Maryse Condé, la passeuse de mots
By Milena Risi
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Nel secondo capitolo saranno studiate le tematiche che tracciano un filo conduttore nei suoi testi: lo sguardo adulto sulla sua infanzia, il ruolo della donna nei suoi romanzi – comparando lo stereotipo della donna in Guadalupe con un’ipotesi di evoluzione femminile e tentativo di emancipazione – ed i collegamenti che si trovano tra la cultura della Guadalupe, le sue tradizioni, le sue credenze ed il suo vociferare comune. Infine, si farà luce sulla scelta linguistica e chiarezza su alcune terminologie inopportunamente e troppo spesso utilizzate – francophonie, Francophonie e francophone – e con l’ausilio del Manifesto Pour une littérature-monde en français si converrà all’idea di una letteratura-mondo, anche attraverso un’analisi delle riflessioni che la scrittrice inserisce nei suoi testi.
Milena Risi, traduttrice e curatrice editoriale, è laureata in Lingue e Letterature Moderne con tesi in letteratura francofona.
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Maryse Condé, la passeuse de mots - Milena Risi
Milena Risi
Maryse Condé, la passeuse de mots.
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Indice dei contenuti
Introduzione
PRIMO CAPITOLO
SECONDO CAPITOLO
TERZO CAPITOLO
Conclusione
Bibliografia, sitografia, filmografia
A Chris,
ancora a te
ed al tuo coraggio che,
a modo mio,
ho trovato anch’io.
« Nay, be a Columbus to whole new continents and worlds within you, opening new channels, not of trade, but of thought . »
H. D. Thoreau, Walden.
«C’est vivre qu’il faut vivre. S’accrocher à la vie. Obstinément.»
Maryse Condé, Histoire de la femme cannibale.
Introduzione
Con il presente lavoro saranno analizzate le scelte dei generi letterari ed il ruolo dalla lingua di scrittura nei testi di Maryse Condé. All’interno di questa analisi, sarà, inoltre, aggiunta la ricostruzione dell’infanzia dell’autrice, effettuata attraverso lo sguardo adulto che lei getta sul suo passato e sul trascorso della famiglia materna. Saranno, inoltre attentamente esaminati il ruolo della donna nei suoi romanzi ed il valore della cultura Guadalupe, le credenze, le tradizioni e la tagliente opinione comune, e saranno aggiunte informazioni riguardanti la terra natale della scrittrice guadalupe.
I romanzi presi in esame sono Histoire de la femme cannibale [1] , La vie sans fards [2] , Le cɶur à rire et à pleurer [3] e Victoire, les saveurs et les mots [4] .
Nel primo capitolo si cercherà di capire perché nei romanzi presi in analisi la scrittrice adotta il genere letterario dell’autofiction ed in altri opta per l’autobiografia. Perché in alcuni contesti Maryse Condé ha bisogno di servirsi di personaggi ed avvenimenti mai esistiti ed in altri si schiera in prima persona per dimostrare l’attendibilità del suo vissuto?
Nel secondo capitolo saranno studiate le tematiche che tracciano un filo conduttore nei suoi testi: lo sguardo adulto sulla sua infanzia, il ruolo della donna nei suoi romanzi – comparando lo stereotipo della donna in Guadalupe con un’ipotesi di evoluzione femminile e tentativo di emancipazione – ed i collegamenti che si trovano tra la cultura della Guadalupe, le sue tradizioni, le sue credenze ed il suo vociferare comune.
Infine, si farà luce sulla scelta linguistica e chiarezza su alcune terminologie inopportunamente e troppo spesso utilizzate – francophonie, Francophonie e francophone – e con l’ausilio del Manifesto Pour une littérature-monde en français [5] si converrà all’idea di una letteratura-mondo, anche attraverso un’analisi delle riflessioni che la scrittrice inserisce nei suoi testi.
PRIMO CAPITOLO
«Ainsi, des gens passent leur temps à se repaître de fiction,
c’est-à-dire à se passionner pour des vies jamais vécues, des vies en papier.»
Maryse Condé, Histoire de la femme cannibale.
Autofiction e Autobiografia nei romanzi di Maryse Condé.
