Ballata di eretici e marinai
Di Michele Piras e Fabio Forma
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Anteprima del libro
Ballata di eretici e marinai - Michele Piras
eclypse
137
Fabio Forma, Michele Piras
Ballata di eretici
e marinai
arkadia editore
Nicola, un politico sconfitto ed eretico, si ferma davanti al bar La città del peccato
, per caso e per necessità. È una notte tempestosa e il suo umore è grigio. Il suo incontro con Fulvio, però, uno scrittore la cui vena creativa pare estinta, riaccende vecchie emozioni e una voglia incontenibile di confronto. I due uomini possiedono caratteri contrastanti, ma il luogo, l’atmosfera, l’alcol favoriscono il dialogo e pongono i presupposti per la nascita di un’amicizia. Tutto intorno si muove un universo variegato di uomini e donne, ognuno con la propria esperienza, ognuno con un bagaglio di delusioni e speranze. Ecco dunque Bertoldo, con la sua risata cavallina, oppure la gentile Marlene, con un fascino da film hollywoodiano. Ballata di eretici e marinai è un romanzo claustrofobico, dove i protagonisti mettono in scena ogni minimo frammento della loro personalità.
Fabio Forma, originario di Borore, è nato nel 1986. Ha esordito nella narrativa con Carne da demolizione (Gaffi, 2013), seguito da L’uomo che non vorresti incontrare (Bibliotheka, 2018). Suoi racconti sono stati pubblicati nelle antologie Uno sputo di cielo. 27 racconti senza paracadute (Watson Edizioni, 2018), Sardi per sempre (Edizioni della Sera, 2019), Le guide (collana de La Repubblica, 2019). Attualmente alterna la sua attività di autore a quella di imprenditore.
Michele Piras, figlio di bororesi migranti, è nato a Darmstadt nel 1972. È stato consigliere comunale, segretario regionale del prc e di sel, deputato al Parlamento nazionale dal 2013 al 2018, membro delle commissioni Difesa ed Esteri e dell’assemblea parlamentare della NATO. Imprenditore, questo è il suo esordio letterario.
© 2022 arkadia editore
Collana Narratori Eclypse 137
fabio forma, michele piras
Ballata di eretici e marinai
In copertina: Au Bar (Henri de Toulouse-Lautrec, 1886)
Realizzazione grafica A.DeCicco, Cagliari
Prima edizione digitale ottobre 2022
isbn 978 88 68514 29 7
arkadia editore
09125 Cagliari – Viale Bonaria 98
tel. 0706848663 – fax 0705436280
www.arkadiaeditore.it
info@arkadiaeditore.it
Ballata di eretici e marinai
A Niccolò, a Daniela,
ai miei genitori, perché se si sogna da soli è solo un sogno,
se si sogna insieme è la realtà che ha inizio.
Prologo
Una marea lenta fluisce sul bordo del gradino. Il marmo bianco coperto da quella melma scura, densa. Attraversa il bordo e cade, spumosa, sul cemento del marciapiede e scivola oltre. Discende, va a mescolarsi con l’acqua che timidamente cade dal cielo che si va aprendo, dopo un giorno e una notte di diluvio. Blob. Va a spalmarsi, distendersi, dissiparsi, quasi a ripulirsi. Amore e follia. Luce e ombra. È arrivato il silenzio, quello totale. L’alba da qualche parte comincia ad arrossare il cielo. Gli spettri della notte ancora presenti, ombre innaturali e lunghissime, misteri impertinenti che si affacciano, ma non vogliono ancora mostrarsi.
1.
Affinità elettive
Sailors fighting in the dance hall
Oh man! Look at those cavemen go
It’s the freakiest show
Take a look at the Lawman
Beating up the wrong guy
Life On Mars?,
david bowie
Che nome di merda
, pensa.
