Il Mediano di Mauthausen
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Book preview
Il Mediano di Mauthausen - Francesco Veltri
Prefazione di Eraldo Pecci
Ex calciatore di Bologna, Torino, Fiorentina, Napoli
e della nazionale italiana
Vittorio Staccione era un uomo buono e ingenuo come lo sono molti veri sportivi.
Se dopo tutte le volte che ti hanno fermato ingiustamente a Cremona, a Torino, a Firenze e a Cosenza, un poliziotto, prima di mandarti in un campo di concentramento, ti concede la possibilità di andare a prendere in perfetta solitudine i tuoi effetti personali a casa e tu, invece di fuggire, ritorni in caserma, significa che hai una fiducia enorme nel prossimo. Quella fiducia che abbonda negli spogliatoi, specie in quelli che ospitano sport di squadra, dove consideri i tuoi compagni amici veri, incapaci di farti del male, e gli avversari non nemici ma gente come te, con la tua stessa passione.
Così ben disposto, cosa mai ti potrà accadere di brutto?
Ecco, è proprio questo che pensa un uomo giusto. Ma non è stato sempre così.
Vittorio ha avuto la sfortuna di vivere in un tempo infausto, un tempo in cui accaddero cose orribili, impensabili, inumane. Cosa fosse giusto lo decidevano uomini ingiusti e il calciatore del Torino lo ha provato sulla sua pelle.
Ostacolare il potere come lui ha fatto insieme al fratello Francesco poteva rivelarsi fatale. Era sufficiente un sospetto, una spiata, un’invidia e ti ritrovavi in grossi guai. L’olio di ricino, a confronto, un buffetto.
Provando a sdrammatizzare, come piace fare a me e per quanto sia possibile in questo caso, mi viene da pensare che se avesse avuto l’occasione di vedere quel gran capolavoro cinematografico qual è Schindler’s List, magari Vittorio Staccione si sarebbe fatto di nebbia e il suo destino sarebbe stato diverso. Ma quella pellicola, purtroppo, è soltanto una delle tante storie venute fuori da quegli anni terribili. No, non esisteva nessun film a metterti in guardia, e l’onesto Vittorio non poteva fare altro che vivere spontaneamente ogni sua passione.
Un uomo semplice come lui, probabilmente, se avesse avuto l’opportunità, al cinema avrebbe scelto di vedere un film come Fuga per la vittoria, dove dopo una rovesciata all’incrocio dei pali di Pelè, si torna tutti a casa per un lieto fine. Lo avrebbe apprezzato perché era in linea con i suoi sentimenti. Che poi sono anche i miei.
E forse proprio a qualche partita di calcio, condita da un grande gesto tecnico, avrà pensato Vittorio scoprendo, davanti ai suoi occhi stanchi e rassegnati al peggio, quel rettangolo di gioco situato all’entrata del lager di Mauthausen.
Laggiù, in quell’inferno, la realtà si sarebbe rivelata ben più dura, lontana da ogni competizione, da ogni umanità, da ogni rovesciata all’incrocio. Mi vengono i brividi anche solo a immaginarlo quel campo di calcio attaccato a un luogo di morte. Al suo luogo di morte.
Nel libro di Francesco Veltri, coadiuvato nel lavoro di ricerca dal pronipote di Staccione, Federico Molinario, l’inferno di ciò che ha vissuto l’ex calciatore torinese emerge in tutta la sua crudezza. La bella e al contempo sfortunata storia sportiva di questo dimenticato talento piemontese si scontra drammaticamente con una realtà inspiegabile e assassina. Le sue scelte, il suo umile pensiero di libertà, non hanno avuto scampo di fronte a tanta crudeltà.
So che è semplice e forse anche banale dirlo, ma chi tra quelle mura di cemento e di odio è sopravvissuto sopportando l’insopportabile e penando l’impossibile, deve ritenersi soltanto fortunato, come quando vinci ai calci di rigore dopo aver contenuto a fatica per tutta la gara gli attacchi avversari.
Ancora oggi, visitando quei luoghi si sente l’odore acre della morte, si intravede la miseria, si palpa il freddo dentro ogni cosa che in quei lager fu vita, tanto che non ti meraviglieresti affatto di vedere uscire da una baracca, anche solo per un istante, qualche prigioniero esausto col vestito rigato addosso.
