Potere Informazione Diritti
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About this ebook
Prefazione di Ferruccio de Bortoli
Postfazioni di Filippo Danovi e Salvatore Scuto
"Se io ho questo nuovo mezzo, la possibilità cioè
di veicolare un numero enorme di informazioni, in un microsecondo,
mettiamo caso a un aborigeno dalla parte opposta del pianeta...
ma il problema è: “Aborigeno, ma io e te... che c. se dovemo di’?”
- Corrado Guzzanti
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Book preview
Potere Informazione Diritti - Carlo Melzi d’Eril
Capitolo 1
Giornalismo di ieri
e di oggi
Giornalisti e ladri di biciclette
Se ti rubano la vecchia e cara bicicletta, che con tanta cura avevi legato a un alto palo della luce, l’ordinamento si incarica di punire severamente il colpevole. È, infatti, da uno a sei anni, oltre alla multa, la pena per il furto con violenza sulle cose. E accade di frequente che ladri di biciclette vadano in carcere, senza che ciò provochi particolari reazioni nell’opinione pubblica. Solo al cinema invero, nel gran film di De Sica, ci si è commossi nel vedere uno di loro evitare la galera, grazie alle lacrime di un bambino.
La stessa pena, da uno a sei anni, è prevista per chi diffama con il mezzo della stampa, attribuendo un fatto determinato¹. Nell’ottica della persona offesa, la sanzione non sembra esagerata, anzi: senza dire con l’Otello ho perduto la reputazione […] la parte immortale di me stesso e ciò che rimane è bestiale
, l’onore val ben una bicicletta.
Il castigo
è severo, sono sono rarissimi i casi di giornalisti passati per il carcere e alti i lamenti quando ciò accade.
Si cita sempre che Giovannino Guareschi trascorse più di un anno in prigione, senza mai chiedere la grazia, a causa di due sentenze: la prima nel 1950, per aver pubblicato una vignetta sul Presidente Einaudi, ritenuta lesiva dell’onore dell’istituzione, la seconda nel 1954, peraltro mai appellata, per aver diffamato De Gasperi.
Molto ricordate sono anche le vicende giudiziarie di Lino Jannuzzi. Alla fine degli anni Sessanta, fu condannato insieme a Eugenio Scalfari a più di un anno di reclusione, per diffamazione del generale De Lorenzo, a seguito dell’inchiesta de L’Espresso, ove fu svelata l’esistenza del Piano Solo
; i due giornalisti furono salvati dal carcere grazie all’elezione nelle file dei socialisti alle politiche del 1968. Un quarto di secolo più tardi, Jannuzzi fu di nuovo condannato a due anni e cinque mesi per il medesimo reato e, eletto parlamentare nel 2001, non entrò in prigione ma scontò parte della pena ai domiciliari, sino alla grazia.
Non molti altri giornalisti in età repubblicana hanno varcato la soglia delle patrie galere per reati a mezzo stampa; l’ultimo risulterebbe essere il direttore di un periodico campano, detenuto per più di un mese nel 2010.
Miglior sorte ebbe nel 2012 Alessandro Sallusti, condannato a un anno e due mesi per aver concorso a diffamare un magistrato torinese, senza condizionale in ragione della gravità del fatto e dei precedenti penali dello stesso. La pena detentiva fu infatti commutata in multa dal Presidente della Repubblica, dopo che il giornalista aveva trascorso alcuni giorni in detenzione domiciliare.
Merita, infine, un cenno la paradossale storia del giornalista Stefano Surace, espatriato in Francia alla fine degli anni Sessanta e condannato poi in contumacia a più di due anni per tre articoli scritti quando ancora viveva in Italia; Surace rientrò in patria trent’anni dopo, ignaro di processi e sentenze, fu arrestato ormai anziano alla vigilia di Natale del 2001 e restò carcere per vari mesi, sino a quando gli fu concesso di scontare la pena a casa.
Dunque, se questi dati sono corretti, di giornalisti in carcere ce n’è uno ogni dieci anni. Com’è possibile, con una pena così alta? La spiegazione sul piano tecnico sta nella possibilità per il giudice di bilanciare l’aggravante che prevede la detenzione fino a sei anni con le attenuanti generiche. In esito a tale operazione rimane solo il reato base
, che prevede la pena alternativa: detenzione o multa. Tra le due il giudice pressoché sempre sceglie la seconda.
Ma la ragione forse più profonda è che il carcere non corrisponde da tempo alla sanzione socialmente ritenuta giusta
per i reati di stampa e così la giurisprudenza si è incaricata di espellerlo dalle pene concretamente inflitte. Due corollari: le condanne alla reclusione sono davvero straordinarie, ma la legge le consente e nulla vieta che un giudice si discosti dall’orientamento più comune, come è accaduto di recente in un processo nei confronti di alcuni giornalisti di Panorama.
Così, dopo il gran baccano suscitato dal caso Sallusti
e uno sciagurato tentativo di riforma della materia, scongiurato all’ultimo momento, è di qualche giorno fa l’annuncio che la commissione Giustizia della Camera si occuperà a breve del tema.
In questa prospettiva, ci pare essenziale porre un paio di domande: è davvero necessaria (o almeno opportuna) una riforma? E in questo caso, in che direzione?
Confessiamo una profonda sfiducia nei confronti di un legislatore troppo spesso sciatto e distratto
: negli ultimi venticinque anni, quando ha messo mano al diritto dell’informazione ha sempre reso le norme più oscure di quanto non fossero.