L’aveva letto da qualche parte, ci avevano fatto sopra anche un film. La città del peccato, impresso a caratteri cubitali sulla porta d’ingresso. Del resto cosa aspettarsi da un paesino che si crede città, in perenne conflitto con i vicini dai quali lo dividono un palmo di strada, trentaquattro muretti a secco, tre semafori, una casa condivisa, metà sul suolo di uno, metà dell’altro, e tanti ipotetici funamboli, ad alimentare la schizofrenia comune di nuovi Fernandel.
Ottomila abitanti scarsi, che in assenza di alternative passano il tempo a detestarsi, per futili motivi.
Lampi e boati irregolari: bestemmie dal cielo. Il grigio è padrone incontrastato, inscalfibile data la sua mole, ricopre questa terra di mezzo, che non è mare ma nemmeno montagna, un pantano di idee sempre troppo sopite per spiccare davvero il volo. Avrebbero bisogno di altro vento, altri cieli, altra terra da cui levarsi. Piove e fa un freddo cane. E Nicola si sente male. Ore, giorni, settimane di un anno pesante. Potrebbe contarne i minuti, ogni singolo secondo passato a fare a pugni con l’ansia, con la precarietà dell’esistenza, in bilico sul cornicione al settimo piano, a guardare lo spazio sottostante come fosse tutta la strada fatta nell’arco di una vita, incredulo, alla ricerca di una ragione valida per darsi una spiegazione plausibile di quel punto d’approdo.
Tempo di merda, nome del locale conseguente. E quella voce che gli consiglia sempre le cose peggiori. Entra, annunciato da un cigolio, il solito. Non si è ancora guardato intorno e già immagina quattro ultrasessantenni, tatuati e gonfi di birra ad accoglierlo, nemmeno si trovasse in California, in uno di quei bar gestiti da anacronistici e violenti motociclisti.
Stranamente invece si presenta bene. Come minchia è possibile
, pensa.
Gli arredi, la musica e la barista.
La barista ha un fondoschiena che non ti aspetti in un paesino come questo. I jeans aderenti le incorniciano i fianchi, appena debordanti sopra la cintura, come un richiamo per tonnellate di maschi ubriachi, in fila al bancone, confusi dall’imbarazzo della scelta fra le sue attenzioni e quelle della birra doppio malto che si scalda fra le loro mani.
Nicola guadagna uno sgabello rivestito in vinile rosso e bianco, rubato dalla scenografia di American Graffiti. Si guarda intorno ed è frastornato dalla quantità di colore che lo circonda, alle pareti stampe di fumetti, réclame cinematografiche d’epoca, copertine di album, il soffitto interamente dipinto di rosso fuoco. Un sottofondo di musica country lo sostiene nel suo spaesamento aggressivo e comincia a chiedersi se davvero esista questa specie di purgatorio di provincia, sospeso fra New Orleans e Busachi.
A pochi passi dal bancone c’è un personaggio scostante, un Bertoldo autoctono, una maschera di carnevale in tempo di Quaresima. Ride a sproposito, con quel tono capace di irritare chiunque nel raggio di diversi chilometri.
Voglia di fuggire. La barista gli si avvicina. «Cosa vuoi?»
«Qualsiasi cosa abbia almeno quaranta gradi», risponde, distogliendo per un attimo lo sguardo dal suo fondoschiena e tentando di guardarla negli occhi.
Il Bertoldo saluta, ride, alza i tacchi e imbocca la porta sul retro. Rasserenante.
L’altro, seduto al bancone, sembra uno tranquillo. Non è un motociclista, non ha sessant’anni, non è gonfio di birra e si vede che condivide il senso di sollievo per l’uscita di scena dello strillone. E la medesima ammirazione per il culo della cameriera.
I loro sguardi si incrociano, esplodono in una fragorosa risata.
Nicola ha bisogno di un volto familiare. Per Fulvio vale lo stesso e gli si para davanti.
«Piacere, Fulvio.»
«E io mi chiamo Dylan Dog.» Ridono. «In realtà mi chiamo Nicola. Nome stupido, no? Avrei preferito Dylan Dog, in effetti. Qualcuno dice che gli somigli. Ma lui è un ex alcolista.»