La sola via di fuga era il camino e ancora oggi si stenta a crederci. L’alternativa era morire di fame come è successo a Francesco, per un’infezione come accaduto a Vittorio, o di fatica, di botte, freddati da un colpo di pistola improvviso.
Vittorio Staccione era un lottatore per ruolo e vicissitudini e ha combattuto fino alla fine, fino a pochissimi attimi prima dell’arrivo delle forze di liberazione.
Era un uomo giusto, puro e forte perché se non sei tutte queste cose, se non sei una persona di spessore umano e morale, non puoi superare la perdita di una amatissima moglie e di una creatura, una figlia appena nata.
Non è proprio giusto morire a quarant’anni dopo tanto lottare.
Leggendo questo libro emozionante e venendo a conoscenza della vita di questo mio illustre collega (sì, perché, pur avendo giocato nelle stesse squadre ma in epoche diverse, considero Vittorio un mio compagno) mi viene da pensare una cosa strana: penso a quando ci incontreremo nell’aldilà e finalmente ci conosceremo. Chi lo sa, magari riusciremo anche a organizzare una partita tra ex calciatori di Torino e Fiorentina, le due squadre che ci uniscono. Ci vedo seduti vicini in panchina o a correre insieme in mezzo al campo. Tra tante parole, gli dirò certamente che il suo sacrificio non è stato vano.
Perché chi, come me, è venuto dopo, ha vissuto bene e in pace per tanto tempo anche per merito suo.
Lo abbraccerò e lo ringrazierò.
Nell’attesa che quel giorno arrivi, mi adopererò, nel mio piccolo, a far conoscere a più persone possibili storie come questa affinché non accadano più.
Introduzione di Federico Molinario
Pronipote di Vittorio Staccione
Mai avrei pensato, recandomi alla giornata della memoria a Cremona il 26 gennaio 2018, che sarei riuscito a portare a termine un mio vecchio sogno.
Quello di raccontare la vita entusiasmante e drammatica, spensierata e alfine tragica del fratello di mio nonno: Vittorio Staccione.
Il merito è di un amico sincero, Francesco Veltri, che con dedizione e curiosità, aveva già da alcuni anni recuperato informazioni per una biografia dettagliata.
Io non ho fatto altro, grazie alle conoscenze dirette, che completare un puzzle struggente, mettendo a disposizione informazioni ricavate in anni di ricerche.
Vittorio Staccione è la dimostrazione storica della ricerca dell’uguaglianza tra le persone e della comprensione reciproca, della voglia di socialità e democrazia.
Questa figura, ingenua per alcuni versi, idealista e genuina negli atteggiamenti, ha attraversato, e purtroppo subito in modo tragicamente ultimativo, il periodo più buio della storia umana recente.
La storia inizia come un Natural
, un talento naturale espresso dando calci ad un pallone, all’inizio del Secolo breve
, in alcuni campetti di periferia di Torino, sua città natale.
Si innalza con la convocazione e la partecipazione nella squadra del cuore, il Torino, che in quel momento esprime il più bel gioco in Italia e, grazie al proprio talento, ottiene la massima gratificazione sportiva possibile: vincere il titolo di Campione d’Italia.
Prosegue tra alti e bassi, con la straordinaria partecipazione alle avventure di altre grandi squadre italiane come la Cremonese, la Fiorentina, il Cosenza e il Savoia di Torre Annunziata.
Avventure che se da un lato gli permettono, da privilegiato, di instaurare importanti rapporti di amicizia, dall’altra non gli evitano di patire gravissimi soprusi e snervanti limitazioni.
Una situazione che Vittorio aveva già imparato, sulla pelle della propria famiglia, a considerare iniqua e ingiusta contrastandola fino allo stremo. La sua battaglia sarà portata avanti come una bandiera sin dove glielo permetterà la sua stessa vita.
Il suo impegno politico e sociale, derivato dalla conoscenza familiare e personale della situazione del basso proletariato operaio in una città come Torino, agli albori dell’industrializzazione, lo segnerà in modo definitivo.