Tuttavia, non ci si può nascondere che l’attuale legge abbia più di un problema. Non ultimo, una pena detentiva generalizzata e troppo elevata. Affermare, però, un po’ semplicisticamente, che bisogna escludere tout court il carcere per i giornalisti non pare coerente con il sistema, che lo prevede per fatti meno gravi.
La libertà di manifestazione del pensiero è certo un diritto fondamentale, ma lo è anche la reputazione, del resto. La chiave per trovare un buon equilibrio è nella presenza di un interesse generale che fatti e idee si diffondano il più possibile, consentendo di conoscere per deliberare
.
E allora l’ordinamento deve consentire al giornalista di sbagliare. In altri termini, le sanzioni non debbono essere di un rigore tale da indurre il giornalista a limitarsi troppo per timore di incorrervi, rinunciando così a dare una notizia o a esprimere un’idea.
In questa prospettiva, la pena detentiva dovrebbe essere limitata soltanto a chi, conscio di avere diffuso una notizia falsa, non l’ha rettificata, a chi ha pubblicato con lo scopo di screditare e ai diffamatori seriali. Nei casi di minore gravità, invece, sembra più corretto prevedere solo
una multa, oltre ovviamente al risarcimento.
Altri interventi sono possibili; ad esempio un beneficio effettivo alla libera stampa potrebbe venire dalla applicazione anche ai casi di diffamazione di un banale principio giuridico: chi soccombe paga le spese legali. Oggi, infatti, per un meccanismo comprensibile solo dai più esperti processualisti, ciò non accade a chi querela un giornalista, anche qualora il giudice ritenga che l’imputato abbia correttamente esercitato il suo diritto di informare. Modificare questa regola imporrebbe maggior prudenza a querelanti abituali
e a chi è troppo sensibile alle critiche altrui.
Insomma, la reputazione è una cosa seria, almeno quanto la libertà di espressione, e, come per tutte le questioni serie, ci vuole un legislatore equilibrato. E a noi sembrerebbe saggio un Parlamento che preveda come regola la pena pecuniaria, in quanto l’interesse a essere informati suggerisce di non intimidire i giornalisti, ma non cancelli del tutto quella detentiva, limitandola ai casi più gravi di denigrazione consapevole.
9 giugno 2013
Svecchiamo mamma Rai
In primavera il Governo Renzi disponeva un improvviso robusto taglio di 150 milioni per la Rai. Ne nasceva una polemica - verrebbe da dire la solita polemica - tra chi inneggiava al vivace politico rottamatore e chi biasimava il suo decisionismo improvvisato.
A noi, più che stigmatizzare o celebrare il carattere del nuovo leader, interessa l’oggetto delle sue attenzioni: quella che una volta era considerata la maggior azienda culturale del Paese.
E ciò poiché le risposte alle domande su come e dove tagliare
i finanziamenti dipendono assai da quale idea di azienda televisiva il Governo voglia sposare. Le opzioni ci paiono due: rimane tutto com’è, con una Rai solo un po’ più povera e quindi ancor più dipendente da chi la finanza, oppure - facciamoci contagiare dall’ottimismo del capo dell’esecutivo - osiamo pensare che la nuova amministrazione cerchi di rendere la Rai davvero un servizio pubblico, come avrebbe dovuto essere da sempre.
Ma non anticipiamo le conclusioni. Per capire, come spesso accade, è necessario fare un po’ di storia.
Sessant’anni fa iniziava la regolare programmazione televisiva, evento celebrato con pubblicazioni, trasmissioni e un profluvio di filmati d’epoca. Ma trent’anni dopo accadeva un altro fatto che, nel giornalismo italiano ossessionato dalle ricorrenze, non dovrebbe passare sotto silenzio, trattandosi di un evento fondativo della più recente storia della Repubblica. Il 6 dicembre 1984, un decreto legge del Governo Craxi evitava l’oscuramento delle tre reti del gruppo Fininvest. Quasi a compensare il monopolio nelle televisioni commerciali che si andava a determinare, con tale provvedimento fu portata a termine la politica di spartizione dell’emittente pubblica iniziata nel decennio precedente. Alla Dc fu attribuita la potente direzione generale e la prima rete, al Psi la seconda e al Pci Raitre, abbandonando il progetto di un canale a vocazione culturale e regionale.
Il decreto fu annunciato come provvisorio, in attesa di una legge che avrebbe dovuto introdurre seri limiti antitrust e garantire autonomia e pluralismo nel servizio pubblico radiotelevisivo. Ma in Italia, come scriveva Flaiano, niente è più definitivo del provvisorio.
E infatti, altre tre decadi, qualche legge e molta tecnologia più tardi, la televisione generalista italiana assomiglia ancora molto a quella fotografia ormai sfocata. La conferma viene dai dati della relazione Agcom 2014 su consumo televisivo, audience e raccolta pubblicitaria. Questi mostrano anzitutto la particolare forza di penetrazione delle emittenti in chiaro (seguite dal 95% della popolazione, laddove Internet raggiunge solo
il 55%), che, per più della metà degli italiani, resta l’unico mezzo per informarsi. Il mercato è sempre caratterizzato da un elevato e durevole livello di concentrazione e il gruppo Mediaset incamera ben più della metà dei ricavi pubblicitari.
Per questo è non solo opportuno ma indispensabile occuparsi ancora della regolamentazione di questo mezzo, che con troppa fretta è stato ritenuto un ferrovecchio destinato a fare compagnia a fax e macchine da scrivere nelle bancarelle di