Maryse Condé, scrittrice della Guadalupe, una terra conquistata, colonizzata e schiavizzata, scrive per capirsi, per curarsi, per interrogarsi su sé stessa e sul mondo circostante. Deve far fronte al suo essere donna, nera e portatrice di handicap, tutte caratteristiche considerate denigratorie dalla società. Utilizza la scrittura come mezzo liberatorio, per alleggerirsi dal tedioso ed opprimente peso della sua infanzia strumentalizzata , manomessa dai suoi genitori e dal contesto culturale in cui cresce. Vuole comprendere sé stessa, gettando uno sguardo maturo sulla sua infanzia, tentando di rimettere insieme i pezzi. Ogni opera è un frammento di puzzle che aiuta il lettore a decodificare i temi essenziali che percorrono il testo, tra i quali la riflessione sul suo passato, il problema dell’alienazione culturale e linguistica. Temi che saranno analizzati nelle considerazioni successive.
In questo capitolo si cercherà di rintracciare le motivazioni che hanno guidato la scelta del genere autobiografico e dell’autofiction.
Autofiction
Il termine ‘autofiction’ è utilizzato per definire i romanzi che si trovano al limite tra autobiografia e finzione, fra cronaca lineare di avvenimenti vissuti e distorsione romanzesca. La parola ‘autofiction’ ha origini francesi ed è stata coniata per la prima volta nel 1977 da Serge Doubrovsky;
Autobiographie? Non, c’est un privilège réservé aux importants de ce monde, au soir de leur vie, et dans un beau style. Fiction, d’événements et de faits strictement réels; si l’on veut autofiction, d’avoir confié le langage d’une aventure ò l’aventure du langage, hors sagesse et hors syntaxe du roman traditionnel ou nouveau. Rencontre, fils des mots, allitérations assonances, dissonances écriture d’avant ou d’après literature, concrete, comme on dit musique. [1]
La mescolanza di fittizio e autobiografico fa si che il romanzo non appartenga a nessuna di queste due categorie, ma che sia un’operazione testuale e linguistica in cui la sperimentazione del linguaggio travalica i limiti dei generi, e anche l’esperienza del nouveau roman. Doubrovsky sottolinea che le decisioni di genere sono sempre scelte di poetica ed è quindi impossibile discernere la forma generale che assume un testo dal suo specifico intento poetico. Lo scrittore definiva Fils un romanzo e non un’autobiografia, perché voleva che la sua opera fosse letta sia come romanzo, sia come autobiografia. In pratica come nessuna delle due, mischiando i due generi, finiva per annullarli e per proporne un terzo: l’autofiction. Doubrovsky per finzione intente solo quella compiuta con i giochi di parole (lo stesso titolo Fils si riferisce a figli e fili). Nella sua scrittura l’autofiction nasce direttamente dalle parole: è il suono delle parole a ricreare nel racconto la vita dell’autore.
In contrapposizione con Doubrovsky si pone Vincent Colonna:
Une autofiction est une ɶuvre littéraire par laquelle un écrivain s’invente une personnalité et une existance, tout en conservant son identité réelle (son veritable nom). […] Que peuvent avoir en commun La Divine Comédie et la triologie allemande de Céline, Moravagine et la Recherche, Siegfried et le Limousin et Cosmos, le Quichotte et Aziyadé? Ils présentent pourtant la propriété commune d’être fictifs et d’enrôler leus auteur dans le monde imaginaire qui leur est propre. [2]
Secondo Colonna l’autofiction è la finzione della propria esperienza vissuta, ovvero l’invenzione di un’identità e di un’esistenza che conservi il proprio nome. In letteratura si riscontrano moltissimi esempi di similitudini tra la vita dell’autore e il protagonista, tra cui la Divina Commedia, il Don Chisciotte, la Recherche e persino il Voyage. Infatti, Colonna sostiene che affinché si possa parlare di autoficion, l’omonimia autore-narratore deve rispondere ad un’esigenza precisa: sia la produzione, sia la ricezione di quel testo devono essere fittizie.
Mentre, secondo Genette:
J’en dirais volentiers autant de cet autre genre […] – au moins depuis que j’ai emprunté ce terme au prière d’insérer de Serge Doubrovsky pour Fils, pour l’appliquer à la Recherche du temps perdu – l’autofiction. […] Je la définissais, je le rappelle, comme productrice de textes qui à la fois se donnent, formellement ou non, pour autobiographies, mais présentent, avec la biographie de leur auteur, des discordances (plus ou moins) notables. [3]
Genette pone come riferimento di questo genere la Recherche, poiché nell’opera si possono senza dubbio rintracciare fatti autobiografici della vita di Proust. Ma lui vede nell’autofiction solo una riproposizione di un meccanismo tipico della tradizione letteraria e non un genere vero e proprio. Per poter parlare di autofiction, Genette sostiene che deve esserci un alto grado di finzione. Inoltre, servendosi della triplice identità (autore-narratore-personaggio) egli arriva a distinguere due categorie di autofiction: quelle vere e quelle false. Le prime sono quelle di cui il contenuto è autenticamente finzionale, le seconde quelle il cui contenuto è finzionale solo per una presa di posizione. Queste ultime le definisce autobiografie vergognose.
