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La sacerdotessa di Avalon
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La sacerdotessa di Avalon
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La sacerdotessa di Avalon

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Il quarto romanzo del Ciclo di Avalon. La leggenda di Helena, principessa di Britannia, imperatrice di Roma, sacerdotessa di Avalon.

Una storia che parla di magia e di fede, spingendosi ben oltre il racconto delle tradizioni pagane e cristiane per esprimere una verità più profonda.” - Library Journal

"Un romanzo in cui la ricchezza di dettagli storici e i sentimenti femministi si fondono per dare vita a una storia vibrante di magia, avventura e romanticismo.” - Publishers Weekly

La bambina nata al Volgere dell’Autunno, mentre la notte cedeva all’alba, vedrà il Volgere dell’Epoca, il passaggio tra due mondi.

Sono queste le parole che salutano la nascita di Eilan, figlia della Somma Sacerdotessa di Avalon, mentre sua madre esala l’ultimo respiro. Poi la piccina viene mandata dal padre, il principe Coelius, e nella sua casa viene chiamata Helena e cresciuta come una romana. Finché nel 259 d.C., compiuti dieci anni, non fa ritorno al mitico luogo in cui è venuta al mondo, per essere addestrata come sacerdotessa contro il parere di sua zia Ganeda.

Qui, nonostante l’ostilità di Ganeda, esacerbata dal dolore per la perdita della sorella, Helena riceve il dono della Vista, e nella notte di luna piena della propria iniziazione ha una visione dell’uomo che amerà per tutta la vita: è un romano, si chiama Constantius, e le darà un figlio la cui luce risplenderà da un capo all’altro del mondo. Un figlio che libererà la Britannia dalla tirannia dei Romani. Ma per seguire il suo cuore e adempiere al proprio destino, Helena dovrà tradire le sue sorelle, voltare le spalle alla sicurezza di Avalon e abbracciare una nuova vita nella pericolosa città del nemico…

Quarto volume del Ciclo di Avalon, La sacerdotessa di Avalon, riproposto in versione integrale e nella nuova traduzione di Flavio Santi, racconta la leggenda di Helena, principessa di Britannia, moglie dell’imperatore romano Costanzo Cloro, madre di Costantino I e sacerdotessa di Avalon.

Pubblicato postumo con la collaborazione di  Diana L. Paxson, è un romanzo di ampio respiro che fonde Storia, mito, magia e romanticismo in una rivisitazione in chiave femminista di una delle leggende più suggestive sulla figura di Sant’Elena.

LanguageItaliano
Release dateOct 11, 2022
ISBN9788830591622
La sacerdotessa di Avalon
Author

Marion Zimmer Bradley

Nata nel 1930 ad Albany, New Jersey, si è laureata in Letteratura nel 1964 alla Hardin Simmons University ed è stata per lungo tempo ricercatrice alla University of California di Berkeley.Ha esordito come scrittrice nel 1961 con il romanzo, The Door Through Space, e l'anno seguente il primo titolo del fortunato Ciclo di Darkover, La spada di Aldones, l'ha consacrata tra le più famose autrici di narrativa fantastica a livello mondiale. Pubblicato nel 1982 e considerato il suo capolavoro, Le nebbie di Avalon ha raggiunto in tutto il mondo i vertici delle classifiche, compresa quella del New York Times, e nel 1984 ha vinto il Locus Award come miglior romanzo fantasy. Autrice di oltre sessanta romanzi e numerose raccolte di racconti tradotti in venti lingue, Marion Zimmer Bradley si è spenta a Berkeley nel 1999, a soli sessantanove anni.

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    Book preview

    La sacerdotessa di Avalon - Marion Zimmer Bradley

    PARTE PRIMA

    LA STRADA DELL’AMORE

    1

    259 d.C.

    «Oh! Vedo l’acqua scintillare alla luce del sole! È il mare?» Affondai i talloni nei fianchi tondeggianti della mia puledra per affiancarmi al cavallo di Corinthios. L’animale si mise al trotto e io dovetti aggrapparmi alla criniera.

    «Ah, Helena, i tuoi giovani occhi vedono meglio dei miei» commentò il vecchio, che era stato il precettore dei miei fratellastri prima di ricevere l’incarico di istruire la figlia del principe Coelius e di una sacerdotessa di Avalon. «Un barbaglio… io vedo soltanto un labile barbaglio… Credo però che quelli che si estendono davanti a noi siano i pianori delle Terre dell’Estate, inondati dalle piogge primaverili.»

    Mi scostai una ciocca dalla fronte e scrutai il paesaggio: la distesa d’acqua era interrotta da alture simili a isolotti e attraversata da sinuosi filari di alberi. In lontananza riconobbi il profilo delle colline dove, come mi aveva raccontato Corinthios, sorgevano le miniere di piombo; in fondo, aleggiava una foschia chiara, che doveva essere l’estuario del Sabrina.

    «Allora siamo quasi arrivati?» Frenai la puledra, che scrollò la testa e si rimise al passo.

    «Oh sì, se l’acqua non ha cancellato la strada e se riusciremo a trovare il villaggio del popolo del Lago che il mio signore mi ha ordinato di cercare…»

    Lo guardai piena di compassione. Sembrava esausto. Sotto l’ampio cappello di paglia, il viso magro scavato dalle rughe, sedeva ingobbito sulla sella. Mio padre non avrebbe dovuto incaricarlo di quel viaggio, al termine del quale, tuttavia, Corinthios – un greco che in gioventù si era venduto come schiavo per garantire la dote alle sorelle – avrebbe riacquistato la libertà. Nel corso degli anni aveva accumulato un gruzzoletto con cui progettava di aprire una scuola a Londinium.

    «Arriveremo al villaggio sul Lago nel pomeriggio» annunciò la guida che si era unita a noi a Lindinis.

    «Quando saremo là, ci riposeremo» dissi.

