L'incontro: Storia di un'adozione
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L'incontro - Pecchioli Alessia
Prima parte
Anna
La vita è imprevedibile. Può sembrarti meravigliosa per venti lunghi anni e poi, di colpo, cambia tutto. Basta una brutta malattia, un lutto o magari un incidente d’auto. Come è successo a me.
Ho ventidue anni e sono una brillante studentessa di Medicina all’università Federico ii
di Napoli. Fin da piccola ho sempre avuto le idee chiare sul mio futuro: avrei frequentato un buon liceo, mi sarei iscritta alla facoltà di Medicina e avrei messo su una bella famiglia.
Poi ecco quel viaggio estivo in macchina con cui Giulio, mio fratello, mi sta portando da Napoli alla nostra casa in campagna in provincia di Avellino. Ho insistito io ad andare, ho bisogno di calma e di uno spazio tutto per me per preparare l’esame di farmacologia, che è un mostro che mi perseguita giorno e notte. Devo prendere almeno un ventotto ed è un’impresa titanica. Ecco qual è, dunque, il mio più grande problema questo 14 luglio 1977.
È una giornata assolata, con un cielo limpido e privo di nuvole, l’aria ferma e afosa. Ho un vestito di lino bianco, nuovo di zecca. L’ho desiderato per due mesi, passando davanti alla vetrina con mia madre e sospirando ogni volta: «Mamma, quanto lo vorrei!».
«Costa parecchio, Anna» mi aveva risposto lei.
E, invece, come è suo solito fare, me lo ha regalato a sorpresa.
Sembra una giornata perfetta, di quelle che tanto mi annoiano nella loro noiosa normalità.
Tuttavia, qualcosa non va secondo i miei piani. Qualcosa di banale, come una ruota sgonfia che si buca proprio all’altezza di una curva. E forse Giulio sta correndo un po’ troppo. D’altronde questa è una strada poco frequentata, tanto che non abbiamo neanche le cinture perché, voglio dire, non le mette nessuno, non sono obbligatorie per legge. Giulio perde il controllo del volante, cerca di sterzare però non ci riesce, va dritto, quando dovrebbe fare la curva a sinistra.
Sto forse sognando?
Mi sembra di volare e di fluttuare nell’aria per qualche lungo secondo.
Invece è la realtà, e con la macchina stiamo volando in un dirupo.
La testa mi gira.
Tra qualche millesimo di secondo ci sarà lo schianto.
Quanti metri avremo fatto? Quanta differenza farà non aver messo la cintura di sicurezza? Mia madre ce lo ripete sempre che fa la differenza e noi puntualmente non le diamo ascolto.
Ecco che la macchina atterra. Io sento un’improvvisa trazione in avanti e capisco che mia madre ha ragione. La cintura fa la differenza, perché senza io sono solo un’entità minuscola lanciata senza pietà, come fossi una pallina da ping-pong, nel campo avversario. E così, proprio come quella pallina, mi schianto violentemente sul parabrezza, lo oltrepasso e schegge di vetro appuntite mi entrano in qualunque parte del corpo. Mi trafiggono guance, bocca, addome.
Non sento più nulla.
Cerco di aprire la bocca per chiamare Giulio, ma ho vetri dappertutto. Ho il terrore che nessuno si accorga di noi due e della nostra macchina in fondo al dirupo, in una giornata assolata, con il cielo limpido e l’aria afosa di metà luglio. E il mio vestito di lino nuovo, con le maniche corte e la cintina in vita, forse, lo dovrò buttare.
Pilar
Sveglio Beatriz e Paula che, non so come sia possibile, ma non hanno sentito nulla e continuano a dormire, schiena contro schiena, nel letto matrimoniale che dividiamo.
«Pilar, che c’è?» dice Beatriz insonnolita.
Io salto sul letto, in lacrime.
«Non so cosa è successo a mamá! Hanno gridato come matti, lei piangeva e poi più nulla!».
A queste parole le mie sorelle si alzano in piedi e tutte e tre corriamo nell’altra camera. Entriamo e, alla vista di mia madre, ci blocchiamo. È per terra, con il sangue che le esce dalla testa, dentro una pozza di vomito e circondata da bottiglie di birra. Accanto a lei c’è Manuel, il suo compagno del momento. Dorme senza russare, come al suo solito; forse è morto.
Lo guardo di sfuggita.
In realtà non mi dispiacerebbe se lo fosse, anzi ne sarei contenta. Ho paura di lui e odio come diventa mia madre quando bevono insieme.
Da tre mesi vive con noi, vaga per casa, ruttando e scorreggiando davanti a noi tre. «Che schifo» commenta sempre Paula. Io e Beatriz non diciamo nulla, pur pensandola come lei.
«Beatriz, vai a svegliare Rosa» dice Paula.
Rosa è la nostra vicina. Vive da sola perché ha lasciato i suoi figli sulla costa e lei è venuta a Bogotá per lavorare. Doveva restare solo qualche mese e invece sono già dieci anni che vive nella capitale.
Io mi avvicino a mia madre.
«Stai ferma, Pilar» mi ordina Paula mentre si accovaccia vicino a lei e le poggia la mano sul collo.
Il mio cuore batte fortissimo.
