto, dove studenti da tutto il mondo avrebbero potuto seguire corsi didattici di figura, ritratto, paesaggio e scultura. Caso aveva voluto che il primo presidente di quella nuova accademia fosse proprio Giambattista Tiepolo, con il quale Jean avrebbe poi collaborato nella chiesa della Pietà. All’epoca, il padre aveva seccamente impedito al ventenne Jean di inviare la domanda di iscrizione. Ma il fuoco che bruciava nelle vene del figliolo artista quel padre insensibile non riuscì a spegnerlo. Durante un inverno rigido Jean rubò dalla stalla di famiglia un baio di otto anni, solido come un torrione, e partì al galoppo alla volta dell’Italia. Raggiunse Venezia circa un mese dopo, con un viaggio avventuroso che lo forgiò nello spirito e nel carattere. Forte della lettera benevola del cugino monsignore si presentò dal maestro Tiepolo, il quale, forse mosso da ammirazione – o pietà – per quel giovane scappato dalle comodità di casa, lo arruolò seduta stante nel gruppo dei suoi allievi.
Prima di arrivare al Ponte di Rialto, con i muscoli delle gambe appesantiti dalla lunga camminata che ogni sera lo riportava verso casa, Jean fu travolto alle spalle da una dama che stava correndo a perdifiato. Il giovane artista ruzzolò in terra e fece appena in tempo ad afferrare un lembo della gonna della sconosciuta. Lei cercò di divincolarsi per riprendere la corsa, ma Jean, forte come un toro, non mollò la presa.
«Mi lasci, imbecille!» esclamò la donna, lanciando simultaneamente delle occhiate preoccupate tra la folla che avanzava dietro di lei. Era di una bellezza meticcia, sfolgorante, con occhi grigi tagliati quasi a mandorla su guance di porcellana rosa.
Jean non la lasciò scappare via.
«Madame, pretendo almeno un cenno di scuse.»
Lei lo mise a fuoco. Jean la fissava con un sorriso tra l’irato e il divertito. La frangia bionda e i dispettosi occhi azzurri parvero alla donna improvvisamente innocui, rasserenanti.
Cambiando tono gli chiese con voce ferma:
«Posso fidarmi di lei?».
«Magari sono io quello che non dovrebbe fidarsi dei suoi modi da facchino» replicò Jean.
Dopo aver lanciato l’ennesimo sguardo di preoccupazione verso la piccola folla in movimento, la bella fuggitiva si chinò verso di lui e gli mise frettolosamente in mano un sacchetto di velluto verde.
«Lo porti alla padrona della locanda Alle due spade, a San Bortolo. Lei saprà a chi consegnarlo.»
«Da parte di chi?» chiese Jean.
«La signora Ginevra capirà chi sono» tagliò corto la donna.
Con uno strappo deciso si liberò dalla stretta del giovane e subito riprese la sua corsa affannata.
Jean la vide sparire, rapida come una folata di vento, dietro un angolo della calle che sbucava sul Canal Grande. Aprì la mano nella quale teneva stretto il sacchetto di velluto. Mosso dalla curiosità, sfilò i laccetti di filo dorato e rovesciò il contenuto sul palmo dell’altra mano. Tra le dita si ritrovò, illuminato dalla luce lunare, un grosso smeraldo senza venature, dalla lucentezza e dalla trasparenza irreali.
Era il frutto di un furto? La locandiera era complice della ragazza? Chi la stava inseguendo? Si trattava, magari, di uno smeraldo falso?
Ancora scosso da quanto accaduto, Jean si rimise in marcia verso il Sotoportego del Bancogiro. Con una piccola deviazione dal suo percorso abituale avrebbe potuto facilmente raggiungere la locanda a San Bortolo, in zona Rialto, ma era già notte fonda e gli parve troppo faticoso. Avrebbe consegnato lo smeraldo l’indomani alla misteriosa signora Ginevra.
Arrivato in cima al ponte, prima d’iniziare la discesa verso il lato opposto della città, udì un vociare proveniente dal Canal Grande. Si affacciò dalla balaustra del portico centrale. In acqua vide una gondola sulla quale un muscoloso barcaiolo stava tirando su dal ferro di poppa il corpo di una donna annegata. Intorno a lui si erano già fermate altre piccole imbarcazioni e le urla dei marinai s’incrociavano convulse. Jean riconobbe l’abito: era quello della donna che gli aveva appena consegnato lo smeraldo.
Riuscì a udire la voce roca del gondoliere che annunciava concitato agli altri:
«Maria Vergine, le hanno tagliato la gola».
Si precipitò giù dal ponte e arrivato in Riva del Vin si fece largo tra i curiosi che si stavano radunando ai bordi del canale. Da lì mise a fuoco il viso della poveretta, riversa sui cuscini della gondola. Vide il profondo squarcio, poco sotto la gola, dal quale sgorgavano fiotti di sangue. Di un rosso mattone, pensò subito, simile a quello che Tiepolo stava usando per rifinire alcuni particolari della sua volta nella navata della Pietà.
Un fremito gli irrigidì il corpo. Poi la mano nocchiuta di un uomo lo scansò con forza di lato.
«Circolate, fuori dai cojon.»
Era sopraggiunta una mezza dozzina di sbirri. Con modi bruschi si misero a disperdere gli sfaccendati sulla riva.
«C’è qualcuno che ha visto? Che conosce questa donna?» chiese con voce fredda il capo.
Nessuno aveva visto. Nessuno la conosceva.
A parte Jean.
Che, però, decise di allontanarsi in silenzio, stringendo sempre più forte lo smeraldo che nascondeva nell’incavo della mano.
Ancora non sapeva che quella pietra lo avrebbe portato nella palude melmosa di un mistero quasi impossibile da decifrare.
2
GINEVRA TREVISAN
L’indomani, Jean si svegliò di buon’ora.
Aveva trascorso una notte agitata, popolata da pensieri prima di addormentarsi e da incubi durante il sonno. Aprendo gli occhi, gliene tornò in mente uno, complesso da interpretare. Si trovava insieme al maestro Tiepolo su di una impalcatura in legno chiaro appesa con delle funi alle travi portanti della cupola di una chiesa. Il maestro stava affrescando la volta convessa con pennellate leggere di un azzurro pastello quasi trasparente. Ogni tanto lui riforniva la tavolozza dell’artista con strati densi di colore, appena macerato in un pestello di porcellana. Nelle pause, non poteva fare a meno di guardare verso il basso. Il profondo vuoto che lo separava dalla navata sottostante, una distanza di minimo trenta metri, pareva averlo ipnotizzato. Improvvisamente, nel corridoio centrale si era materializzato un cavallo dalla statura possente che avanzava al piccolo trotto. Come aveva fatto a non notarlo