    «Credevo fossi ansiosa di raggiungere il Tor» osservò lui in tono affabile. Forse gli sarebbe dispiaciuto perdermi, pensai, e gli sorrisi. Dopo aver fatto da precettore ai miei due fratelli, i quali pensavano soltanto alla caccia, era stato contento di avere un’allieva finalmente desiderosa di imparare.

    «Ho il resto della vita da dedicare ad Avalon» risposi. «Posso rimandare l’arrivo di un giorno.»

    «E ricominciare i tuoi studi!» rise Corinthios. «Si dice che le sacerdotesse di Avalon abbiano custodito le antiche conoscenze dei Druidi. Ebbene, sapere che non consacrerai l’esistenza a occuparti della casa e della prole di un pingue magistrato mi rende più sopportabile l’idea di perderti.»

    Sorrisi. La moglie di mio padre aveva cercato di convincermi che quella vita era la massima aspirazione per una donna, ma io avevo sempre saputo che prima o poi sarei andata ad Avalon. Avevo intrapreso il viaggio prima del previsto a causa della rivolta di un generale di nome Postumus, che aveva isolato la Britannia dall’Impero. Prive di protezione, le coste sud-orientali erano diventate facile preda di razzie, così il principe Coelius aveva deciso di mandarmi ad Avalon, dove sarei stata al sicuro, mentre lui e i figli si preparavano a difendere Camulodunum.

    Per un istante il mio sorriso svanì a quel pensiero: ero la luce degli occhi di mio padre e non sopportavo l’idea che potesse trovarsi in pericolo. Ma sapevo anche che, in sua assenza, la mia vita a casa sarebbe stata infelice. Per i Romani ero soltanto la sua figlia illegittima, non avevo parenti materni, era proibito parlare di Avalon. La mia vera famiglia era formata da Corinthios e dalla vecchia Huctia, che era stata la mia nutrice ed era morta l’inverno precedente. Dunque era giunto per me il momento di tornare nel mondo di mia madre.

    Adesso la strada scendeva giù lungo la collina tra dolci tornanti. Quando sbucammo fuori dal folto degli alberi, mi schermai gli occhi con una mano. Sotto di noi, l’acqua ricopriva la pianura come una lamina d’oro.

    «Se tu fossi un cavallo magico» mormorai alla mia puledra, «potremmo galoppare su quel sentiero dorato fino ad Avalon.»

    Ma l’animale si limitò a scuotere la testa e a masticare un ciuffo d’erba. Avanzammo lentamente, fino ai tronchi scivolosi della strada rialzata. Al di là dell’erba grigia della tarda estate che ondeggiava nell’acquitrino, intravidi i canneti che costeggiavano i canali e le pozze d’acqua. Nei tratti più profondi l’acqua era scura, piena di mistero. Mi chiesi quali spiriti abitassero le paludi, luoghi in cui gli elementi erano così confusi che non si riusciva a distinguere l’acqua dalla terra. Rabbrividii e tornai a guardare la luce del giorno.

    Mentre il pomeriggio filava verso il crepuscolo, una foschia iniziò a sollevarsi dall’acquitrino. Rallentammo ancora di più, lasciando che fossero i cavalli a stabilire l’andatura su quei tronchi scivolosi. Cavalcavo da quando sapevo camminare, ma, fino ad allora, avevo sempre percorso tappe brevi, proporzionate alle mie forze di bambina. In quell’ultimo giorno di viaggio, invece, eravamo rimasti in sella per parecchie ore, la schiena e le gambe mi facevano male, perciò sarei stata felice di smontare.

    Una volta sbucati fuori dagli alberi, la guida si fermò a indicare qualcosa: dagli acquitrini e dai boschi spuntava una collina appuntita. Avevo lasciato quel luogo ad appena un anno di età, eppure, con una certezza che superava ogni vago ricordo, riconobbi il sacro Tor. Lambito dagli ultimi raggi del giorno, sembrava ardere di luce propria.

    «L’Isola di Vetro…» mormorò Corinthios, spalancando gli occhi pieni di stupore.

    Ma non è Avalon…, mi dissi, ricordando le storie che avevo ascoltato. Il gruppo di capanne ad alveare ai piedi del Tor era abitato dalla piccola comunità cristiana che viveva lì. L’Avalon dei Druidi era avvolta dalle nebbie che separavano questo mondo da quello del regno di Faerie.

    «E quello è il villaggio del popolo del Lago» spiegò la guida, indicando le volute di fumo che vorticavano in cielo oltre i salici. Poi tirò le redini del suo cavallo, e tutti gli altri, intuendo la fine del viaggio, ripartirono di slancio.

    «Noi la barca ce l’abbiamo, ma per andare ad Avalon occorre una sacerdotessa. È lei che decide se sarete i benvenuti. Avete intenzione di partire subito? Volete che ve la chiami?» Le parole del capotribù erano molto rispettose, anche se il suo portamento non lo era altrettanto. Da quasi trecento anni il suo popolo era a guardia dell’ingresso ad Avalon.

    «Non questa notte» rispose Corinthios. «La fanciulla ha affrontato un lungo viaggio, lasciamola riposare, prima che incontri gli abitanti di quella che sarà la sua nuova casa.»

    Gli strinsi una mano con gratitudine. Ero ansiosa di arrivare ad Avalon, ma, giunta al termine del viaggio, ero anche dolorosamente consapevole che non avrei più rivisto Corinthios, e soltanto in quel momento mi resi conto di quanto gli ero legata. Avevo pianto alla morte della mia nutrice, avrei pianto separandomi da lui, lo sapevo.

    Il popolo del Lago ci accolse in una delle sue palafitte a pianta rotonda con il tetto di paglia, a cui era ormeggiata una barca lunga e bassa collegata alla terraferma tramite un ponticello scricchiolante. Gli abitanti erano piccoli e minuti, con capelli e occhi neri. A dieci anni ero già alta come le loro donne, con cui condividevo la chioma scura. Le osservai con curiosità, perché avevo sentito dire che mia madre aveva avuto un aspetto simile, o forse, invece, sia lei sia il popolo del Lago assomigliavano agli abitanti del regno di Faerie.

