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Brevi lezioni di filosofia. Il pensiero e il mondo intorno
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Brevi lezioni di filosofia. Il pensiero e il mondo intorno

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La filosofia è attività di pensiero che non deve essere relegata nelle aule accademiche, perché  è possibilità concreta di ripensare il mondo, è costruzione di una strategia della speranza, che possa illuminare il presente e aprire al futuro. Ogni volta che la Storia sembrava chiudere gli orizzonti, la filosofia è andata controcorrente, ha messo a nudo la pigrizia mentale e il conformismo dei rassegnati. Per questo motivo i filosofi sono scomodi e guardati con sospetto da chi detiene il Potere e teme la fastidiosa voce della coscienza critica. Il primo filosofo ribelle è stato Socrate e dopo lui una folta schiera di pensatori ha messo in guardia dalla morte dell’anima.Questo libro vuole introdurre alla filosofia, esperienza profondamente umana, alle prese con le domande eterne sull’uomo, la felicità, la verità, Dio e la giustizia, che ritornano sempre uguali e sempre diverse, dalle colonne dei templi greci al labirinto delle reti informatiche.
LanguageItaliano
PublisherDiarkos
Release dateDec 6, 2019
ISBN9788836160020
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    Brevi lezioni di filosofia. Il pensiero e il mondo intorno - Antonio Rinaldis

    Introduzione

    La difesa di socrate

    Nell’anno 399 avanti Cristo la democrazia era appena stata restaurata ad Atene dopo la parentesi tragica del governo dei Trenta Tiranni che avevano istituito una dittatura violenta e dispotica.

    Il filosofo Socrate viene accusato da tre cittadini di orientamento democratico, Anito, Meleto e Licone, di gravi reati: corruzione dei giovani, empietà e introduzione di nuovi Déi. Le accuse rivolte a Socrate nascondono in realtà un disegno politico più ampio. Si vuole, infatti, punire il filosofo che era sospettato di avere collaborato con il precedente governo. L’autodifesa che Socrate pronuncia davanti ai giudici viene ricostruita da Platone nella celebre Apologia e diventa un’apologia della libertà di pensiero e della filosofia come ricerca incessante e libera da pregiudizi e dogmatismi.

    Proviamo ad analizzare le accuse in maniera più attenta. Cominciamo dalla corruzione dei giovani, che è sostenuta anche da Aristofane nelle Nuvole, ed è l’accusa più politica, perché la gioventù che seguiva Socrate erano i figli della classe dirigente che governava la città. Praticare il dubbio era un’attività pericolosa, perché avrebbe potuto scardinare il sistema di credenze, valori sui quali si reggeva il governo; l’ironia socratica era un veleno che rischiava di distruggere i fondamenti della comunità politica e sociale, perché un cittadino libero e consapevole non si lascia guidare da nessuna autorità superiore, ma risponde soltanto alla propria coscienza. La caricatura di Aristofane, di un Socrate che crea una scuola, il Pensatoio, che sta seduto su una cesta a mezz’aria per studiare meglio i fenomeni celesti, e che convince Fidippide a picchiare il padre Strepsiade è la sublimazione artistica del timore reale che l’élite provava nei confronti di un personaggio scomodo. Socrate tuttavia non è un rivoluzionario, non vuole abbattere nessun governo, ma è un ribelle, uno spirito libero che non accoglie visioni del mondo preconfezionate, e invita alla maieutica, la difficile arte del partorire idee e pensieri nuovi e personali. La pedagogia socratica è antidogmatica e critica, manifesta il senso stesso del filosofare, che è nemico sia della doxa, quell’opinione fondata su convinzioni e idee assunte in maniera passiva, irriflessiva, ripetute senza intelligenza, sia della pistis, che è fede incondizionata e fanatismo cieco e irrazionale, che conduce inevitabilmente alle guerre di religione, ai massacri attuati in nome di una Verità superiore.

