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Saette ne l'abisso
Saette ne l'abisso
Saette ne l'abisso
Ebook176 pages2 hours

Saette ne l'abisso

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About this ebook

"Saette ne l'abisso" esemplifica al meglio la prosa e la sensibilità di Mario Mariani, che ai tempi della sua pubblicazione ha da poco fondato il periodico Novella (la ventura Novella 2000, ancora oggi in circolazione come settimanale) e si appresta ad abbandonare l'Italia per una vita di peregrinazioni. I dodici racconti che compongono questa raccolta sono suddivisi per argomento, dipanandosi in quattro sezioni distinte: "Tre misteri", "Tre affari", "Tre perdoni" e "Tre sorrisi". Sempre sul solco della sorniona ironia che lo caratterizza, Mariani assembla così delle piccole perle, capaci di mescolare uno spirito ridanciano e godereccio con gli interessi letterari, scientifici e filosofici dell'autore. Un affresco impetuoso e lucidissimo di un'Italia che, uscita dalla Prima Guerra Mondiale, stava precipitando nel baratro del fascismo... -
LanguageItaliano
PublisherSAGA Egmont
Release dateAug 19, 2022
ISBN9788728419526
Saette ne l'abisso

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    Saette ne l'abisso - Mario Mariani

    Saette ne l'abisso

    Copyright © 1924, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728419526

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    TRE MISTERI

    LA CINEMATOGRAFIA Dì GEOVA

    Da tre anni non lo vedevo eppure serbavo di lui un ricordo grato e vivissimo. Talvolta mi tornavan nella memoria, con le sue stesse parole, interi suoi ragionamenti. Era stato per me non il professore, ma il Maestro. Maestro nel senso vecchio e buono del rinascimento e dell’età classica; quale dovette essere Socrate per Platone e Senofonte, per Antistene e Alcibiade, quale dovette essere Leonardo per Cesare da Sesto e Bernardino Luini, per Marco d’Oggiono e per il Boltraffio.

    Il professor Alberto Manfredini m’aveva, del resto, fra gli altri studenti del politecnico, frequentatori assidui delle sue lezioni di meccanica, specialmente prediletto. E ciò perchè, secondo lui, io non avevo gran disposizione per la meccanica e per la matematica, ma ero stato, da natura, fornito di doti eccezionali per la filosofia e la poesia.

    Ciò sembrerà strano in un professore di scienze esatte, ma Alberto Manfredini era un sapiente così bizzarro che a chi l’ha conosciuto questa sua predilezione sembrerà la più piccola delle sue stranezze.

    Il suo amore per la filosofia e la poesia derivava da un concetto unitario della scienza o meglio di tutte le scienze, intorno al quale egli dissertava di preferenza nelle lunghe passeggiate in cui si faceva accompagnare da pochi discepoli prescelti.

    Relativista prima che del relativismo si riparlasse per i libri di Einstein, egli acconsentiva in parte alle conclusioni di La bancarotta della scienza del Brunetière e di Scienza e ipotesi d’Enrico Poincaré. Ci aveva dimostrato a scuola che la geometria euclidea era una convenzione comoda, ma che Minkowsky e Lorenz avevan già demolito il concetto delle dimensioni.

    E concedeva volentieri agli intuizionisti e ai filosofi il diritto d’occuparsi anche di scienze esatte, purchè le conoscessero un po’ al di sotto della superficie. Io l’avevo definito un positivista comtiano ed egli non se l’era avuta a male, ma insisteva, spesso, a chiarire questo concetto:

    — Io sono spiritualista e positivista al tempo stesso e non penso vi sia, fra le due scuole, vera contraddizione. Del resto la contraddizione la crean spesso la boria e l’asprezza de’ contendenti o il malinteso.

    La coordinazione e qualche volta anche la previsione dei risultati del laboratorio o del gabinetto spetta senza dubbio al filosofo, ma il filosofo che volesse astrarre da tali risultati, o per ignoranza o per disprezzo, ci darebbe una ben magra filosofia. Da Giordano Bruno ad Ernesto Haeckel l’idea di coordinare i risultati scientifici per giungere ad una concezione unitaria o monistica del mondo ha sempre dominato tutti i grandi cervelli. Anzi tale idea ha dominato le origini della filosofia. M’è sempre rimasta inchiodata nel cranio la prima proposizione della «Storia del materialismo» di Alberto Lange: Der Materialismus ist so alt als die Philosophie, aber nicht aelter — il materialismo è antico quanto la filosofia, ma non più —. Non appena fuori dalle nebbie della barbarie cosmogonica, la fantasia dei primi pensatori intuisce l’unità e l’ordine dell’universo e questa intuizione pervade e persuade la scuola d’Elea e la scuola jonica e ha rappresentanti di genio ne l’Ellade e in Magna Grecia, da Talete a Democrito, da Pitagora a Empedocle. Ciò non ostante il principio, l’unità e l’ordine dell’universo nella loro essenza e compiuta conoscenza non ci sono noti nemmeno oggi.

    Ci allontaniamo o ci accostiamo alla loro conoscenza definitiva, alla loro scoperta?

    Talvolta temo di poter asserire che, forse, ce ne allontaniamo. Il paragone di Spencer, delle due sfere concentriche, mi sembra calzi, purtroppo, a pennello. Più si ingigantisce la sfera della conoscenza, più, proporzionalmente, s’ingigantisce la sfera dell’ignoto. L’inconoscibile permane, con tutto il suo fascino e tutto il suo mistero.