«Tu, invece, cosa bevi?»
2.
Il riflesso sullo specchio
Please allow me to introduce myself
I’m a man of wealth and taste
I’ve been around for a long, long years
Stole many a man’s soul and faith
Sympathy for the Devil,
rolling stones
Uno scrittore, un momento di svolta. Anni di rassicurante torpore e ora la decisione. Fulvio è molto giù, schiacciato su una strada di terra battuta, inquieto e indeciso su quale via prendere, nell’intrigo internazionale della sua attuale situazione. Un romanzo di successo e poi anni rintanato a lavorare al nuovo, quello che decreterà la consacrazione o la sua prematura scomparsa dal panorama letterario. I giorni si dilatano, croci lungo la via, dritta e ghiaiosa, di cui non si vede la fine. Il senso di indecisione, amico intimo e inconfessabile, la certezza di sbagliare comunque.
L’elaborazione del suo dolore esistenziale è lì, a portata di mano come non lo era mai stata prima. Contempla il mondo dall’angolo del suo bar, il guscio in cui si sente più crisalide e meno verme. La tana accogliente delle sue sere, piane e banali, in attesa della pubblicazione, gettato sul ring, catapultato nel mondo dei vivi, a colloquiare con loro e la loro sensibilità. È pronto, ancora un attimo e via.
Un politico, anche per lui un momento di svolta. Anni di rassicuranti passioni e ora la realtà che torna e brucia la pelle come il sole di luglio. «Figlio di nessuno», gli dissero, quando lui ancora nemmeno ci pensava a ciò che gli sarebbe accaduto. Dignità e polvere che si mischiano, basta un errore e scopri che non si perdona la lesa maestà dei potenti. Nemmeno se sventoli una bandiera, tantomeno se vali qualcosa. In questo Paese le tue origini si appiccicano alla pelle per sempre, come una scimmia dispettosa, che ride e salta. E tu non capisci perché né dove sia iniziato tutto, quando le cose hanno iniziato a sfuggirti di mano.
A Nicola non è mai realmente piaciuto piangersi addosso, nemmeno quando sarebbe stato lecito farlo. E anche in questa situazione, l’unica immutabile convinzione della sua vita: l’importante non è evitare la caduta, ma sapersi rialzare. Quindi tanto meglio ingoiare le lacrime, con una buona dose di alcol per digerirle.
Eppure non si deve essere per forza affini per incontrarsi. Si può essere come davanti allo specchio, uno specchio vicino e familiare, uguali ma opposti. Il caleidoscopio delle esperienze di ciascuno può dar vita a qualcosa di inatteso. Se poi quello che ride in maniera così idiota abbandona il campo, allora sì, tutto è possibile.
«Tu cosa bevi?»
3.
Il peso della verità
On a cobweb afternoon
In a room full of emptiness
By a freeway I confess
I was lost in the pages
Of a book full of death
Reading how we’ll die alone
And if we’re good, we’ll lay to rest
Anywhere we want to go
Like a Stone,
audioslave
«Secondo te che rum hanno in questo postaccio?», chiede Nicola.
«Non ne ho idea, io vado a birra. Nera, per la precisione… In ogni caso chiederei alla barista.»
La passione per il rum ha iniziato a divorarlo qualche decennio prima: un po’ per contrarietà, dato che il padre gli sconsigliava sempre di esagerare con la gradazione alcolica, un po’ perché la compagna di allora gli aveva fatto notare, fino a farlo bestemmiare, che lamentarsi della taglia dei jeans e scolarsi mezzo litro di distillato di canna da zucchero non era precisamente un atteggiamento da persone equilibrate.
Poi il rum è un surrogato accessibile dell’Havana, di un sogno lontano, romantico e bugiardo, come in fin dei conti lo sono tutti.
Nel corso degli anni il rapporto con quella bomba atomica aveva avuto alti e bassi, nel senso inversamente proporzionale alla serenità del suo stato d’animo.
«Ehi, scusa, vorrei un rum.»
«Abbiamo Kraken, Matusalem,