    Ci venne servita una cena a base di pesce in umido e miglio insaporiti con aglio orsino, focacce d’avena cotte sulla pietra e birra leggera. Consumato quel pasto frugale, sedemmo accanto al fuoco e, troppo stanchi per muoverci, ma non ancora pronti a dormire, restammo a guardare le fiamme spegnersi lentamente fino a diventare un letto di braci che brillava tenue come il sole scomparso.

    «Corinthios, dopo che avrai aperto la tua scuola a Londinium, ti dimenticherai di me?»

    «E come potrei dimenticare la mia gemma, splendente come i raggi di Apollo, quando mi dannerò l’anima a far entrare gli esametri latini nella zucca vuota di una dozzina di mocciosi?» Il viso scavato del precettore si increspò in un sorriso.

    «In questo paese del Nord» replicai, «il sole dovrebbe chiamarsi Belenos.»

    «Parlavo dell’Apollo degli Hyboriani, piccola mia. Ma non importa…»

    «Lo credi davvero?»

    Corinthios inarcò un sopracciglio. «Un unico sole risplende qui e nel paese in cui sono nato, anche se lo chiamiamo con nomi diversi. Nel regno delle Idee i grandi princìpi dietro le forme che noi vediamo sono gli stessi.»

    Corrugai la fronte nel tentativo di comprendere le parole del mio precettore. Aveva cercato di spiegarmi la filosofia di Platone, ma la trovavo ostica. Ogni luogo che visitavo aveva il suo spirito, unico come ogni anima umana. Quella regione, che chiamavano Terre dell’Estate, con le sue colline, le sue foreste selvagge, le sue paludi nascoste, mi appariva diversissima da Camulodunum, con i vasti campi pianeggianti e i boschi familiari. Se ciò che avevo sentito raccontare era vero, Avalon mi sarebbe sembrata ancora più estranea. Com’era possibile, dunque, che i loro Dei fossero gli stessi?

    «Credo piuttosto che sarai tu, piccola mia, con la lunga vita che ti attende, a dimenticarti presto di me» ribatté Corinthios. «Che c’è, figliola?» Si chinò a scostare la ciocca che mi nascondeva gli occhi. «Hai paura?»

    «Cosa… cosa succederà se a loro non piacerò?»

    Corinthios mi accarezzò i capelli, poi sospirò. «Dovrei dirti che tutto ciò non ha importanza per il vero filosofo e che la persona virtuosa non ha bisogno dell’approvazione di nessuno. Ma questa risposta sarebbe di conforto per una bambina? Tuttavia è la verità. Comunque ti comporterai, incontrerai sempre qualcuno a cui non piacerai e, quando succederà, potrai soltanto provare a servire la Verità come la intendi tu. Ma sono certo che, se hai conquistato il mio cuore, altri sapranno amarti allo stesso modo. Cerca chi ha bisogno del tuo amore e sarai ricambiata.»

    Quelle parole mi confortarono. Ero una principessa e un giorno sarei diventata una sacerdotessa, non dovevo permettere che mi si vedesse piangere!

    Da fuori si udirono dei rumori. La tenda di pelle si aprì e apparve un ragazzino: teneva in braccio un cucciolo che si divincolava. Anche la moglie del capotribù lo vide e lo rimproverò nella lingua del Lago. Riconobbi la parola cane e compresi che gli aveva ordinato di riportare fuori il cagnolino.

    «Oh, no!» esclamai. «Adoro i cuccioli! Posso vederlo, per favore?»

    La donna sembrava dubbiosa, ma Corinthios annuì. Sorridendo, il ragazzo si avvicinò e mi porse il cucciolo. Prendendo in braccio quel batuffolo di pelo zampettante, sorrisi a mia volta. Non apparteneva alla nobile razza dei cani che erano soliti oziare signorilmente nel salone della domus di mio padre: era troppo esile, aveva la pelliccia color burro già troppo folta e la coda troppo incurvata. Però gli occhietti marroni erano vispi e curiosi. Da sotto il nasino umido e nero penzolava una lingua rosa e calda che mi leccava una mano.

    «Ehi, ehi! Ma quanto sei dolce!» Lo strinsi al petto, ridendo mentre cercava di leccarmi anche la faccia.

    «È un bastardino… e anche poco educato…» osservò Corinthios, che non amava gli animali. «E probabilmente pure pieno di pulci…»

    «Oh no, mio signore» replicò il ragazzino. «È un cane magico!»

    Corinthios inarcò un sopracciglio con fare eloquente e il ragazzino si incupì.

    «È vero!» insistette. «Capita. La mamma si perde. Per due o tre giorni. Ha un solo cucciolo, bianco come questo. I cani magici vivono a lungo e, se non vengono uccisi, da vecchi scompaiono di colpo. Sono cani che vedono gli spiriti e conoscono la via per l’aldilà!»

    Godendomi il calore di quella creatura tra le braccia, affondai il viso nella pelliccia morbida per nascondere un sorriso, perché non volevo mancare di rispetto agli adulti del popolo del Lago che stavano annuendo solennemente.

    «È una lei» continuò il ragazzino. «È un dono, ti proteggerà.»

    Trattenni una risata al pensiero che quell’ammasso di pelo potesse proteggere qualcuno, poi sollevai la testa e sorrisi.

    «Ha un nome?»

    Il ragazzino scrollò le spalle. «Lo conosce il popolo del regno di Faerie. Forse un giorno te lo dirà lei stessa.»

    «Fino a quel giorno la chiamerò Eldri, perché è bianca e delicata come un fiore di sambuco… elder nella vostra lingua, giusto?» chiesi, mangiandomela con gli occhi, poi mi rivolsi a lui. «E tu… hai un nome?»

