Un anno in Dad
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Un anno in Dad - Vito R. Ferrone
1
QUANDO LE URLA ANNUNCIARONO
LA FINE DELLA SCUOLA
A un certo punto un’esplosione di gioia incontrollata e frenetica. Ero a piazza del Gesù, all’altezza del liceo Genovesi. Ragazzi e ragazze in festa – una festa chiassosa e debordante – annunciavano, felici del loro futuro prossimo, la chiusura delle scuole. Di ogni ordine e grado, come si suole dire. Quasi non sembrava vero! Erano finalmente liberi di poter organizzare il proprio tempo senza che quegli insopportabili scocciatori dei professori lo portassero loro via. Niente scuola, viva la libertà!
Non ricordo la mia prima reazione. Probabilmente sorrisi. Con i nostri ragazzi, almeno per me, è sempre così. O quasi. Sono, in tante occasioni, di un’ingenuità disarmante, di una gaiezza coinvolgente, di una spensieratezza superficiale, da non poter fare altro che sorridere. Con loro, per loro. Questo, naturalmente, non vuole assolutamente dire che i miei alunni non mi facciano incazzare. Altro che. Non solo quando non studiano come dovrebbero o, semplicemente, non studiano affatto, ma pure, direi soprattutto, quando si rifiutano di crescere, di accettare cioè la responsabilità del proprio futuro.
È chiaro che lo studio serio e approfondito è – come dire? – la prima modalità di crescita. Vorrei, però, sostenere un’altra cosa. Crescere li spaventa. Gli adulti – forse dovrei dire noi adulti, ma ci siamo capiti – li hanno fin troppo sorretti e la vita, nella maggior parte dei casi di cui sono a conoscenza, è stata con loro molto benigna: nessun particolare problema economico, salute, divertimento, viaggi, prosperità generalizzata, invadente bellezza, amore e sesso. Ciò nonostante, una solitudine intrinseca e un vuoto di senso e di appartenenza li rende indifesi, aggressivi, timidi, a tratti pesantemente infelici, rancorosi e, perfino, violenti. Basta così, altrimenti qualcuno smette di leggere prima di cominciare. Nel migliore dei casi.
Con le scuole chiuse si presentò il problema di cosa diavolo fare. I ragazzi non volevano fare nulla e per la verità anche qualche collega non aveva nessuna intenzione di mettersi a lavorare. Le scuole le aveva chiuse il governo, che colpa ne avevano gli insegnanti?
In men che non si dica, temuta e prevista, arrivò la DAD. Con un computer, un telefonino cellulare, un iPhone, un tablet, o anche con qualche altro marchingegno ancora, si poteva, e si doveva, continuare a fare lezione. Insomma, con il digitale variamente inteso, sarebbe stato possibile spiegare, assegnare, interrogare, dialogare, consegnare, correggere compiti e test e dare valutazioni. Così che in questo nostro amato e strano Paese, mentre le scuole cercavano soluzioni ragionevoli e possibili, nonché serie e condivise, per affrontare un problema nuovo ed epocale, la pandemia da SARS Covid 19, in tanti hanno cominciato a ululare come randagi rabbiosi contro l’insopportabile e non più accettabile privilegio degli statali, in questo caso dei professori della scuola pubblica, che se ne stavano comodamente a casa a rubare lo stipendio. Uno stipendio che, pandemia o non pandemia, sarebbe arrivato. Come al solito. Tutti gli altri, per contro, avrebbero pagato lo scotto di una chiusura generalizzata e severa dell’Italia intera. Ivi compresi, mi permetto aggiungere, quelli che per anni hanno dichiarato profitti da fame, inferiori in tanti casi ai corrispettivi dei loro dipendenti.
