Nemmeno le ossa: L'ottava indagine di Stella Spada
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Nemmeno le ossa - Lorena Lusetti
Lorena Lusetti
NEMMENO LE OSSA
La nuova indagine di stella Spada
Prima Edizione Ebook 2022 © Damster Edizioni, Modena
ISBN: 9788868104900
Immagine di copertina su licenza
Adobestock.com
Damster Edizioni è un marchio editoriale
Edizioni del Loggione S.r.l.
Via Piave 60 - 41121 Modena
http://www.damster.it e-mail: damster@damster.it
catalogo su
www.librisumisura.com
img1.pngLorena Lusetti
NEMMENO LE OSSA
La nuova indagine di Stella Spada
Romanzo
img2.pngINDICE
BUIO
1
2
3
4
INFERNO
5
6
7
8
PAURA
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
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33
NOTE DELL’AUTRICE
L’AUTRICE
CATALOGO
"Hoc est sepulchrum intus cadaver non habens
Hoc est cadaver sepulchrum extra non habens
Sed cadaver idem est et sepulchrum sibi".
Tratto dalla lapide conosciuta come La Pietra di Bologna
*
BUIO
Riemergo da uno stato confuso, forse un sogno.
Avevo perso il contatto con il mio corpo e la mia mente e ora a poco a poco lo sto recuperando. Questo fatto non mi porta sollievo, anzi si stanno risvegliando dolori in varie parti del mio corpo: la testa, lo stomaco, la gola. Questo mi fa ricordare che ho un corpo.
L’aria mi brucia i polmoni mentre cerco di respirare. Anche questa semplice azione mi costa fatica, sembra che l’ossigeno debba passare attraverso qualcosa prima di entrare nella mia bocca.
Con la presa di coscienza sale anche la paura. Non ricordo chi sono, non capisco dove sono, non so cosa mi succederà.
Sono uomo, donna o bambino? Sono vivo o sono morto? Come mi hanno ucciso?
Provo ad aprire gli occhi. Bruciano ma lentamente si aprono. Non vedo niente, solo il buio, qualcosa mi impedisce di vedere, ho una cortina davanti al viso, forse una benda, una stoffa. O forse no.
Da quanto tempo sono qui? Per quanto tempo ci starò? Il panico mi avvolge.
Provo un movimento degli arti. Mi rispondono ma restano immobili. Sono legati.
Vorrei vomitare, vorrei andare in bagno, vorrei bere.
Ora ricordo chi sono, non sono una creatura del buio, non ho fatto nulla per meritare tutto ciò.
Allora è questa la morte?
1
Accidenti a Carlo, accidenti a lui e alla sua bicicletta. Non avrebbe dovuto prestarmela, nemmeno dietro le mie pressanti insistenze. Questo catorcio, che risale di certo alla prima guerra mondiale, non ha i freni funzionanti, la luce poi non esiste proprio, il sellino sembra di legno e gli ammortizzatori non li avevano ancora inventati nell’anno della sua costruzione.
Accidenti accidentaccio! Se solo non lo avessi fatto fuori ora potrei insultarlo come si deve. Carlo. Che poi tecnicamente non sono stata io è stato Draco che lo ha fatto mangiare dai suoi maiali. Era quel caso di droga che ho seguito tempo fa, che poi con la droga non aveva niente a che fare. Ma quella è un’altra storia.
Comunque non è questo il punto, il punto è che per colpa di quello schifo di bicicletta che mi ha prestato Carlo, e che dopo la sua sparizione non ho più potuto rendergli, io mi sono capottata con la ruota davanti incastrata nell’avvallamento di un tombino e mi sono rotta la gamba in due punti. Ecco qual è il punto. Grazie al nostro ottimo sistema sanitario estremamente zelante, che tende ad abundare piuttosto che deficere, ora mi ritrovo con un gesso dall’inguine alle dita dei piedi che mi dovrò tenere per un mese e mezzo.
Non posso permettermi di rimanere ferma così tanto tempo, ho un’Agenzia da mandare avanti io.
Mi chiamo Stella Spada e sono una investigatrice privata. Nella mia agenzia lavoro solo io, e se non lo faccio non posso pagare l’affitto del mio studio. Quest’ultimo si trova nel cuore antico di Bologna, nel Ghetto Ebraico, proprio sotto le due Torri: in via dell’Inferno. C’è pure una targa in ottone scintillante davanti al portone, amorevolmente lucidata dall’amica Alda, la quale abita nello stesso antico palazzo assieme ad un enorme cane sanbernardo di nome Filippo.