    Anche l’accusa di empietà nasconde delle motivazioni politiche. Per intanto non era la prima volta che un filosofo veniva portato in Tribunale con quella giustificazione. Qualche anno prima, Anassagora viene condotto in giudizio perché aveva avanzato l’ipotesi che la luna fosse composta da materiale roccioso; al filosofo naturalista le cose andarono meglio, perché Pericle riesce a salvargli la vita, anche se viene costretto all’esilio. Anche in quella occasione il motivo della condanna era stato di natura politica. Pare che Anassagora fosse amico dei democratici e di Pericle e quindi la sua condanna per empietà va spiegata come il risultato di una lotta tra fazioni opposte, e con la volontà di tutelare la religione tradizionale. L’accusa a Socrate è totalmente infondata, dal momento che, come riporta Senofonte, egli aveva abbandonato la filosofia naturalistica per occuparsi di ciò che apparteneva all’antropologia, l’etica, i valori. Durante il processo Socrate si difende, ricordando alla giuria e agli accusatori di avere sempre partecipato alle cerimonie religiose, e ribadisce di non essersi mai occupato di stelle e di cieli; la fedeltà di Socrate alla città di Atene verrebbe anche confermata dalla sua partecipazione a ben tre campagne militari, a Potidea, a Delio e Anfipoli. Che cosa si cela allora dietro le accuse di empietà? La vera ragione forse starebbe in quello stretto rapporto, intimo e personale, con il Divino che Socrate chiama Dàimon, guida divina, coscienza morale, voce intermedia di una qualche divinità, perché, come dice Socrate stesso nell’Apologia, i demoni sono Dèi o figli di Dèi. Una religione personale, dialettica, filosofica, senza riti, mediazioni sacerdotali che però intacca l’ethos della polis, perché emancipa il singolo dall’autorità e lo responsabilizza di fronte al Divino.

    Al termine dell’appassionata autodifesa di Socrate i giudici popolari saranno chiamati a esprimere un verdetto.

    Il processo si tiene in un luogo particolarmente suggestivo della città, un luogo elevato.

    Di fronte all’Acropoli c’è una collinetta pietrosa, l’Areopago, dove si svolgevano i processi per i delitti più gravi e venivano giudicati i criminali. All’aria aperta, perché si riteneva che il criminale fosse impuro e persino contagioso e che quindi i giudici dovessero collocarsi a distanza e in un luogo aperto per non essere contaminati dalla colpa dell’imputato.

    Platone, il più grande dei discepoli di Socrate, ricostruisce l’arringa difensiva del Maestro e nelle due votazioni che seguono; nella prima, il filosofo viene condannato con uno scarto minimo, appena trenta voti, e deve proporre la sua condanna, secondo le leggi ateniesi. In questo frangente decisivo del processo entra in gioco l’ironia socratica, che avrà l’effetto di irritare ulteriormente i giudici: quale pena propone Socrate per sé? Nessuna, naturalmente, ma piuttosto un riconoscimento e una pensione nel Pritaneo a spese dello Stato per i servizi che ha reso alla città. Occorre ricordare che il Pritaneo era il luogo dove venivano ospitati i cittadini che si erano distinti per merito, come per esempio gli atleti olimpionici, i generali, i politici. Se proprio deve immaginare un’ammenda Socrate si dichiara disposto a pagare la cifra simbolica di una mina d’argento, che è davvero una somma ridicola. Neppure l’esilio potrebbe essere una soluzione, perché Socrate continuerebbe a esercitare la sua professione di filosofo anche in un’altra città, perché «una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta».

    Dal momento che l’imputato Socrate non si ritiene colpevole e che non è disposto a proporre una pena, ma al contrario, ridicolizza la corte, chiedendo di essere addirittura mantenuto per il resto della vita a spese dello Stato, si procede a una seconda votazione che deve decidere la condanna a morte. Questa volta il numero dei voti che vogliono l’esecuzione dell’imputato è molto maggiore, segno che l’ironia socratica ha indispettito i giudici, che speravano in un pentimento, una qualche forma di abiura, che non ci sono state. Dopo avere ascoltato l’esito della votazione Socrate si rivolge a coloro che hanno votato per la sua condanna, ma in realtà parla ai posteri, a coloro che verranno dopo di lui. Se pensavano di sbarazzarsi di un personaggio scomodo, che li costringeva a riflettere sulla propria vita, hanno compiuto un grave errore, perché altri verranno, e ancora più numerosi, a chiedere conto, a domandare sulla virtù e sulla giustizia, il vivere rettamente, come scrive Platone.

    Il processo a Socrate si conclude con la condanna a morte del filosofo che beve la cicuta e si congeda dai suoi discepoli con un’ultima, ambigua, raccomandazione che rivolge a Critone, secondo il suo stile ironico e suscettibile di essere variamente interpretato: bisogna sacrificare un gallo ad Asclepio.