Inoltre, Genette mette in discussione diverse formule costruite a partire dal triangolo Autore - Personaggio - Narratore, e si sofferma sulla distinzione tra storie basate su avvenimenti accaduti (A = N) e storie fittizie (A ≠ N). Amplia la sua definizione sul genere dell’autofiction ed aggiunge «moi, auteur, je vais vous raconter une histoire dont je suis le héros mais qui ne m’est jamais arrivée [4] .» Questa duplicità di referenza permette agli scrittori di donare uno stato di finzione a referenti reali. Il discorso di finzione, nota Genette, «est en fait un patchwork, ou un amalgame plus ou moins homogénéisé, d’éléments hétéroclites empruntés pour la plupart à la réalité. [5] »
Ma come si può parlare di finzione in avvenimenti autobiografici che figurano in un romanzo dove non è tutto reale né esclusivamente finzione? Come si può parlare di sé attraverso un personaggio che, nonostante segua un itinerario simile a quello dello scrittore, vive delle avventure completamente nuove?
Si potrebbe, quindi, proporre un cambiamento di segni all’interno della formula dell’autofiction (A≠N; A=P; N=P) e sostituire il simbolo di uguaglianza tra autore e personaggio con quello di approssimazione (A≈P), che si accorderebbe meglio con l’affermazione di Genette «C’est moi et ce n’est pas moi. [6] »
Per il rapporto Autore - Narratore, diverse varianti sono possibili: A = N e N ≈ P quando l’autore corrisponde al narratore ed il narratore sembra essere il protagonista, A ≈ N e N ≈ P quando il narratore, l’autore ed il protagonista condividono alcuni tratti, e l’ultimo caso A ≠ P; N ≠ P quando l’autore ed il narratore non hanno legami con il protagonista.
La nuova formula dell’autofiction si leggerebbe quindi «moi, auteur, je vais vous raconter une histoire dont l’héroïne me ressemble et qui ne reflète que partiellement mes expériences de vie [7] ».
Un racconto di autofiction stabilisce, quindi, una relazione approssimativa tra autore e personaggio, che permette al primo di rendere fittizie le sue esperienze, ma con la possibilità di trasmettere messaggi seri ai suoi lettori. In altri casi la relazione approssimativa potrebbe stabilirsi esclusivamente tra l’autore ed il narratore, ma la doppia relazione A ≈ N, A ≈ P non è esclusa da questo triangolo. In ogni caso, l’autofiction ha come tratto distintivo il mélange di enunciati di finzione e di enunciati reali, e giustifica il métissage dell’autobiografia e della finzione [8] . Molti altri si sono espressi sull’autofiction, nell’Appendice sono riportate diverse definizioni. Nei libri di Condé si ritrova il «phénomène par lequel au moins deux textes, du même auteur ou non, se rapportent continuellement à une même fiction, que ce soir par la reprise de personnages, prolongement d’une intrigue prélable ou partage d’un univers fictionnel [9] » e tutte le storie si riflettono le une nelle altre. La sua scrittura alterna fiction e passaggi reali, per situare il lettore nel tempo. Il genere dell’autofiction si ritrova in Victoire, les saveurs et les mots [10] , Le cɶur à rire et à pleurer [11] , Histoire de la femme cannibale [12] , dove l’invenzione si miscela alla vita della scrittrice. In seguito, si analizzeranno i testi, ponendo attenzione sul genere trattato.
Histoire de la femme cannibale
trama
La protagonista, Rosélie, si è sempre sentita non appartenere al monotono fluttuare della gente comune, lei «détestait ces clichés créoles et tenait à tout désigner à sa manière» [13] . Le pagine sono intrise di grigiore, di inabilità a vivere, di apatia «inquiétantes formes animales, la noirceur, des ses insomnies, de ses peines [14] ». La narrazione alterna lunghe pause silenziose a rumori frastornanti di motori e di sirene. Il sonno è disturbato, molti personaggi – tra cui la protagonista – non dormono affatto, afflitti dal peso della non-vita. Le contrapposizioni sono frequenti: il buio e la luce, il giorno e la notte, il bianco ed il nero, la nascita e la vita contro la morte, la calma ed il frastuono. «Je n’ai pas dormi. Je dors plus [...]. Car la nuit du Cap débordait de toutes qualités de puanteurs et de pourritures [15] ». Il dolore si percepisce sotto ogni sua forma «Je mords mes lèvres : elles saignent.