    Il viso olivastro avvampò. «Sì… Otter… che nella nostra lingua significa lontra» rispose, mentre gli altri ridevano.

    Pensai che fosse un soprannome e che, al momento dell’iniziazione, ne avrebbe ricevuto un altro che sarebbe stato usato all’interno della tribù. Come avrei dovuto rispondergli? Il popolo di mio padre mi conosceva come Iulia Helena, nome che però mi sembrava inadatto alla circostanza.

    «Grazie» risposi. «Mi puoi chiamare… Eilan.»

    Mi risvegliai da un sogno pieno di acque e sbattei le palpebre alla luce del mattino. Nel sogno avevo navigato su una barca lunga e piatta, che era scivolata silenziosamente tra le nebbie fitte finché non si erano diradate svelando una rigogliosa isola verde. Poi il paesaggio era cambiato: mi ero ritrovata a bordo di un’imbarcazione che si stava avvicinando a una palude immensa e al delta tortuoso e labirintico di un grande fiume. Quindi era apparsa una terra di rocce e sabbie dorate, lambite da un mare blu cobalto. Ma l’isola verde restava il luogo più bello. Poche volte nella mia vita i sogni si erano avverati. Mi chiesi se sarebbe accaduto con quello, il cui ricordo però stava già svanendo. Con un sospiro scostai le pellicce in cui ero avvolta, e sulle quali era accucciata Eldri, e mi sfregai gli occhi. Accoccolata accanto al fuoco, intenta a bere da una rozza tazza di argilla, c’era una donna che non avevo mai visto prima. Notai la sua lunga treccia castana e il mantello celeste, poi vidi il simbolo delle sacerdotesse sulla fronte. La mezzaluna azzurra era ancora vivida e il viso liscio era quello di una ragazza. Dunque era stata iniziata da poco. Come se avesse avvertito la mia attenzione, si voltò: di fronte al suo sguardo distaccato e senza età abbassai gli occhi.

    «Il suo nome è Suona» spiegò Corinthios, posandomi una mano sulla spalla. «È arrivata all’alba.»

    Mi domandai in che modo il capotribù l’avesse chiamata. Il messaggio era stato portato da una donna del regno di Faerie oppure era stato trasmesso con qualche incantesimo?

    «È lei?» domandò Suona.

    «È la figlia del principe Coelius di Camulodunum» rispose Corinthios. «Ma sua madre veniva da Avalon.»

    «Sembra troppo grande per iniziare il percorso.»

    Corinthios scosse la testa. «È molto sviluppata per la sua età, ma ha solo dieci inverni. Helena ha ricevuto una buona istruzione: ha imparato a pensare con la sua testa e a svolgere le mansioni femminili. Inoltre, sa leggere e scrivere in latino e conosce un po’ di greco. E conosce anche i numeri.»

    Suona non sembrava molto impressionata, così sollevai il mento, affrontando i suoi occhi neri. Per un attimo provai una strana sensazione, una specie di formicolio, come se qualcosa mi avesse toccato la mente. Poi la sacerdotessa annuì e la sensazione svanì. Per la prima volta si rivolse direttamente a me.

    «Andare ad Avalon è il tuo desiderio oppure quello di tuo padre?»

    Sentii un tuffo al cuore, ma, con mio grande sollievo, riuscii a rispondere con fermezza: «Io voglio andare ad Avalon».

    «Non appena la piccola avrà finito di fare colazione, saremo pronti per partire» dichiarò Corinthios, ma la sacerdotessa scosse la testa.

    «Partirà solo la bambina. Non tu. È proibito agli stranieri vedere Avalon. Tranne quando vi sono chiamati dagli Dei.»

    Per un istante il vecchio sembrò sgomento, poi piegò la testa.

    «Corinthios!» esclamai con gli occhi pieni di lacrime.

    «Non importa…» disse lui, accarezzandomi un braccio. «Per il filosofo tutti gli affetti sono transitori. Devo cercare di avere un maggiore distacco, ecco tutto.»

    Gli afferrai la mano. «Ma non sentirai la mia mancanza?»

    Lui chiuse gli occhi per qualche secondo, poi emise un lungo sospiro.

    «Certo che sentirò la tua mancanza, cuoricino mio» rispose con un filo di voce. «Anche se tutto ciò è contrario alla mia filosofia. Ma tu troverai nuovi amici e imparerai nuove cose, non temere.»

    Sentii Eldri muoversi sul mio grembo e la mia angoscia iniziò ad attenuarsi.

    «Non ti dimenticherò!» esclamai con slancio, e lui mi regalò un sorriso radioso.

    Le mie dita si strinsero al parapetto della chiatta mentre, sotto la spinta dei pali dei barcaioli, scivolava lontano dalla riva. Durante la notte si era alzata di nuovo la nebbia, e il mondo intorno al villaggio sembrava più trasognato che reale. Solo una volta ero salita su una barca, per attraversare il Tamesis a Londinium, e mi ero sentita sopraffatta dalla spinta tremenda e feroce del fiume; quando avevamo raggiunto l’altra sponda avevo quasi pianto perché non mi era stato possibile seguire la corrente fino al mare.

    Sul Lago, invece, provai soprattutto una sensazione di profondità, il che poteva sembrare strano, dal momento che i pali toccavano il fondale e io riuscivo a intravedere l’ondeggiare delle canne sotto la superficie dell’acqua.

    Quello che si mostrava agli occhi, però, mi pareva un’illusione, perché sentivo altre acque scorrere sotto il fondale del Lago. Allora mi resi conto di aver provato quella sensazione non appena avevamo cominciato ad attraversare le paludi, anzi, quando eravamo ancora sulla terraferma. Lì, sul Lago, il confine tra l’acqua e la terra era labile e indeterminato come quello tra il mondo dei vivi e l’aldilà.