    Ma perché le ultime parole di Socrate parlano di un gallo di Asclepio? Nel pantheon greco Asclepio era il dio della medicina, delle guarigioni, ma anche, secondo alcuni testi, delle resurrezioni, perché capace di riportare in vita i defunti. Il gallo veniva sacrificato in occasione di guarigioni, ma le ultime parole di Socrate non sono chiare, perché non è possibile stabilire se ci fosse dell’ironia, oppure se il filosofo si riferisse a una seconda vita, che sarebbe iniziata dopo la morte, molto migliore di quella terrena. Se il ringraziamento ad Asclepio sia stato un rifiuto della vita mortale, come sostiene Nietzsche, o un ringraziamento, perché con la morte si è liberato dai suoi nemici e non ha tradito gli ideali per i quali è vissuto, o per qualche altro motivo, non è possibile stabilirlo in maniera definitiva. In assenza di una verità accogliamo entrambe le versioni: una vita vissuta nella ricerca e per la ricerca è comunque una vita che merita di essere celebrata con un rito di ringraziamento e, per coloro che sono stati retti e giusti, la morte non può essere nulla di spaventoso e terribile.

    Così andarono le cose nel 399 avanti Cristo. Socrate viene giustiziato e la città di Atene si macchia di un delitto orrendo, ai danni di un uomo onesto, il più onesto del suo tempo, scriverà Platone in una delle sue ultime lettere, scritta molti anni dopo la conclusione del processo.

    Ma se riavvolgiamo la serie temporale degli eventi, cambiando qualche ingrediente che cosa potrebbe succedere? Proviamo a immaginare che Socrate non si sia limitato a replicare alle accuse di Anito, Meleto e Licone, ma abbia provato a scagionare la filosofia stessa dalle accuse più ricorrenti che le venivano rivolte dal demo, dai politici, da alcuni poeti. Un Socrate perenne chiede ai giudici più tempo per la sua difesa, li intrattiene sulla collina dell’Areopago per cinque giorni nel corso dei quali spiega che cos’è la filosofia, di che cosa si occupa e perché è essenziale per la vita. Racconti filosofici, teorie, visioni del mondo, che si susseguono per cinque giorni per spiegare che ai filosofi non si può imputare nulla e che la filosofia è l’attività più umana, e che le idee sono le cose più reali di questo mondo, e che non c’è ambito nel quale la filosofia non possa accedere con le sue domande, i suoi metodi, le risposte sempre parziali e mai definitive, ma essenziali per dare un senso al mondo. Nei cinque giorni che Socrate ha strappato ai giudici si parlerà dell’uomo, di Dio, della felicità, della giustizia e si cercherà di spiegare che cos’è quella strana creatura che è la filosofia. Un Socrate perenne e una filosofia perenne, senza tempo, perché le domande sono sempre le stesse, ma le risposte variano, e quello che sembra una debolezza della filosofia, l’assenza di una risposta definitiva, appare una risorsa e una vera ricchezza, perché, proprio attraversando la storia della filosofia, guidati da un Socrate sovrastorico, possiamo imparare la natura democratica della ricerca.

    Il filosofo Socrate, nel momento più difficile della sua vita, ci conduce all’interno del labirinto filosofico e ci presenta gli ospiti che lo abitano, in una passeggiata che ripercorre più di venti secoli di pensiero e di pensieri, con la speranza di convincere i suoi accusatori della sua innocenza e di quella di tutti coloro che hanno seguito il suo esempio.

    Questo Socrate immortale si assume il compito di difendere la filosofia di fronte a una giuria molto più vasta, l’intera specie umana, che deve pronunciare un verdetto, che può essere di assoluzione o di condanna. Nella realtà storica la filosofia e Socrate sono stati ritenuti colpevoli e condannati al silenzio della morte, ma questa volta le cose potrebbero andare diversamente.

    Meravigliosa filosofia

    Il primo discorso non può che riguardare la filosofia stessa, che cos’è, di che cosa si occupa e a che cosa serve.