Agenzia investigativa Spada
.
In effetti non sono proprio da sola, da qualche mese ho con me uno stagista, un ragazzo di nome Giacomo Puccini. È giovane, simpatico, esuberante e alla sera lavora in una radio locale. E soprattutto non è retribuito. Gli ho promesso che un giorno lo assumerò ma non sono certa che questo accadrà. I miei incassi sono altalenanti, non posso permettermi di pagargli uno stipendio fisso. Magari si stanca del mio continuo rimandare e mi abbandona, comunque per il momento rimane, lo entusiasma poter imparare le tecniche di investigazione e affrontare gli eccitanti casi che si presentano ad una agenzia investigativa. Eccitanti poi mica tanto, di solito sono noiosi pedinamenti e ancora più noiosi appostamenti per seguire le mosse di qualcuno per riportarle poi a chi ci paga la parcella. Devo ammettere però che Giacomo mi è tornato utile nel caso che ci ha portati sul Lago di Suviana, dove ha persino rischiato di lasciarci le penne il mio povero stagista. Ma quella è un’altra storia ancora.
Fatto sta che ora mi ritrovo con una intera gamba ingessata con grosse difficoltà negli spostamenti, riesco a malapena a trascinarmi da una stanza all’altra per andare nel bagno da sola, ma per le lunghe distanze ho bisogno di una sedia a rotelle e di qualcuno che la spinga. Le scale poi si sono rivelate un vero tormento.
A questo proposito devi ringraziare mio marito Piero, anzi il mio ex marito. Sempre gentile e disponibile, purtroppo, ben contento di essere tornato utile e di poter esercitare il suo istinto da crocerossina su di me. Sono stata costretta a tornare in casa con lui per questo periodo, devo ammettere che da sola non avrei potuto farcela, cosa che però ha causato ulteriori problemi. Il fatto di essere in questo stato ha peggiorato il mio umore, già di per sé ben poco solare e l’idea di dipendere da Piero per le mie necessità non migliora la situazione.
Poi c’è Simone, mio figlio, che frequenta il primo anno del DAMS e vive con Piero. Gli fa strano vedermi circolare per casa, prova goffamente a darmi una mano, non sa nemmeno come. Una cosa positiva di questa situazione è che ho ritrovato con Simone una specie di complicità, una vicinanza che non avevo da molto tempo, che forse non ho mai avuto. Ci guardiamo di sottecchi, ciascuno di noi sente che c’è un legame che ci unisce, basterebbe ritrovare quel filo e seguirlo. Non so se ci riusciremo. Ogni tanto lo spio mentre studia o guarda lo schermo del suo cellulare. Ne osservo il contorno del viso, il colore dei capelli, cerco somiglianze e differenze. Vorrei andargli vicino e annusarlo per ritrovare gli odori di quando era piccino. Non è ancora il momento di farlo, ci siamo allontanati tanto. Per ora mi godo questi istanti in cui posso guardarlo di nascosto, poi, magari, con il tempo, chissà, forse potrò recuperare un po’ dell’intimità perduta.
2
Scendiamo lentamente le scale di casa, Piero davanti e io dietro che mi reggo alle sue spalle robuste. Con una lentezza indicibile, un gradino alla volta arriviamo al piano terra, dove mi accascio su una sedia rotelle, gentile prestito di un vicino di casa, recuperata dalla cantina dove probabilmente l’aveva messa suo nonno i primi anni del secolo scorso. Aspetto che Piero porti l’auto di fronte a casa poi mi avvio cercando di spingere con le mani le ruote cigolanti e durissime. Quando mi rendo conto che nonostante i miei sforzi immani sono riuscita ad avanzare solo pochi centimetri la belva che dimora dentro al mio stomaco emerge prepotente provocandomi un eccesso d’ira che devo sfogare con il primo che mi capita a tiro: Piero.
— Alla buon’ora! Credevo volessi lasciarmi su questa seduta da fachiro fino a sera! La seduta di questa sedia è dura come il marmo, fortuna che sono protetta da un cuscino naturale da quelle parti.
— Ci ho messo appena pochi minuti, avevo parcheggiato nell’altra strada. Lo so che è dura Stella, ma porta pazienza, finirà presto.
Intanto ha già cominciato a sollevarmi per farmi entrare nell’auto. Piero è sempre così tranquillo, pacato, ragionevole, riflessivo, un vero tormento insomma. Riesce a tirare fuori la parte peggiore di me.