«È viva, grazie a Dio!».
Nel giro di un’ora arriva un’ambulanza che carica mia madre e, con le sirene accese, si allontana rapidamente. Manuel si è svegliato e ora protesta con i poliziotti.
«Ma non cacate il cazzo, voi! Abbiamo solo bevuto un po’. Dove hanno portato Fernanda, stronzi? Parlate o vi giuro che...» inizia a vomitare sulle scale.
Paula mi porta in camera e chiude la porta.
«Dici che starà bene mamá?».
«Ma sì, Pilar. Domani tornerà a casa, si stanno prendendo cura di lei in ospedale in questo momento». Io, anche se le mie sorelle cercano di convincermi a tornare a letto, mi accoccolo sotto la finestra, in attesa del suo ritorno. Mi addormento così e quando mi risveglio il giorno dopo sono nel nostro letto.
Mia madre, però, non torna il giorno dopo, né quello dopo ancora.
La terza mattina mi sveglio con le urla di Paula:
«Sei una grandissima stronza! Ti odio e mi fai schifo. Hai capito? Mi fai proprio schifo!».
Io e Beatriz ci precipitiamo giù dal letto, giusto in tempo per vedere mia madre che senza dire una parola sparisce per strada.
«Mamá!» urlo con tutta la voce che ho in corpo dirigendomi verso la porta. Paula mi trattiene. «Lasciami!» le grido. Lei mi tira uno schiaffo in piena faccia. Smetto di dimenarmi.
Mia madre se ne è semplicemente andata. Ha detto a Paula che non sopporta più la sua vita con noi, che non sa cosa darci da mangiare ed è scomparsa.
Rosa chiama in soccorso mia nonna. Dopo quarantotto ore siamo in campagna, vicino Girardot, dove vivo un po’ di tranquillità. Posso girare scalza, fa sempre caldo e non abbiamo bisogno di ricambi di vestiti; stiamo sempre in costume e maglietta. Nessuna di noi va a scuola, ma almeno mangiamo abbastanza. La campagna ci sfama. Nell’acqua gelida del fiume ci divertiamo a lavarci.
Mia nonna è una persona diversa da mia madre. Non fuma, non beve e non alza quasi mai la voce. Alleva gli animali con suo marito e trova sempre una parola gentile per me che passo le ore a osservarla.
«Vuoi darmi una mano, Pilar?».
«Sì, nonna». E mi metto accanto a lei a sbucciare le patate o la frutta per preparare la cena.
Di notte, quando ho gli incubi e mi sveglio urlando, mi permette di addormentarmi nel suo letto. Parla con me fino a che le immagini di quel sangue e di mia madre, mezza nuda, immersa nel suo stesso vomito, non mi lasciano in pace.
Poi, un bel giorno, quando ho appena compiuto dodici anni, mia madre ricompare nella nostra vita. Sento mia nonna e mia madre discutere, finché quest’ultima, senza tanti giri di parole, ci dice che dobbiamo tornare a Bogotá. La "señorita Fernanda", come la chiama mia nonna, è tornata e vuole le sue figlie.
«Dovrà passare sul mio cadavere! Ti prego, nonna, non ci lasciare» dice Paula in lacrime.
E invece la nonna non combatte per noi e nel giro di due giorni siamo di nuovo in città, con nostra madre. Io ho paura di tornare a vivere con lei: non so più chi sia.
Anna
Mi risveglio in un letto d’ospedale.
Per qualche ora alterno momenti di veglia a momenti di sonno, vinta dal dolore troppo forte.
Un coltello ben affilato mi passa dentro gli occhi, scava all’interno e continua ad avanzare dentro la mia testa. Provo a guardarmi intorno, è tutto sfocato. Vedo del bianco. Immagino siano garze poste intorno ai miei occhi per proteggerli. Sento la bocca che tira in ogni direzione, sembra che qualcuno mi stia dilaniando le guance e la mandibola. Ho la gola chiusa e secca, non sento salivazione. Tento di muovere la lingua. E se non potessi più parlare? Mi riaddormento, agitata.
Per due giorni scorgo il viso di mia madre, di mio padre e di mio fratello, vorrei salutarli ma non riesco a emettere alcun suono. Ciò mi getta nel panico più profondo.
«Tranquilla, Anna. Tornerai a parlare, piano piano. Hai subìto tanto stress e molte operazioni. Datti tempo» mi dice un dottore dai capelli rossi che mi visita ogni mattina.
Sento che ispeziona la mia faccia, il mio corpo. Un’infermiera biondina mi cambia le bende quotidianamente. Mi toccano spesso l’addome e quando respiro più forte sento un mattone che mi spinge sul torace. Non mi importa delle ferite, sono viva. Questo è ciò che conta. Sono giovane e mi rimetterò, non importa se passeranno settimane o mesi.
È stato un incidente in macchina.
Ricordo che viaggiavamo con Giulio e cantavamo Hey Jude. Poi il buio.
Mi sforzo di ricordare la dinamica precisa dello schianto, eppure non riesco a recuperare nulla di quell’attimo. L’ultimo ricordo che ho è di voler abbassare il finestrino per il caldo, dopodiché tabula rasa. Cosa mi può essere successo?
Com’è strano trovarmi dall’altro lato,