    Osservai incuriosita la donna che sedeva a prua, avvolta in un cappuccio e un mantello azzurri. Per diventare sacerdotessa era dunque necessario distaccarsi così tanto dai sentimenti umani? Anche Corinthios predicava il distacco, ma sapevo che sotto la sua tunica da filosofo batteva un cuore. Quando diventerò una sacerdotessa non dimenticherò mai cos’è l’amore, promisi a me stessa.

    Come avrei voluto che al mio anziano precettore fosse stato permesso di accompagnarmi per l’ultimo tratto del viaggio! Continuava a salutarmi dalla sponda e, anche se mi aveva detto addio con la compostezza di un vero stoico, mi era sembrato di scorgere nel suo sguardo il luccichio delle lacrime. Mi asciugai gli occhi e agitai con forza il braccio, poi il primo velo di nebbia si frappose fra noi e tornai a sedermi.

    Per fortuna avevo ancora con me Eldri, accoccolata al sicuro tra le pieghe della veste all’altezza della cintura. Sentivo il suo calore contro il petto e, attraverso il tessuto, la accarezzai per tranquillizzarla. La cagnolina non si era agitata né aveva abbaiato, come se avesse compreso la necessità di restare in silenzio. Finché fosse rimasta nascosta, nessuno avrebbe potuto impedirmi di portarla ad Avalon.

    Scostai i lembi della tunica e sorrisi ai due occhietti luminosi che mi fissavano, poi mi avvolsi di nuovo nel mantello.

    La nebbia si stava infittendo in dense matasse a pelo d’acqua, come se non soltanto la terra, ma anche l’aria si stesse dissolvendo nel liquido grembo primordiale. Degli elementi pitagorici che Corinthios mi aveva insegnato mancava solo il fuoco. Feci un respiro profondo: ero turbata, ma anche stranamente rassicurata, come se qualcosa dentro di me riconoscesse e accogliesse quell’unione proteiforme.

    Eravamo ormai lontani dalla riva e i barcaioli cominciarono a spingere la chiatta immergendo i remi nell’acqua. A poco a poco il villaggio di palafitte svanì nella foschia. Poi anche il Tor sparì. Per la prima volta avvertii un brivido di paura.

    Ma Eldri mi riscaldava il cuore e la giovane sacerdotessa sedeva tranquilla a prua, serena in viso. Nonostante il suo aspetto semplice, per la prima volta capii cosa intendeva dire la mia nutrice quando mi esortava a sedere come una regina.

    All’improvviso, anche se non avevo visto nessun segnale, i barcaioli sollevarono i pali e li misero da parte. La chiatta continuò a galleggiare lentamente, mentre le ultime onde generate al suo passaggio si allargavano tutt’intorno. Sentii una specie di pressione nelle orecchie e scossi la testa per scacciarla.

    Finalmente la sacerdotessa si mosse, gettò il cappuccio all’indietro e si alzò. Ben salda sulle gambe, sollevò le braccia per un’invocazione: sembrava molto più alta. Inspirò. Il suo viso dai tratti semplici divenne di una bellezza sfolgorante. Gli Dei devono essere così…, mi dissi, mentre Suona scandiva una sequenza di sillabe musicali in una lingua che non avevo mai sentito prima di allora.

    Subito dopo fui strappata a quei pensieri, attirata dai banchi di nebbia che avevano cominciato a muoversi. A differenza dei barcaioli, che si erano coperti gli occhi, io continuai a guardare le nubi grigie, che iniziarono a brillare di un arcobaleno multicolore. La luce roteò da oriente a occidente, i colori si fusero e separarono la realtà circostante dal Tempo. Per un’assurda, impossibile eternità restammo sospesi tra due mondi. Infine, con un’ultima esplosione di luce, la nebbia diventò una foschia luminosa.

    Suona ricadde sulla panca, la fronte madida di sudore. I barcaioli riacciuffarono i pali e ripresero a spingere, come se quella fosse stata soltanto una pausa per far riposare le braccia. Io esalai un respiro che, senza essermene resa conto, avevo trattenuto a lungo. Devono essere abituati a questo… fenomeno…, immaginai, stordita. Ma com’è possibile abituarsi a un tale prodigio…?

    Per alcuni istanti, sebbene i barcaioli continuassero a spingere, sembrò che fossimo fermi. Poi quella nebbia luccicante si dissipò e il Tor ci venne incontro. Non appena riconobbi la meravigliosa isola verde, battei le mani.

    Era diversa da come mi era apparsa in sogno. Mi ero quasi aspettata di scorgere le capanne di legno che avevo intravisto dal villaggio del popolo del Lago, ma quelle si trovavano a Ynis Witrin, l’Isola dei Preti. Sull’altra isola, Avalon, al posto delle capanne c’erano edifici in pietra. Avevo visto costruzioni romane più grandi, ma nessuna così imponente e allo stesso tempo armoniosa, nessuna ornata da simili colonne rastremate. Baciate dal sole di primavera, sembravano brillare di luce propria.

    Se fossi stata in grado di parlare, avrei pregato i barcaioli di fermare la chiatta e di illustrarmi la funzione di ciascun edificio, mentre potevo ancora ammirarli nel loro complesso. Ma l’isola si stava avvicinando troppo velocemente. Un istante dopo il fondo dell’imbarcazione toccò terra, scivolando sulla sabbia.

    Per la prima volta la sacerdotessa sorrise. Alzandosi, mi offrì la mano.

    «Benvenuta ad Avalon.»

    «Guardate… è la figlia di Rian…» I sussurri correvano veloci. Li sentii nitidamente quando entrai nella sala.

    «Non può essere… è troppo alta… Rian è morta solo dieci anni fa…»

    «Deve aver preso dal popolo del padre…»

    «Il che non la renderà gradita alla Signora…» commentò una voce seguita da una risatina.

    Deglutii. Era difficile fingere di non aver sentito, e ancor di più lo era camminare con il portamento regale e fiero di una fanciulla di una nobile casata, come mi aveva insegnato la mia nutrice. Avrei voluto fissare a bocca aperta ogni particolare della sala, come una pastorella che varcasse per la prima volta la grande porta di Camulodunum.