Giovanissimo subirà cocenti umiliazioni umane e sportive, come la non menzione della sua presenza in squadra a Cremona, o i fermi continui e le percosse subite in tutta Italia, prima e dopo le grandi vittorie.
Negli anni, tuttavia, non verrà mai meno il suo rischioso, ma straordinario e primigènio impegno per una società di pari. Questo impegno sarà portato alle estreme conseguenze con gli ultimi avvenimenti, in cui, incurante dei rischi, si dedicherà al contrasto del fascismo e del nazismo direttamente in fabbrica. Ciò gli costerà la deportazione e una morte tra atrocità e sofferenze indicibili.
Ogni volta che provo a ripensare o rileggere documenti che riguardano le sofferenze subite dai milioni di deportati di tutta Europa, un brivido di incredulità e incapacità di immaginare tali atti di crudeltà gratuita, mi assale.
Immaginare cosa possa aver visto, subito e sopportato lo zio Vittorio, negli ultimi spaventosi mesi della sua vita, va al di là della mia capacità di immaginazione.
Cosa possa aver pensato in quei momenti, i ricordi che possono aver attraversato la sua mente: la famiglia, le famiglie che ha costruito e perso negli anni, gli amici e gli avversari di tante partite, gli ideali che lo avevano sostenuto, misti al mero desiderio di sopravvivere; tutto ciò deve essere stato terribile, spaventoso. Soltanto un uomo con una forza d’animo sovrumana avrebbe potuto sopportare tanta crudeltà. E lui, evidentemente, c’è riuscito.
Mi piace immaginare ora la sua soddisfazione per i risultati politici e sociali ottenuti in Italia anche grazie al suo immane sacrificio.
E anche il compiacimento per il ricordo che le sue grandi capacità sportive gli sono state ultimamente riconosciute: la memoria che ogni anno Cremona gli dedica attraverso il Panathlon e una targa commemorativa allo stadio Zini
, l’inserimento nella Hall Of Fame tra i grandi della Fiorentina di tutti i tempi, le mostre a lui dedicate al Museo del Grande Torino. Insomma, Vittorio Staccione, con la sua straordinaria vita di impegno sportivo e sociale, ha arricchito la storia di questo Paese.
Egli ci ha lasciato una eredità immensa ed è nostro dovere non dimenticare e rinnovare, ogniqualvolta sia necessario, tale messaggio di fraternità, uguaglianza e sportività.
A Teresa,
mia madre.
Prologo
Quando quel pomeriggio di novembre il mediano di Mauthausen entrò sul terreno di gioco non riusciva quasi a reggersi in piedi. Era esausto, pallido in volto, pesava poco più di 40 chili e aveva dolori dappertutto, quasi da non riuscire a dare una priorità alla sofferenza più urgente. Indossava una strana divisa a righe verticali, diversa, palesemente diversa da quelle dei suoi occasionali ed euforici compagni di squadra.
In passato, per giocare a football, aveva vestito casacche a strisce verticali dei colori più innocui o sgargianti, adesso, però, quella strana uniforme aveva un aspetto inquietante e pesava quanto una interminabile vita intera.
Tutti sorridevano intorno a lui, tutti urlavano con ingiustificata superbia, l’uno sull’altro, quella orribile lingua inquisitoria e dal sapore metallico, di cui ormai aveva imparato a riconoscere il suono macchinoso e violento, simile a quello di un tamburo che non la smette un secondo di sbatterti dentro il suo ciclico frastuono, colpendo le poche ossa che, chissà per quale inutile mistero, riescono ancora a tenerti in piedi.
Il mediano di Mauthausen in quello strano e freddissimo pomeriggio di novembre rivide un pallone dopo anni di chissà cos’altro, ma non seppe bene cosa farsene. In quel momento gli sembrò un oggetto quasi sconosciuto, ostile. Forse in un tempo non troppo lontano avrebbe avuto la forza e la voglia di calciarlo in avanti e corrergli dietro come un pazzo innamorato.
Ma ora non più.
Ora, di quella folle partita, nessuno, lui per primo, avrà voglia di ricordare un solo dettaglio, un solo tiro in porta, un solo gol. Di quella partita surreale, forse rimarrà soltanto il silenzio o un rimbombo sordo e spaventoso, capace di annientare persino l’ultimo