C'eravamo tanto armati: Storie di ordinarie violenze e di diritti negati
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C'eravamo tanto armati - Gian Ettore Gassani
Prefazione
di Maurizio De Giovanni
Uno la sera chiude la porta e tira un sospiro di sollievo. Pensa: ce l’ho fatta anche oggi. Sono salvo.
Eppure oggi, lo dicono le statistiche, nessun pensiero, nessuna sensazione è più fallace. Perché è proprio l’ambiente familiare, quello che dovrebbe essere il bozzolo della tranquillità e della sicurezza, il luogo dove dovrebbe essere più facile e comodo rimanere se stessi e manifestare anche i lati meno apprezzabili della propria personalità, il posto dove invece vengono a galla spesso tragicamente le fobie, la rabbia, l’insofferenza. Come se chi si ama avesse il dovere di sopportare il peggio di noi stessi, solo per il fatto che vive con noi.
L’amore, insomma, diventa una debolezza. Una fragilità. Come se dire ti amo
o ti voglio bene
consista nel mettere la testa su un ceppo e dare una mannaia in mano a qualcuno, eccomi qui, fai pure di me quello che vuoi.
La cronaca propone purtroppo decine di esemplificazioni di questo assurdo assunto.
Donne e bambini, certo. Anziani, certo. Ma non solo. Le vittime del cosiddetto amore, che amore non è affatto, sono migliaia. E spesso, troppo spesso, quando il malanimo e il disagio non arrivano per fortuna a diventare fatti di sangue, passano quasi inosservate. Fattori quali l’abitudine, le necessità economiche, la dipendenza affettiva nascondono sotto una coltre di silenzio atroci condizioni quali la riduzione in schiavitù, le vessazioni, le violenze sessuali. Non si riesce a chiedere aiuto, e si vivono intere esistenze in un inferno peggiore della morte stessa.
La famiglia sta cambiando, e sta cambiando in peggio. La struttura rigida imposta dalla tradizione, da una sottocultura non più adeguata ai tempi e da un sentimento religioso che non ha radici in una vera fede ma solo in una apparenza ipocrita e ristretta, si confronta e si scontra con tempi fatti di comunicazione costante, di social network e di villaggio globale. Tra adolescenti e genitori si scava un abisso sempre più profondo, che si trasforma in un silenzio impenetrabile e in totale assenza di confidenza. Vediamo volti sorpresi e straniati di fronte a eventi che coinvolgono ragazzi che credevamo di conoscere a fondo, e che invece ci erano assolutamente sconosciuti. Ascoltiamo frasi imbarazzate di madri e padri che cascano dalle nuvole di fronte a manifestazioni terribili della vita dei loro figli, quando scoprono aspetti di cui non erano assolutamente a conoscenza.
Un punto d’osservazione privilegiato di questo fenomeno, se privilegio vogliamo definirlo, è certamente quello dell’avvocato operante nel cosiddetto diritto di famiglia. Un ammortizzatore, un anello di gomma che deve evitare e ricomporre attriti e scontri, provando a rimorchiare navi sull’orlo di irrimediabili naufragi verso acque più tranquille. Gli avvocati più di chiunque sono testimoni del degrado, della dissoluzione, dell’incomunicabilità. Sono gli avvocati a dover penetrare il silenzio, a dover squarciare la cortina di ferro che si crea tra chi un tempo si amava e oggi ha un rapporto tra vittima e carnefice o, peggio ancora, tra carnefice e carnefice. Sta all’avvocato cercare di proteggere i deboli, evitare lo schiacciamento di personalità fragili, salvare e rabberciare situazioni apparentemente senza speranza.
Nessuno come l’avvocato può quindi raccontare casi che, in qualche modo, possano aiutare a comprendere il nostro tempo di più e più profondamente di qualsiasi saggio o di qualsiasi dibattito dotto e coltissimo che però resta teorico e quindi lontano, troppo distante dalla realtà.
Gian Ettore Gassani sente da tempo l’esigenza di alzare lo sguardo dalla miriade di casi che transitano sulla sua scrivania, o su quella dei componenti dell’associazione (l’Ami) che dirige con sensibilità e intelligenza. Sente da tempo l’esigenza di portare a conoscenza delle persone le motivazioni di una discesa all’inferno che, se presa subito, si può fermare arginandone i terribili effetti. Sente da tempo l’esigenza di far comprendere, a volte con garbata ironia, come si possa perdere la testa e farsi del male cercando di fare del male ad altri.
Sono i deboli i protagonisti delle storie che leggerete. Quelli che, presi dalla corsa quotidiana verso un benessere vuoto e spesso fasullo, rimangono schiacciati e senza voce. I deboli, i perdenti, quelli di cui questa società che finge pietà e compassione non si cura mai.