    Comunque alcuni dettagli non mi sfuggirono. La struttura era circolare, come le case che i Britanni costruivano prima dell’arrivo dei Romani, ma questa era in pietra. La parete esterna non superava la testa di un uomo alto, però un anello di colonne tortili dai colori vivaci, scolpite con motivi a spirale e triquetre, sosteneva un tetto inclinato. Le travi non si incontravano, lasciando così al centro un’apertura circolare da cui entrava la luce.

    Nell’ombra del colonnato rotondo le sacerdotesse apparivano luminosissime. Nel tragitto in barca attraverso le nebbie, Suona aveva indossato una tunica di pelle di daino; adesso ero circondata da un mare di azzurro. Alcune portavano i capelli raccolti in una lunga treccia che scendeva sulla schiena, come Suona, altre raccolti sul capo o sciolti sulle spalle. La luce del sole scintillava su quelle teste nude, bionde, brune, argentee, bronzee.

    Le sacerdotesse erano diverse per età e corporatura, l’unica cosa che avevano in comune era la mezzaluna azzurra disegnata sulla fronte, oltre a qualcosa di indefinibile nello sguardo… Ragionandoci sopra, capii che si trattava della serenità che avrei voluto possedere anch’io, e invece avevo lo stomaco sottosopra dall’angoscia.

    Ignorale, dissi a me stessa gravemente. Vivrai con loro per il resto della tua vita. Vedrai questa sala così tante volte che ti ci abituerai. Non c’è bisogno di fissarle, adesso, né di avere paura…

    Soprattutto adesso, conclusi, mentre le donne si scostavano e appariva la Somma Sacerdotessa. L’incertezza mi assalì quando sentii muoversi Eldri, che tenevo ancora nascosta in grembo sotto la mia veste. Avrei dovuto lasciarla nella Casa delle Vergini, ma l’avevo portata con me perché dormiva e temevo che, svegliandosi in un ambiente sconosciuto, si spaventasse e scappasse. Non avevo previsto quello che sarebbe potuto succedere se si fosse svegliata durante la mia accoglienza formale ad Avalon.

    Nel tentativo di tranquillizzarla, incrociai le braccia per stringere al petto il suo caldo corpicino peloso: era un animale magico, forse avrebbe percepito che la stavo silenziosamente implorando di rimanere calma.

    Il mormorio di sottofondo nella sala cessò quando la Somma Sacerdotessa alzò una mano. Le altre donne si disposero in cerchio, le più anziane accanto alla Signora, le più giovani, che cercavano di soffocare le risatine, in disparte. Pensai che fossero cinque, ma non osai guardarle abbastanza a lungo per accertarmene.

    Tutti gli occhi erano su di me. Con uno sforzo continuai a camminare.

    Adesso la vedevo chiaramente: Ganeda aveva ormai superato la mezza età, il suo corpo era appesantito dalle gravidanze, e i capelli, un tempo rossi, erano spolverati di un grigio color cenere. Mi fermai davanti a lei, chiedendomi quale fosse l’inchino più appropriato per rendere onore alla Signora di Avalon. La mia nutrice mi aveva insegnato come salutare le nobili di ogni rango, perfino l’imperatrice – anche se sembrava alquanto improbabile che un Caesar tornasse in Britannia.

    Se mi inchino davanti a lei come fosse una dama imperiale, non posso sbagliare, pensai. Del resto qui lei è una specie di imperatrice.

    Quando mi raddrizzai, mi sembrò di cogliere nello sguardo severo di Ganeda un lampo di divertimento, ma forse fu soltanto la mia immaginazione, perché subito dopo il suo viso tornò di marmo.

    «Così» proferì finalmente Ganeda, «sei venuta ad Avalon. Perché?» La domanda mi trafisse come un giavellotto scagliato al buio.

    La fissai, improvvisamente senza parole.

    «L’hai spaventata, povera piccola» intervenne una sacerdotessa dall’aspetto materno, con i capelli biondi che stavano cominciando a ingrigire.

    «Era soltanto una domanda, Cigfolla!» ribatté Ganeda, acida. «È mio dovere farla a chiunque arrivi qui da noi.»

    «La Somma Sacerdotessa intendeva chiederti se sei venuta qui di tua spontanea volontà oppure obbligata da qualcuno» spiegò Cigfolla. «Desideri diventare una sacerdotessa o semplicemente trascorrere un periodo di studio prima di ritornare nel mondo?» E sorrise per rassicurarmi.

    Aggrottai le sopracciglia, riconoscendo la legittimità della domanda.

    «È stato mio padre a mandarmi qui adesso per colpa delle scorrerie dei Sassoni» risposi lentamente, cogliendo nello sguardo di Ganeda qualcosa di simile alla soddisfazione. «Tuttavia» continuai, «il mio destino è sempre stato quello di tornare ad Avalon…»

    Se mai avevo avuto qualche dubbio, quel viaggio nelle nebbie lo aveva dissipato: quella era la realtà magica di cui ero sempre stata certa, in cui avevo riconosciuto il mio retaggio.

    «Il mio desiderio più sincero è quello di percorrere il cammino della sacerdotessa…»

    Ganeda sospirò. «Attenta a quello che desideri, perché potrebbe avverarsi… Comunque, la tua risposta è corretta, e alla fine spetta alla Dea decidere se accettarti, non a me. Dunque, ti do il benvenuto ad Avalon…»

    Quella fredda accoglienza suscitò un vespaio di mormorii tra le sacerdotesse. Era chiaro che mia zia non gradiva la mia presenza ad Avalon. Senza dubbio sperava che fallissi. Cercai di non piangere.

    Non fallirò!, promisi a me stessa. Studierò come una matta, più di qualsiasi altra allieva, e diventerò una grande sacerdotessa! Così famosa che il mio nome sarà ricordato per mille anni!