    Fin dall’inizio i filosofi sono stati osservati con un misto di sarcasmo e di stupore dalle persone comuni, che ritenevano l’attività filosofica la più inutile e stravagante, al punto che la sentenza definitiva sulla personalità del filosofo è stata fornita dalla domestica di Talete che lo vede cadere in un pozzo, mentre è intento a studiare la volta celeste. Proviamo a immaginare la reazione di questa donna semplice quando vede il grande uomo, uno dei Sette Sapienti del mondo, precipitare ingloriosamente nel fondo di un pozzo a causa della sua distrazione. Perché i filosofi sono distratti e con la testa fra le nuvole e si occupano di questioni che, alla maggior parte dei normali, appaiono prive di senso. Eppure tutti si permettono di discutere di Dio, della Libertà, della Giustizia, della Felicità, anche senza essere necessariamente filosofi. Eppure le idee sono le cose più reali che esistono al mondo, ma a differenza di quello che pensava Platone non sono statiche e immutabili, e divengono secondo il tempo e lo spazio. Ci sono spazi e tempi della filosofia e per ciascuno di questi ci sono domande, che possono apparire sempre le stesse, ma che richiedono risposte adeguate al momento storico. Perché se è vero che c’è una philosophia perennis che propone fin dall’inizio le stesse questioni, è altrettanto vero che le stesse domande sono costantemente riformulate alla luce della condizione in cui colloca il filosofo.

    La metamorfosi che investe le idee vale anche per la filosofia, che modifica il proprio statuto e si ridefinisce, anche se mantiene due caratteristiche fondamentali: la razionalità argomentativa e l’apertura dialogica. Nessuna teoria filosofica degna di questo nome sarebbe possibile senza un’adeguata dimostrazione razionale, e ciò distingue il filosofo dall’uomo comune, che ha idee ma non sa spiegarle né tantomeno argomentarle; la storia della filosofia è una storia di conflitti e di contrapposizioni, di scontri tra filosofi, ma non si è mai vista una guerra fra platonici e aristotelici, perché il campo della filosofia non prevede l’annientamento dell’interlocutore e resta comunque uno spazio aperto in cui l’ultima parola non è mai stata pronunciata.

    La filosofia nasce dalla meraviglia, scrive Aristotele nel Primo Libro della Metafisica. La parola greca thauma non significa soltanto meraviglia, stupore, ma anche sgomento e paura, di fronte a qualcosa che non si conosce e che atterrisce. Chi si meraviglia, continua Aristotele, vuole sapere, e chi desidera conoscere non sa.

    I primi filosofi erano curiosi e meravigliati della grandezza dell’universo e della natura, ma si muovevano nell’ignoranza e anche questo è un inizio di filosofia, un indizio di una natura filosofica. La curiosità, il desiderio, a cui si deve accompagnare necessariamente la consapevolezza della non sapienza, sono prove di una vocazione filosofica. Lo spirito filosofico è quindi caratterizzato da una mancanza di sapere, accompagnata da una volontà di conoscere. Per questo Platone, nel Simposio, scrive che i filosofi non possono appartenere né alla specie degli dèi, né a quella degli ignoranti, perché i primi, gli dèi, sono sapienti e quindi non cercano di sapere e di conoscere, mentre l’ignorante è tale proprio perché è convinto di sapere, pur non sapendo, e quindi non è mosso dal fuoco del desiderio della conoscenza.

    Un’altra condizione essenziale perché nasca la filosofia è la libertà dal bisogno materiale. Solo nel momento in cui le attività degli esseri umani sono state in grado di emanciparsi dalla totalizzante ricerca della mera sopravvivenza hanno potuto trovare spazio all’esercizio della riflessione. Un uomo assediato dai bisogni vitali non può condurre alcuna investigazione di tipo filosofico ed è incapace di libertà di pensiero, in quanto la necessità di provvedere alla propria sopravvivenza lo rende dipendente dal mondo esterno.

    La vita filosofica richiede quindi delle condizioni di benessere materiale e di sviluppo sociale e civile superiori.

    A questa considerazione se ne aggiunge un’altra. È evidente che la filosofia non ha alcun valore pratico: come dice Aristotele, non possiede una sua utilità, a differenza delle altre forme di sapere, che hanno uno scopo diverso dal puro piacere e gusto della conoscenza. Per i Greci questo tipo di sapere, disinteressato e fine a se stesso, si chiamava theorein, che si traduce con la parola contemplazione. Theorein deriva dal verbo greco theoreo, guardo, osservo, che è sua volta composto da thea, spettacolo, e horao, vedo. Theorein è quindi visione di uno spettacolo e, in questo caso, lo spettacolo che si osserva, che si guarda, è il mondo. Contemplazione deriva a sua volta dal latino contemplari, che significa letteralmente osservare il volo degli uccelli da parte dall’aruspice, l’oracolo,

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