A tavola nel paese che non c'è: Il regno di utopia e la ricerca dell'altrove
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Anteprima del libro
A tavola nel paese che non c'è - Pierpaolo Pracca
A tavola nel paese che non c’è
Leggere è un gusto!
percorsi tra cucina, letteratura e…
Collana diretta da Roberto Carretta
58
Pierpaolo Pracca
A tavola nel paese che non c’è
Il regno di utopia e la ricerca dell’altrove
Il leone verde
Si ringraziano per il sostegno e il contributo Francesca Lagomarsini ed Eva Benso
ISBN: 978-88-6580-420-9
© Copyright 2011
Edizioni Il leone verde
Via Santa Chiara 30 bis, Torino
Tel 0115211790
info@leoneverde.it
www.leoneverde.it
Introduzione
Il migliore dei mondi possibili
Gli astomi
vivono in regioni al limite delle terre conosciute. Privi di bocca, non hanno alcun bisogno di nutrirsi, basta loro odorare frutti e fiori. Di questo popolo leggendario ci dà notizia, per primo, Megastene, storico e geografo greco del IV secolo avanti Cristo, nel suo Indica, resoconto della missione compiuta presso un re indiano. Gli astomi possono viaggiare per grandi distanze, attraverso paesi inospitali, senza portare quasi nulla con sé, tranne qualche mela e alcuni fiori.
«Un giorno un poveretto entrò in una taverna e comprò una pagnotta. Siccome il padrone stava arrostendo un pollo, una volta uscito s’accostò alla sua finestra per accompagnare il magro pasto con l’aroma della carne. Terminato il pasto, vide l’oste uscire arrabbiato dal locale: Mi devi altri soldi perché hai mangiato il profumo del mio arrosto!
. Hai ragione – rispose il poveretto –, ho usato qualcosa che ti appartiene. Quanto ti devo ancora?
. Cinque soldi
. Estrasse le monete, ma quando l’oste fece il gesto di prenderle ritirò la mano e le fece tintinnare. "Hai sentito che bel suono? Ora siamo pari, ho mangiato il profumo del tuo arrosto e ti ho pagato col suono delle mie monete».
Il poveretto – o chi lo ha tratto da questa imbarazzante situazione – ha nei racconti popolari tanti nomi: Bertoldo, Till Eulenspiegel, Nasreddin, Khoja, Efendi. Lo incontriamo in Europa, nel Vicino e Medio Oriente, nella letteratura sufi, curda, uigura…
È la storia della fame e degli espedienti per soddisfarla. Una storia che, dai racconti protoetnografici alle antiche leggende, dalla fiaba alla fantascienza, dai paradisi
mitologici e della religione alle ucronie socio-politiche, scrive
la storia dell’umanità. Una storia che Pierpaolo Pracca, filosofo e psicologo, indaga e narra con gusto del raccontare e sapiente agilità. Perché il sapere nasce non solo dalla conoscenza, ma dalla capacità di accostare i materiali, farli interagire e dal piacere della divulgazione.
Utopia è il regno del sogno, che libera dalla necessità e dalla schiavitù che ne consegue, ma anche dell’incubo conseguente l’uniformità, il conformismo del suo appagamento. Ancor peggio, dall’omologazione dei desideri. Ecco perciò la trama di storie che Pracca intreccia e commenta, da Platone a Huxley, da Esiodo a Orwell, da Gioacchino da Fiore a Marx, un cammino dantesco sospeso tra inferno e paradiso, fra inferni
e paradisi
. Viaggio tra il miglior cibo possibile nel migliore dei mondi possibili
e, rovesciando l’assunto leibniziano, il suo opposto; viaggio che fa anche, inevitabilmente, tappa nelle ottocentesche Società di mutuo soccorso come nei contemporanei McDonald’s.
La maggior parte delle fiabe armene si conclude con la caduta dal cielo di tre mele: la prima per chi ha raccontato, la seconda per chi ha ascoltato, la terza per chi ha capito… il lettore attento si accorgerà che questo libro permette di assegnare tutte e tre le ricompense.
Roberto Carretta
Una gustosa relazione
L’Utopia è il campo del desiderio,
di contro alla Politica, che è il campo del bisogno.
Roland Barthes
Circa il valore culturale della letteratura utopica e la sua influenza sulla politica, sul teatro, sul cinema non possono sorgere dubbi. Meno immediata può forse sembrare la sua influenza e relazione sulle tradizioni culinarie e sul pensiero gastronomico in genere.