— E magari vedi di guidare senza troppi scossoni, lo sai che ogni sobbalzo mi procura delle fitte terribili.
Non è vero, ma questo lui non può saperlo. Ad una velocità da bradipo in qualche modo, dopo un tempo infinito, riusciamo ad arrivare sotto il mio studio dove mio marito mi aiuta ad uscire dal seggiolino posteriore e mi rimette sulla sedia da fachiro che aveva stivato nel bagagliaio.
— E adesso come ci arrivi fino allo studio al secondo piano? Ma quando ti deciderai ad abbandonare questo posto impossibile e ad affittare qualche stanza in un palazzo più moderno, magari pure con l’ascensore?
— Tu non ti preoccupare, ora arriva Giacomo e mi porta di sopra lui. Grazie Piero, sono a posto, puoi pure andare ora.
Lo so che ha ragione, che questo ufficio è un inutile spreco di spazio e di soldi, dato che l’affitto è ingente. Per non parlare delle scale, nessuno nota le scale fino a quando arriva il momento che non riesci più a farle. Sono larghe, i gradini altissimi, semi buie e sembrano non finire mai. Non c’è posto per inserirvi un ascensore per aiutare chi come me ha problemi di deambulazione.
— Che fai ancora qui Piero? Ti ho detto che puoi andare.
— Ma non ti lascerò mica qui sola in mezzo al vicolo no? Aspetto che arrivi Giacomo.
— Non c’è bisogno ti assicuro. Vai, vai pure. Giacomo arriva subito.
Non si muove.
— Ti ho detto vai, guarda che arrivi tardi in ufficio. Ci vediamo questa sera.
Se ne va a malincuore, io non vedo l’ora che sparisca dalla mia vista. Se ci siamo lasciati ci sarà un perché. Più che qualche ora non riesco a reggere la sua gentilezza. Non me la merito e non la voglio. Lo vedo salire sull’auto e allontanarsi, non prima di avermi nuovamente salutata dal finestrino con la mano. Tiro un sospiro di sollievo. Finalmente da sola, respiro a pieni polmoni la mia ritrovata autonomia.
La mia gioia dura davvero poco, appena cerco di muovere queste maledette ruote arrugginite capisco che da sola faccio veramente poca strada. Dopo avere fatto alcuni metri mi alzo in piedi aiutata dalle stampelle che Piero mi ha amorevolmente infilato nello schienale, abbandono la mia carrozza e mi avvio trascinando la gamba rigida verso il bar Da Benito, situato a poca distanza sotto il portico del vicolo.
È uno sforzo notevole, che faccio imprecando ad ogni passo. All’arrivo mi accascio su una sedia fradicia di sudore.
— Ehi Stella, come hai fatto a trascinarti qui da sola con quel gambone? — mi dice Benito avvicinandosi al mio tavolino.
— Lascia stare per favore, lascia stare. Portami un cappuccino e un paio di paste, ho bisogno di recuperare un po’ di energie.
— Ma certo, poi se hai bisogno di una mano per salire allo studio fammelo sapere, posso pure portarti in braccio se vuoi.
Potrebbe farlo senza sforzo, Benito è un omone grande e grosso, con i muscoli ben in vista, il cranio pelato con una svastica tatuata sopra, retaggio di una adolescenza turbolenta poi rinnegata. Mette paura ma è un buon diavolo in fondo.
— No, grazie, tra un po’ arriva Giacomo e mi aiuta. Però un favore me lo puoi fare. Potresti andare a recuperare la mia sedia che è laggiù e dare un po’ di olio alle ruote che sembrano inchiodate?
— Certo, ora ci vado. Prima però ti porto la colazione.
Un moto di gratitudine mi sommerge, lo abbraccerei ma mi trattengo, non vorrei che si facesse qualche strana idea.
Amo stare sotto al portico del vicolo a guardare la varia umanità che mi scorre davanti. Mi piace immedesimarmi nei passanti, immaginare quale sia la loro vita, fantasticare su come si svolgerà la loro giornata. I ragazzi che passano di corsa li penso sempre diretti verso l’università per una lezione oppure per dare un esame. Osservando l’abbigliamento delle signore cerco di capire se stanno andando in ufficio oppure a fare shopping ozioso tra le belle vie del centro. Oggi è più facile capire qualcosa dei passanti, basta ascoltare i pezzi dei discorsi che stanno facendo al telefono, perché tutti, ma proprio tutti sono impegnati a parlare al cellulare mentre camminano. Sembra che sia diventato impossibile deambulare senza parlare, come se le due cose fossero inscindibili.