I diritti negati, insomma. Quelli che non arrivano a essere adeguatamente protetti, quelli di cui non ci si cura se non quando è purtroppo tardi.
Non aspettatevi di uscire sani da questa lettura. Avvertirete un sottile, lieve disagio che non saprete spiegare a voi stessi. Vi guarderete un po’ perplessi attorno, chiedendovi il perché questo libro interessante e a volte leggero, fatto di storie che sembrano lontane ed estreme, dia l’impressione di avere un argomento molto, troppo vicino alla vostra porta.
Quella che dà su un pianerottolo probabilmente popolato proprio da quelle storie.
Che stanno per bussare al vostro campanello.
Introduzione
Sì, lo confesso. Rubo alla mia risicata vita privata il tempo per scrivere. Non potrei fare altrimenti.
Svolgo una professione totalizzante che non ammette spazi per altre passioni.
Qualcuno ancora non lo sa, ma a me non è mai importato niente dei diritti d’autore. Vi ho sempre rinunciato nel contratto con l’editore. Mi basta sapere che i miei saggi sono adottati da molti istituti scolastici e usati per le tesi di laurea.
Non avrei mai immaginato che i libri di un avvocato potessero suscitare questo interesse trasversale.
Odio il personal computer. È freddo. Mi deconcentra. Amo la penna e conservo montagne di fogli scarabocchiati come ricordo per i miei figli.
Scrivo in qualsiasi momento libero del giorno e della notte, sulla mia poltrona con una cartella rigida che mi fa da sostegno, sul tavolino di un treno, nella hall di uno dei tanti alberghi in cui mi rifugio per lavoro o per i tanti convegni a cui partecipo. E lo faccio per dare un piccolo, ma concreto, contributo alla denuncia pubblica di tanti diritti civili calpestati dalle nostre leggi e dal sistema.
I temi che tratto sono la carne viva della gente.
Ogni mio libro narra storie di vita vissuta, di emozioni, di solitudini, di diritti negati. Che cerco di raccontare nel modo più accessibile per arrivare al cuore del lettore.
Non è detto, infatti, che un saggio non possa emozionare come un romanzo. E capirete perché.
Dopo I perplessi sposi e Vi dichiaro divorziati, ecco il terzo, che arriva a comporre una trilogia di testi profondamente diversi tra loro nell’impostazione, ma collegati dal filo conduttore di un unico racconto.
Il titolo di questo saggio è ironico, al contrario degli argomenti e delle storie che leggerete.
Storie in chiave romanzata che narrano di conflitti familiari in cui armarsi ha preso il posto di amarsi.
Fino al 2012 avevo raccontato di un’Italia ancora nel pieno Medioevo dei diritti civili.
Poi qualcosa è scattato.
Dopo anni di isolamento giuridico-culturale, il nostro Paese si è faticosamente adeguato alla cultura giuridica dell’Occidente.
La classe forense è stata determinante per questo radicale cambiamento, perché ogni rivoluzione ha avuto bisogno dell’energia e della libertà di noi avvocati.
Siamo noi avvocati il sale di questa società e dello scivoloso sistema giustizia.
Siamo noi che abbiamo contribuito in modo decisivo a spazzare via secoli di arretratezza culturale, dogmi, luoghi comuni, ipocrisie, prese di posizione su temi delicatissimi.
Siamo noi gli interpreti delle passioni di quanti sono indietro, di quanti si sentono fuori dal circuito dei diritti, di coloro che stanno per essere inghiottiti dalle sabbie mobili del processo, della burocrazia e delle leggi.
Eppure ci sono ancora tanti nodi da sciogliere per costruire un modello di società senza ingiustizie e discriminazioni, senza condizionamenti, senza ingerenze.
La storia ci insegna che le leggi non bastano a cambiare le coscienze.
Ci vuole molto altro ancora.
Non possiamo illuderci che l’aver introdotto le unioni civili in Italia abbia messo un argine all’omofobia strisciante.
Se non si abbattono prima le barriere culturali, non si abbatteranno mai le barriere architettoniche mentre la legge Dopo di noi
da sola non potrà scardinare le discriminazioni contro i diversamente abili.
Se non insegniamo agli uomini il rispetto per le donne non riusciremo, con inutili riforme a costo zero, a fermare le quotidiane violenze di genere.
Se non insegniamo a tanti genitori che i figli non sono cose di proprietà, l’affidamento condiviso resterà l’eterna utopia, e non basteranno leggi e convenzioni a salvare tanti bambini contesi.
Se non difendiamo l’idea che un malato terminale senza speranze abbia il diritto di scegliere come morire, non potremo evitare mille suicidi all’anno né il turismo della morte.
Se continueremo a essere indifferenti alla violenza fisica e morale che si consuma quotidianamente contro donne e bambini di culture diverse dalla nostra, ma che vivono nel nostro tessuto sociale, continueremo a sguazzare nella palude dell’ipocrisia e della doppia morale di uno stato di diritto putrefatto.