Noi professori, come i tanti che hanno compreso appieno il guaio e la sciagura di questo stramaledetto virus, abbiamo rispettato e condiviso una decisione dolorosa e del tutto emergenziale. Ci siamo fidati di chi aveva, e ha, la responsabilità della nostra salute e delle nostre vite. Di quelle dei nostri alunni e dei loro cari. Abbiamo fatto quello che andava fatto. Lo abbiamo fatto e basta perché era giusto. E se per un lungo periodo di tempo non è stato possibile aprire le scuole, d’accordo. Ci siamo dovuti fidare, e io mi fido, di chi ha la responsabilità del potere.
Una nazione in ginocchio e troppi a blaterare, a discettare, buttare fango su tutti e su tutto, a non rischiare una soluzione. A non dare una mano.
Il fatto irritante, per molti versi, e divertente per altri, è che mentre i professori si davano da fare, i signori che lavorano
, e solo loro lo fanno e lo sanno fare, se ne stavano a non fare nulla, se non a chiedere ristori, cioè i dané, in quantità che non tenessero conto delle loro dichiarazioni dei redditi. E qui le comiche: «Che è ’sta storia che vuoi rimborsarmi in proporzione a quanto ho dichiarato? Cose da pazzi! Che fai tu Stato, mi credi?»
Nemmeno nei loro incubi peggiori avrebbero potuto immaginare, gli unici faticatori dell’universo mondo, che lo Stato italiano avrebbe creduto alle loro dichiarazioni dei redditi e si sarebbe comportato di conseguenza: una cosa inaudita! Neppure i costi per le amanti sono stati loro riconosciuti, e certo non potevano metterli, non chiaramente almeno, nelle spese. Però, che diamine! Chi lavora, e che onestamente contribuisce alla vita economica, finanziaria e sociale di tutti noi, ha diritto a un di più di considerazione. Almeno le amanti, o no?
No. Direi proprio e decisamente di no.
Va bene, ho capito. Precisiamo un attimo altrimenti qualcuno si prende collera sul serio e, come si dice a Napoli, quella popolare: La collera una volta entrata, non esce più
e combina più disastri di un austriaco con o senza i gradi di caporale.
Chi non stava facendo nulla non aveva né colpa né responsabilità, mi pare scontato. Mi sembra altresì evidente, banalmente ovvio se posso dirlo, che il danno economico è stato enorme, per alcuni settori devastante. Chi lo potrebbe mettere in dubbio? Io, di certo, no.
La chiusura dell’Italia ha messo in grandissima difficoltà aziende, imprese, attività commerciali, turismo, cultura e spettacolo. Tutto verissimo. E quindi? Noi cosa c’entriamo? Prendersela con noi insegnanti come in troppi hanno fatto, dagli evasori di professione, e li ho trattati fin troppo bene, a tutti quelli che scrivono, parlano e pontificano in nome e per conto di una greppia da leccaculo è stato non solo ingiusto e, in alcuni casi, disgustoso, ma anche una chiara e per certi versi pianificata espressione di odio sociale. Mi pregio aggiungere che, per decenni, intere aree, le stesse dove la solidarietà della politica è tutta da capire, hanno rifiutato, letteralmente rifiutato, la responsabilità dell’insegnamento, optando per attività molto più redditizie che permettessero loro, quindi, una concreta possibilità di risparmio.
Difatti i famosi risparmi degli italiani, che fine hanno fatto? Non sarebbero stati risolutivi, e siamo d’accordo, ma avrebbero rappresentato una poderosa boccata di ossigeno per chi ha l’azienda e la famiglia, con progressioni differenti, in difficoltà.
Vuoi vedere che gli unici a risparmiare sono stati e sono i professori? Ti viene, pertanto, da pensare che il risparmio in grado di salvare la madre patria è proprio di quelli che hanno diritto ai ristori. Ristori che, naturalmente, non sono stati, in nessun caso, sufficienti. Forse perché tutti preoccupati dei propri dipendenti. E non si capisce come mai. A volere credere a tante dichiarazioni dei redditi, i dipendenti se la passano certamente meglio dei loro datori di lavoro. O no? O, forse, il motivo è che questi bistrattati ristori non tengono conto di quello che, in troppi e senza vergogna alcuna, chiedete ai vostri clienti, per esempio, nel campo della ristorazione stellare
, o anche no, in quello degli aperitivi, dove l’unica certezza è il calice, o, ancora, in quello delle cosiddette eccellenze italiche, spesso solo mediocri, di visionari
di qualità, che, in quanto visionari
, non perdono mai d’occhio il soldo?