Come per gli altri ambiti, però, anche la cucina risente della forza creatrice di questo pensiero, al punto che è possibile stabilire un fil rouge che lega il nostro modo di sognare e pensare il mondo e ciò che mangiamo a tavola.
Il tema del cibo è intrinseco alla letteratura di carattere utopico, quasi il necessario corollario ad un teorema, esso sta all’utopia come l’ombra sta al suo frutto. Ed è in questa relazione di reciproca implicazione che giocano questi due elementi per certi versi indisgiungibili. Essi, infatti, nel corso della storia del pensiero occidentale, si rincorrono fecondandosi, sostanziandosi l’un l’altro.
Il cibo, a volte, in società ideali caratterizzate dall’opulenza, viene enfatizzato come segno di abbondanza, mentre in altri contesti storici diventa il segno di un’umanità nuova che ha trasceso i bisogni materiali di cui la fame è l’esempio più evidente.
Il cibo, e più in generale l’alimentazione, sono elementi fondamentali nella descrizione di ogni società immaginaria. Due universi di discorso che si intrecciano, dove l’uno è spesso lo specchio fedele dell’altro; legato alle utopie ne sposa in pieno i significati a seconda delle epoche storiche.
Il suo valore nelle rappresentazioni utopiche non risiede tanto nell’aspetto pragmatico quanto nella valenza metaforica e simbolica, nella capacità di evocare il complesso dei valori di una società quasi ne fosse la cartina tornasole.
Così sarà una presenza eminentemente liquida (latte e miele) nei miti delle età dell’oro oppure il segno di armonia ne La Repubblica di Platone; diventerà simbolo eucaristico nelle utopie medievali e conoscerà aspetti iperbolici in quelle rinascimentali; sarà sinonimo di curiosità e raffinatezza nelle utopie illuministe e segno di un rinnovato ritorno allo stato di natura in quelle romantiche; simbolo di identità e speranza nelle utopie socialiste ed inquietante presenza nelle distopie novecentesche dove diviene segno evidente di mondi spaventosi, frutto di deviazioni dall’ordine naturale.
Una cosa è certa: il cibo nei mondi Utopici diventa un marcatore culturale, un principio identitario, in quanto ciò che si mangia è il riverbero dell’impianto ideologico sul quale si fonda un determinato immaginario sociale.
Il miglior cibo possibile nel migliore dei mondi possibili
Le uniche cose sopportabili
Sono le cose che non sono
Giacomo Leopardi
Parlare di utopia ou tòpos (letteralmente non luogo
) è confrontarsi con il tema della lontananza, del limite oltre il quale non ci è dato andare se non nella modalità del sogno. E pensare il lontano significa dare figura e forma a ciò che visibile non è, accettare la sfida di creare una nuova sintassi, accogliere in noi nuove immagini in un movimento verso un nuovo tempo e nuovi spazi che sono quelli dell’immaginazione. Uno spazio dove fluttuano sogni e speranze che tra vaghezza ed illusione rendono più accettabile il qui ed ora; un nuovo sguardo sul mondo attraverso un sovramondo.
Talvolta è poco più di una seducente immagine come l’isola evocata da Guido Gozzano nella poesia La più bella; metafora dell’eterna ricerca di senso:
(…) s’annuncia col profumo, come una cortigiana (…)
rapida si dilegua come parvenza vana,
si tinge dell’azzurro color di lontananza (…)
L’utopia è il tentativo di giungere a una terra promessa, a un’età dove all’umanità è consentito vivere uno stato di purezza; e in questo mondo nuovo, che è il migliore dei mondi, spesso il cibo assume un significato primario, funzionale alla creazione ed al mantenimento di nuovi ordini sociali e si fa garante delle virtù degli individui.
Gli abitanti delle città radiose si nutrono in modo frugale con grande semplicità: latte, frutta e legumi.
Nella totalità delle utopie c’è un’insistenza sulla necessità di nutrirsi con alimenti puri, in contrapposizione a quelli impuri del mondo reale; da ciò si comprende che il cibo non assolve soltanto ad una funzione nutritiva, bensì morale e spirituale1.
Siamo di fronte alla teorizzazione di sistemi alimentari la cui finalità è quella di preservare o suscitare le virtù fisiche e morali nei cittadini. In questo modo il cibo diventa la conditio sine qua non per la realizzazione dell’utopia; se noi siamo ciò che mangiamo viene da sé pensare che la nostra umanità dipenda da ciò che consumiamo e da come lo consumiamo.
Non a caso Platone quando scrive la Repubblica, in un’epoca di guerre ed