Mai come ora, a causa del mio handicap, noto con un pelo di invidia chi procede speditamente, o magari corre. Si fa caso all’importanza delle cose solo quando vengono a mancare. Così come fino a qualche tempo fa non avrei mai soffermato lo sguardo e l’attenzione sul mio vicino di tavolino. Anche lui sembra osservare i passanti con interesse, anche lui solo con un caffè e due paste, anche lui su una sedia a rotelle.
Osservando un uomo anziano, ricurvo sul suo bastone al quale si appoggia per camminare, immerso in una accesa conversazione al cellulare, finisco per incrociare lo sguardo con il vicino di tavolo, che mi abbozza un sorriso e alza la tazzina in segno di saluto. Faccio altrettanto, increspando appena un lato delle labbra, poi mi volto, non sono solita dare confidenza agli estranei. A dire il vero non amo creare rapporti proprio con nessuno. Con la coda dell’occhio vedo che spinge con le sue braccia muscolose le ruote di una carrozzina di dimensioni ridotte, molto tecnica e moderna, per arrivare più vicino a me.
— Buongiorno, va meglio dopo il caffè?
Vorrrei ignorarlo ma non è proprio possibile.
— Dici a me? Sì, certo, mi ci voleva proprio.
Mi allunga la mano.
— Mi chiamo Franco, piacere di conoscerti.
— Io sono Stella, ho lo studio proprio qui di fronte.
— So chi sei, ti vedo spesso passare. Ho un negozio qui di fianco nel vicolo, vendo quadri.
— Quadri tuoi o di altri?
Io che faccio conversazione con il primo venuto? Oggi deve essere una giornata speciale, mi stupisco di me stessa, forse anche questo fa parte del cambiamento che sto cercando di attuare su di me.
— Di altri perlopiù, ma anche alcuni miei. Pochi perché quando finisco un quadro poi faccio fatica a separarmene.
Annuisco, bevo il caffè, riprendo la mia attività di osservazione dei passanti. Non so più cosa dire. Il mio vicino rimane lì, ha appoggiato la tazzina sul mio tavolo.
— Secondo te quello dove sta andando? Vestito casual di prima mattina, non in ufficio, non a fare sport, troppo curato, non a fare spese, cammina troppo spedito.
— Va dall’amante, ci potrei giurare.
Mi accorgo di avere fatto il suo gioco, si è creata tra noi una complicità, sembra essere entrato nei miei pensieri e questo non è normale. Deve essere per l’handicap che ci accomuna. Mi volto e lo guardo attentamente. Ha un profilo greco, con il naso che scende dalla fronte quasi senza angolazione, una barba appena accennata dal disegno curato, i capelli corti castani brizzolati, due profondi occhi verdi intelligenti e indagatori. Fisico e braccia muscolosi. Le gambe stridono nel contrasto per la loro magrezza, sono lunghe però, deve essere alto.
Vorrei vederlo in piedi, passare di corsa davanti al bar per andare ad aprire il suo negozio, magari parlando al cellulare senza degnarmi di uno sguardo.
— Lo so cosa stai pensando.
Arrossisco violentemente, la cosa non mi piace affatto.
— Stai pensando che vorresti vedere i miei quadri e che forse ce ne potrebbe essere uno che sta a pennello nel tuo studio.
Ho l’impressione che sapesse bene a cosa stavo veramente pensando ma ha voluto fornirmi una scappatoia per non crearmi imbarazzo. Gli sorrido, un sorriso sincero questa volta, ma cosa mi prende? Io non sono nemmeno capace di sorridere.
Intanto il caffè e soprattutto le paste stanno facendo circolare caffeina e zuccheri nel sangue mettendo in moto i neuroni, mi rendo conto che devo andarmene in fretta.
3
Giacomo fa finalmente capolino dall’angolo del vicolo. Lui non cammina, saltella, ha le cuffiette piantate nelle orecchie, canticchia una canzone che sente solo lui. Sembra tranquillo e senza pensieri, se ne va in giro ostentando sfacciatamente la sua giovane età e la sua energia.
Mi è già tornato il malumore.
Mi sbraccio per farmi notare da lui che dopo un po’ mi vede e si apre in un ampio sorriso. È bello Giacomo. Quando sorride come ora gli si formano