Se la scuola non verrà messa nelle condizioni di svolgere al meglio la propria fondamentale funzione sociale e se molte famiglie non rispetteranno il ruolo degli insegnanti, non riusciremo a combattere alcune delle cause della devianza minorile.
Se magistrati e avvocati non sapranno anche formare le coscienze della gente e garantire un processo degno di questo nome, continueranno a esistere burocrati senz’anima da una parte e professionisti attaccabrighe dall’altra.
Se mass media, giornali e televisioni, pensando solo a introiti pubblicitari e indici di ascolto, insisteranno a investire poco e male su programmi che trattino dei diritti civili, l’asticella culturale del Paese rischierà di abbassarsi ancora fino a toccare terra.
Questa volta porrò l’accento sui diritti negati in generale e non solo sui conflitti familiari.
I diritti negati da leggi che non ci sono e da un sistema lento e incapace di rapportarsi al nuovo comune sentire e disorganizzato per dare risposte di giustizia giusta e veloce.
Leggerete il racconto inedito di Mina Welby.
Poi vi imbatterete nella testimonianza, con nomi di fantasia, di un violento dissidio tra un padre e un figlio, in una drammatica vicenda di sottrazione internazionale di due bambini e in una storia di omofobia familiare.
E infine nell’analisi dei costumi che cambiano, delle degenerazioni dei social, del fallito rapporto famiglia/scuola, delle problematiche dei ragazzi di oggi, del ruolo sociale dell’avvocato, di malagiustizia e delle recenti ed epocali riforme in tema di diritti civili.
Anche stavolta ho deciso di ospitare le esperienze di altri prestigiosi professionisti come Maddalena Cialdella che, da psicologa e psicoterapeuta, ci offre il racconto di un amore
violento, o Cataldo Calabretta, docente di diritto dell’informazione, che spiega lo scivoloso tema delle tragedie familiari in tv, e Gianni Baldini, presidente Ami Toscana, che racconta la drammatica vicenda di una procreazione assistita negata da una legge ottusa.
Sento il dovere morale di dedicare questa mia ennesima fatica editoriale anche allo staff del mio studio e alla grande associazione forense, che ho l’onore di presiedere a livello nazionale, l’Ami (Associazione Avvocati Matrimonialisti Italiani), e al gruppo giovAmi che è composto da giovani colleghi dell’associazione.
L’Ami è stata un autentico miracolo associativo nel ginepraio di migliaia di associazioni, alcune delle quali monopersonali e/o del tutto virtuali.
Sì, perché creare un soggetto associativo e renderlo nazionale è impresa titanica e non la mera sottoscrizione di un atto costitutivo o la creazione di un sito internet.
È qualcosa di enorme e non fumo negli occhi!
È un progetto fatto di persone in carne e ossa, di autentico impegno sociale, di equilibri, di sane ambizioni, di difficoltà, di sacrifici, di trasferte, di tanto tempo sottratto alla famiglia, di spese senza rimborsi.
Con la sua pionieristica vocazione multidisciplinare, la nostra Associazione ha contribuito a introdurre nel panorama forense nazionale un nuovo modo di essere avvocati, uscendo dalle aule istituzionali ed entrando nei quartieri delle periferie per costruire un canale di comunicazione con la gente.
Anni di vita intensissima caratterizzati da più di mille eventi formativi, da Bolzano a Trapani, senza aiuti economici, senza sostegni politici, ma solo con le nostre forze e la nostra passione militante. Potranno copiare il nostro logo o qualche evento, ma non la nostra grande passione.
Ho puntato sul gioco di squadra, sull’orgoglio, sul senso di appartenenza di ciascuno di noi, sul rispetto delle regole statutarie, sui giovani avvocati e su colleghi esperti che avevano la legittima aspirazione di misurarsi con altre realtà e ricevere il giusto riconoscimento in termini di meritata visibilità, anche ben oltre i confini della propria regione. Tutti hanno avuto e avranno sempre un ruolo importante. È questo il nostro segreto.
Sì, l’Ami è stata il frutto di follia, pura follia di gente partita dal nulla che ci ha creduto, che ha saputo remare verso un’unica direzione e che ha scommesso su se stessa. Niente e nessuno potrà cancellare quanto è stato!
Le mille facce della nostra violenza
La violenza nella famiglia, come nella società, ha una serie infinita di armi nel suo allucinante arsenale. Leggo alcuni fascicoli delle mie cause e vi trovo rancore, rabbia, disperazione, pazzia. Certa gente perde letteralmente la testa quando odia un coniuge o un familiare. Perché la violenza umana è un fenomeno trasversale. Non ha ceto. Non ha colore politico. Non ha religione. Non ha sesso. Non ha età. Sono violenti gli uomini, ma lo sono anche le donne. Sono violenti i genitori, ma lo sono anche i figli. Tutti sono potenziali assassini del corpo o dell’anima. Chiunque può essere l’orco di casa, senza eccezioni.