    Ganeda sospirò di nuovo. «Vieni…»

    Con il cuore che mi batteva così forte che temevo di svegliare Eldri, mi avvicinai a lei. La Somma Sacerdotessa aprì le braccia. Ma è poco più alta di me!, pensai, stupita, pronta a lasciarmi avvolgere dal suo abbraccio riluttante. Fino a quel momento mi era sembrata immensamente alta e maestosa.

    Poi Ganeda mi afferrò per le spalle e mi attirò contro il suo petto. Schiacciata tra noi due, Eldri si svegliò di colpo, uggiolando spaventata. La Somma Sacerdotessa mi allontanò come se fossi un tizzone ardente e un rossore traditore tinse le mie gote mentre il muso della cagnolina sbucava dalle pieghe della mia veste.

    Qualcuno soffocò una risata, ma lo sguardo torvo di Ganeda spense il mio impulso a ridere.

    «Che cos’è? Vuoi farti beffe di noi?» La voce rimbombò come un lontano tuono.

    «È un cane magico!» esclamai con gli occhi pieni di lacrime. «Me l’ha regalato il popolo del Lago!»

    «È un animale raro e prodigioso» intervenne Cigfolla anticipando Ganeda. «Doni come questo non capitano tutti i giorni.»

    Un mormorio di approvazione si alzò dalle altre sacerdotesse. Per un po’ l’ira di Ganeda aleggiò nella sala come l’eco di un tuono, poi, dal momento che la maggior parte delle donne lì presenti simpatizzava per me, la Somma Sacerdotessa represse la rabbia e abbozzò un sorriso.

    «È un bel dono… davvero…» commentò a denti stretti. «Ma la sala delle sacerdotesse non è il luogo adatto.»

    «Mi dispiace, mia signora» balbettai. «Non sapevo dove…»

    «Non importa» mi interruppe Ganeda. «La comunità ti sta aspettando. Vai a salutare le tue nuove sorelle.»

    Con Eldri che continuava a sporgere il musetto dalla tunica, finii tra le braccia di Cigfolla, inebriandomi del profumo di lavanda emanato dalla sua veste. Accanto a lei c’era una donna che sembrava una copia di Ganeda, ma più pallida di carnagione. Teneva in braccio una bambina dai capelli rossi come il fuoco.

    «Ti ho vista in una visione, sono felice di darti il benvenuto! Sono tua cugina Sian e questa è Dierna» disse in tono gentile. La piccola, incredibilmente bella e florida, fece un gran sorriso. Accanto a quei capelli fiammeggianti la madre sembrava ancora più pallida, come se avesse ceduto tutte le sue energie alla figlia. O forse, pensai, era vivere all’ombra di Ganeda che la privava di ogni energia.

    «Ciao, Dierna!» Strinsi una manina paffuta.

    «Due… due…» proclamò la bambina.

    «Ma certo!» risposi dopo un attimo di esitazione. A quanto pareva, era la risposta corretta, perché anche Sian sorrise.

    «Benvenuta ad Avalon» concluse, chinandosi a baciarmi la fronte.

    Almeno una parente di mia madre è felice di vedermi, mi dissi, girandomi verso un’altra sacerdotessa.

    Mentre mi muovevo nel cerchio per salutare, alcune accarezzarono Eldri, altre elogiarono la mia defunta madre. Le più giovani mi accolsero con un misto di gioia e timore reverenziale, come se mi fossi volutamente presa gioco della Somma Sacerdotessa. Roud e Gwenna avevano i capelli ramati tipici della nobiltà celtica, mentre Heron aveva la chioma scura e la corporatura snella del popolo del Lago. Aelia era alta quasi quanto me, ma i suoi capelli erano un po’ più chiari dei miei. Tuli, che guardava tutte le compagne dall’alto dell’imminente iniziazione, e Wren, sua sorella minore, erano bionde, con gli occhi grigi. Tutte quante portavano i capelli corti. Non era quello il modo in cui avrei voluto fare impressione su di loro, ma, volente o nolente, sembrava che Eldri fosse un potente talismano.

    Conclusa quell’accoglienza formale, la fila solenne si sciolse in un capannello di donne che non vedevano l’ora di spettegolare. Mentre le ragazze mi accompagnavano nella Casa delle Vergini, mi accorsi che Ganeda mi osservava: se all’inizio mia zia aveva provato antipatia nei miei confronti, adesso mi odiava. Ero cresciuta alla corte di un principe e sapevo che nessun sovrano sopportava di essere deriso nel proprio palazzo.

    2

    262-263 d.C.

    «Ma dove va chi visita il regno di Faerie? È un viaggio che compie soltanto lo spirito, come in un sogno, oppure il corpo si sposta davvero attraverso i mondi?»

    Ero distesa sulla pancia, il sole mi riscaldava la schiena, e le parole di Wren sembravano provenire davvero da un altro mondo. Una parte di me era consapevole di trovarsi su un prato dell’Isola Sacra insieme alle altre ragazze, ad ascoltare gli insegnamenti di Suona, ma il mio spirito galleggiava in uno strano stato di sospensione, al quale mi sarebbe stato facile abbandonarmi del tutto.

    «Sei con noi, vero?» domandò Suona, sospettosa.

    «Non del tutto…» ridacchiò con un filo di voce Aelia, che, come al solito, si era sdraiata accanto a me.

    «Avete attraversato le nebbie per arrivare fin qui, altrimenti sareste finite a Ynis Witrin» continuò Suona. «Viaggiare soltanto con lo spirito è più facile, ma in realtà è possibile trasferire anche il corpo, se si ricorre alle antiche conoscenze…»

    Mi girai e mi sollevai a sedere. Era una giornata di primavera insolitamente calda e Suona aveva portato le sue allieve tra gli alberi di mele. La luce filtrava attraverso le foglie verdi con riverberi cangianti, chiazzando d’oro le vesti di lino bianco delle ragazze. Wren stava meditando sulla risposta, la testa inclinata di lato, come lo scricciolo – wren nella lingua di Avalon – da cui aveva preso il nome.