Di cosa volete parlare? Ditecelo.
Di gente che in televisione, strillando, ha affermato di avere perso duecentomila euro in due mesi e di aver ricevuto ristori per soli sedicimila euro? Magari un approfondito e vasto accertamento fiscale di quelli che non lasciano scampo ci vorrebbe, che ne pensate?
Comunque sia, noi non c’entriamo. Quindi rassegnatevi egregi parolai dalle parole ipocrite e interessate, e, per favore, non ci tediate più, noi professori lo abbiamo fatto. Abbiamo dato tutte e due le mani. Ci siamo lanciati a testa bassa in nuove e sconosciute modalità per fare il nostro lavoro. Forse a qualcuno, o a tanti, sembrerà strano ma di capocciate ne abbiamo prese. Per non parlare dei litigi o delle incomprensioni, delle crisi e dei rischi di fallimento di matrimoni e convivenze perché non tutti abbiamo mogli, mariti, compagne, compagni che lavorano nella scuola. All’opposto, nella maggioranza dei casi, i compagni, le compagne, le mogli e i mariti hanno un altro lavoro o, peggio ancora, avevano un altro lavoro perché lo hanno perso proprio a causa della pandemia. Non è stato facile. Anche la nostra vita è stata stravolta. E coloro che ci stavano accanto non sempre capivano o hanno capito e, se avessero capito, non sarebbero stati disponibili a condividere il proprio quotidiano con chi, in qualche modo, non era più presente pur essendoci. Il lavoro era veramente tanto e tutti eravamo totalmente impreparati.
Mentre l’odio montava, mi tocca ripeterlo, se c’era o c’è stato chi ha cercato da subito una soluzione, chi non ha voluto lasciare da soli i propri alunni e le loro famiglie, questi sono stati i professori. Immagino sorrisi sarcastici e tirati, gente pronta a farsi scoppiare una vena alla lettura di queste righe. Mi dispiace per loro e per la vena, ma è andata proprio così.
I famigerati e vituperati professori della scuola pubblica italiana hanno retto, per quanto di loro responsabilità, l’urto e il peso di qualcosa che non si era mai visto prima. Abbiamo accompagnato i nostri ragazzi in un momento così difficile, imprevisto e dagli esiti incerti. Lo abbiamo fatto, lo stiamo facendo e lo continueremo a fare. Non ci sono soluzioni altre.
Ora non immagino, ne sono sicuro, che qualcuno si indignerà di queste parole e replicherà che la scuola non è formata solo da professori! D’accordo, la scuola non è solo prof, è molto di più. Ci sono i dirigenti scolastici e le figure strumentali, i collaboratori scolastici, il DSGA con una pletora di sottoposti, o presunti tali, gli insegnanti tecno-pratici, gli assistenti tecnici di laboratorio…
Questi ultimi, in punta di verità, li escluderei dalla conta, perché con i laboratori chiusi non hanno avuto, da marzo in poi, granché da fare. Ho detto granché
perché, se esagero, il redattore in comando mi bastona. Letteralmente. Però mi sembra opportuno sottolineare che ai signori assistenti di laboratorio è andata disperatamente bene. Come, per tanti versi, a chi si occupa della salubrità fisica degli alunni.
2
COME DA CHI SBAGLIA PAGA
SI PASSA AI... CARCIOFI
Per situazioni che potrebbero definirsi oggettive
c’è stato chi aveva poco o nulla da fare. Durante la didattica a distanza. E va bene, diciamo. Siccome, però, abbiamo deciso – io veramente, il subcomandante non è per niente d’accordo perché prevede guai a catinelle