Ci sono le violenze dirette che si annidano all’interno della famiglia e quelle indirette di un sistema spesso inadeguato che non sempre aiuta i soggetti deboli. Ci limitiamo a fare la conta dei morti della mattanza.
Sforniamo nuove leggi. Organizziamo fiaccolate. Accendiamo candele. Parliamo di cultura da cambiare. Speriamo che i carnefici vengano puniti in modo esemplare. Ci riempiamo la bocca di bei propositi e princìpi. Però non ci allarmiamo per tutte le altre gravi violenze intrafamiliari, quelle morali e psicologiche, quelle che non si possono refertare in un pronto soccorso, quelle che ci scivolano dalle mani, quelle che non uccidono il corpo, ma l’anima delle loro vittime.
Non esistono soltanto le coltellate, l’acido o le stragi. Ci sono altri orrori in famiglia che sono il preludio di orrori ancora più grandi.
È violenza ogni violazione di un diritto fondamentale, ogni umiliazione della dignità umana, ogni discriminazione, ogni denegata giustizia.
È violenza alienare un figlio e impedirgli di amare l’altro genitore.
È violenza essere possessivi con i figli e decidere sempre per loro.
È violenza non aiutare economicamente i figli.
È violenza disinteressarsi dei propri figli senza essere presenti nella loro vita.
È violenza cercare il proprio riscatto sociale attraverso i figli.
È violenza interferire nelle dinamiche del matrimonio dei propri figli.
È violenza discriminare ingiustamente un figlio a discapito di un altro figlio.
È violenza negare le responsabilità dei propri figli e difenderli a spada tratta, invece di educarli.
È violenza sporcare l’immagine del proprio ex solo per vendicarsi o per riscattarsi.
È violenza sporgere false denunce contro un marito o una moglie.
È violenza affamare o mandare in miseria l’ex.
È violenza non consentire al coniuge di realizzarsi come persona o non rispettare i suoi sogni.
È violenza essere avari ed egoisti con i familiari, pensando solo a se stessi.
È violenza abbandonare un genitore anziano quando non serve più.
È violenza sposarsi per interesse, giocando sui sentimenti dell’altro.
È violenza non rispettare i genitori.
È violenza non rispettare i sentimenti e il ruolo dei nonni.
C’è, poi, la violenza del sistema che aggiunge altra violenza alla violenza. È quella più subdola e più difficile da accettare perché non c’è nulla di più violento della malagiustizia e della negazione dei diritti. È quella inadeguatezza diffusa a vari livelli che non riesce a dare risposte a chi ha già subito del male e avrebbe bisogno di protezione. È quella sottocultura giuridica che considera la vittima del reato qualcosa di marginale nel processo e non come il suo perno. È quel garantismo a senso unico per l’imputato senza il dovuto rispetto per il dolore di chi ha sofferto.
Allora è violenza un tribunale che non funziona e che non tutela le persone.
È violenza rinviare una causa a due, tre anni, quattro anni.
È violenza un giudice che non studia a dovere gli atti e osa emettere provvedimenti.
È violenza un giudice che scrive sentenze copia e incolla
sbagliando sciattamente anche i nomi delle parti in causa.
È violenza emettere una sentenza in tempi insopportabilmente lunghi.
È violenza un avvocato che soffia sul fuoco di un conflitto, ingannando il giudice e il proprio cliente.
È violenza un avvocato impreparato.
È violenza un avvocato che non rispetta la propria libertà e autonomia ed esegue ordini dal proprio cliente.
È violenza l’avvocato che delegittima il ruolo del giudice e viceversa.
È violenza un assistente sociale di parte o sessista.
È violenza uno psicologo che sostiene in mala fede abusi o maltrattamenti inesistenti o sostiene tesi del tutto infondate o inconferenti al caso concreto.
È violenza non accorrere subito a difesa di una vittima di stalking o di altri reati.
È violenza rinchiudere un bambino in una casa famiglia senza motivo o per troppo tempo.
E poi c’è la violenza delle leggi mancate.
È violenza negare la salvezza di un bambino abbandonato mediante l’adozione di chi non è sposato.
È violenza negare la dolce morte a un malato che ha perso speranze e dignità costringendolo a rantolare fino all’ultimo in un letto o a suicidarsi.
Ma l’elenco delle violenze è infinito.
Esiste e tocchiamo con mano la violenza delle omissioni, delle disorganizzazioni, delle negligenze, delle incapacità, delle insensibilità, della mala fede, degli stereotipi.
Non dobbiamo più pensare che il male