    Poiché dava sempre risposte ovvie, ed essendo la più giovane del gruppo, veniva spesso derisa dalle compagne. Sapendo come in genere viene accolto un cane nuovo in un branco, mi ero aspettata che le altre si coalizzassero contro di me.

    Però, anche se Ganeda non mi dimostrava nessuna simpatia, io ero pur sempre una parente della Signora di Avalon. O forse venivo lasciata in pace perché a tredici anni ero alta, come Aelia, quanto la maggior parte delle sacerdotesse adulte. Oppure perché c’era Wren, che era un bersaglio facile. Io, comunque, facevo del mio meglio per proteggerla.

    «I Cristiani narrano che un profeta di nome Elia se ne andò in cielo su un carro di fuoco» dissi in modo provocatorio. Era un racconto che avevo sentito a Ynis Witrin, dove venivamo portate ogni tanto. «Anche lui era un iniziato?»

    Suona si mostrò contrariata e le altre allieve risero. Erano abituate a considerare i Cristiani di Ynis Witrin dei vecchi buoni ma sciocchi, che mormoravano preghiere e avevano dimenticato l’antico sapere. Eppure, se era vero quello che avevo sentito raccontare sul fondatore della loro chiesa, Josephus, anche loro, un tempo, avevano posseduto qualche conoscenza dei Misteri.

    «Può darsi…» ammise Suona controvoglia. «Immagino che le leggi del Mondo dello Spirito siano simili a quelle del Mondo della Natura, e che altrove non operino in maniera molto diversa da come operano qui. Ma è qui, ad Avalon, che si praticano le antiche usanze ed è custodita la Verità. Per la maggior parte degli uomini quest’isola è un sogno, una favola, una leggenda. Voi siete molto fortunate a trovarvi qui!»

    Le risate cessarono e le ragazze, rendendosi conto che la sacerdotessa stava perdendo la pazienza, si sistemarono meglio la tunica e si raddrizzarono.

    «Ricordo ancora la sensazione che ho provato, tre anni fa» continuai, «quando ho attraversato le nebbie per la prima volta… È stato come se la mia mente fosse stata rivoltata di punto in bianco… poi il mondo si è trasformato…»

    Solo tre anni… eppure ormai il mondo esterno mi sembrava un sogno. Persino il dolore che avevo provato per la morte di mio padre, caduto in battaglia contro i Sassoni, si era attenuato. Ora la mia parente più prossima era mia zia, che mi detestava. Però le altre sacerdotesse erano gentili con me, e, tra le mie compagne, Aelia era la mia migliore amica.

    Suona accennò un sorriso. «Direi che è una buona descrizione dell’esperienza. Tuttavia non è l’unico modo per viaggiare da un mondo all’altro. Per lo spirito, passare dalla placida vita di campagna alla frenetica Londinium può essere un viaggio altrettanto impegnativo, e alcuni di coloro che lo compiono si ammalano e si indeboliscono come alberi trapiantati in un terreno ostile, perché le loro menti non sono pronte a sostenere un tale cambiamento.»

    Annuii. Ero stata a Londinium diverse volte da piccola e, anche se il principe Iulius Coelius era romano di nome e aveva insegnato ai suoi figli il latino, oltre alla loro lingua madre, ricordavo ancora lo sgomento quando avevo superato la porta della città ed ero stata travolta dai suoi rumori: era come tuffarsi tra le onde del mare.

    «Ma i nostri corpi vanno davvero nel regno di Faerie?» chiese Wren. Se un argomento le interessava, non mollava la presa, come un mastino.

    Vedendo Suona adombrarsi, intervenni di nuovo: «Sappiamo che i nostri corpi fisici sono seduti qui, sotto i meli del Tor, ma, a parte il clima che a volte è leggermente diverso, Avalon assomiglia abbastanza al mondo esterno».

    «Esistono altre differenze che conoscerete più avanti nel corso dell’addestramento» precisò Suona. «Qui certe forme di magia agiscono con maggiore facilità, perché ci troviamo a un incrocio di flussi di energia e perché il Tor ha una struttura particolare. In generale, però, quello che hai detto è vero.»

    «Ma nel regno di Faerie non è la stessa cosa» obiettò Tuli. «Là il tempo scorre più lentamente e il popolo che vi abita è magico.»

    «È così, eppure un mortale può vivere anche laggiù… se è disposto a pagarne il prezzo…»

    «Quale prezzo?» chiesi.

    «Rinunciare al dolce, graduale avvicendarsi delle stagioni e a tutte le conoscenze acquisite durante la vita mortale.»

    «Ed è così brutto se ci si va da giovani?» domandò Roud, la cui treccia mandava bagliori ramati mentre scuoteva la testa.

    «Ti piacerebbe avere nove anni… per sempre?» ribatté Suona.

    «A nove anni ero una bambina!» esclamò Roud dall’alto dei suoi quattordici.

    «Ogni età ha le sue gioie e soddisfazioni» spiegò Suona, «che si perdono se si va oltre i confini del mondo, dove il tempo non ha alcun significato…»

    «È chiaro che desidero diventare grande» mormorò Roud. «Ma chi vuole diventare vecchia

    Tutti, pensai, se si deve credere a Suona… Ma era difficile crederle, quando occhi giovani vedevano tra gli alberi il bagliore del sole sull’acqua, e orecchie giovani ascoltavano il canto dell’allodola che guizzava in cielo, e un corpo giovane fremeva dal desiderio di correre con Eldri tra l’erba alta, e danzare, essere libero.

    «Ecco perché, nella maggior parte dei casi» continuò Suona, «compiamo i nostri viaggi soltanto con lo spirito. E in questo momento i vostri spiriti stanno saltellando come agnellini in un prato. Se volete essere così

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