    Quando Ernesto Haeckel riduceva a uno soltanto i sette indovinelli del mondo proposti da Du Bois-Reymond e diceva che il tutto si riduce ormai a scoprire l’origine del moto o della vita, poi che moto e vita s’identificano, poteva anche aver ragione. Ma quest’ultimo, supremo indovinello, chi l’ha risolto?

    Noi studiamo. E i filosofi hanno il dovere di lasciarci studiare. E noi non abbiamo il diritto d’impedire ai filosofi di fantasticare — metafisica e trascendenza vuol dire fantasia.

    I nostri mezzi sono limitati. Noi non abbiamo, in fondo, altro che i nostri cinque sensi per scrutare e misurare l’universo. E gli instrumenti precisi che abbiamo inventato sono da ultimo sottoposti anch’essi al controllo dei sensi. Al microscopio applichiamo l’occhio e l’occhio riconosce il colore d’un precipitato. Alcune analisi chimiche son verificate dall’olfatto, altre dall’odorato. Crediamo al termometro perchè la nostra pelle sente freddo o caldo, crediamo al metro perchè misura la fatica della gamba o la lunghezza d’un angolo visuale.

    E se i nostri sensi non fossero sufficenti a rivelarci l’universo quale esso è veramente?

    Un uomo che non potesse, con il cervello, coordinare le esperienze dei suoi cinque sensi o che addirittura non possedesse questi cinque sensi, come giudicherebbe il mondo? E un essere più perfetto che possedesse dieci, quindici sensi e potesse coordinare le loro esperienze, come lo giudicherebbe? In conclusione la cosa in sè — das Ding an sich — di Emmanuele Kant — che cosa è veramente in sè, cioè sottratta al giudizio di sensi sufficenti o insuffìcenti?

    L’uomo è un essere finito, limitato nel tempo e nello spazio. Come può dunque esso risolvere infiniti problemi e il problema dell’infinito? Berkeley aveva già osservato che non si può concepire un oggetto senza concepire, al tempo stesso, il soggetto che lo percepisce; una cosa è una cosa solo in quanto è rappresentata nella mente che la osserva. Posizione di pensiero che è assunta anche dall’idealismo e dal criticismo kantiano e che par superata soltanto da una integrazione — che forse si riduce a un gioco di parole — di Federico Guglielmo Hegel.

    Per lo Hegel non vi è differenza alcuna fra materia e spirito, reale e irreale, oggetto e soggetto. Tanto l’oggetto pensato quanto il soggetto che lo pensa sono perfettamente reali, la materia pensata si riveste dello spirito che la pensa e lo spirito che la pensa riassume in sè la materia pensata; sintesi di opposti che risolve gli opposti in un movimento, che è divenire.

    Può trattarsi soltanto d’un gioco di parole — forse tutta la filosofìa, da Talete a Bergson, è un mero gioco di parole — ma, a ogni modo, era la miglior soluzione del quesito.

    Oggi la scuola napoletana, per smania di spiegare e chiarire, ripone il problema allo stato ante Hegel.

    Fare e disfare è tutto un lavorare.

    Eppure io amo i poeti che dipanano con il refe della fantasia sull’arcolaio dell’universo le matasse versicolori delle loro ipotesi.

    Anche perchè so che anche le nostre vantate scienze esatte sono soltanto ipotesi.

    Sono però ipotesi che guariscono la difterite e il tifo, che creano il pane e il caldo, la salute e l’energia, che infrenano il fulmine e dànno le ali all’uomo…

    Nessuno di noi sa ancora con esattezza che cosa sia veramente l’elettricità, ma, con il campo rotante di Galileo Ferraris, noi siamo in grado di trasportare milioni di cavalli di forza a duecento chilometri di distanza dalla cascata creatrice per dar luce, calore, lavoro a centomila uomini, a un milione di uomini.

    Eppure, vedete, è bello pensare, per esempio, che il cancro e la tubercolosi, la sifilide e il tifo non siano che diversi aspetti di un unico germe tossico.

    È bello pensare che i settantadue corpi semplici non siano che diverse combinazioni d’elettroni e monomesoni.

    È bello pensare che luce, calore, elettricità e, fors’anche, pensiero non siano che diversi modi di propagazione della stessa forza.

    E che tutte queste unicità si raggruppino, da ultimo, in una suprema unità e che l’uomo un giorno possa scoprirla e comprenderla.

    E fissare, forse, il volto di Dio: la mente infinita che può concepire l’infinito.

    Egli ci parlava spesso così. E noi studenti gli volevamo più bene per queste sue divagazioni che ci trasportavano facilmente nel mondo dei più ardui problemi che non per la chiarezza con la quale ci esponeva e riusciva a farci comprendere la sua terribile materia. Aveva molta fiducia nelle nostre intelligenze e voleva esserci soltanto di guida. La scuola, diceva, deve insegnare soltanto il metodo di studio e i libri ai quali dovete rivolgervi. Fate uno sforzo per conto vostro per imparare una cosa; non ve la scorderete più; imparatela da me a lezione e tre giorni dopo l’avrete dimenticata.

    E si staccava talvolta, improvvisamente, dalla lavagna, si disvincolava dai suoi grovigli di radici imaginarie, dicendo:

    — Per quest’altra settimana saprete tutti il teorema di Sturm; per oggi parliamo di San Tomaso d’Aquino.

    Aveva un corpo e una testa michelangiolesca; scheletro e muscoli da gigante, lunga barba grigia, fronte ampia, naso aquilino, occhi neri vivissimi sotto due enormi sopraccigli neri, ispidi, simili ai terribili sopraccigli di Federico Nietzsche.

    Eppure questo colosso d’ossa e di pensiero, che giocava con i problemi del calcolo infinitesimale e con i problemi della metafisica come un giocoliere giapponese gioca con le torcie accese — senza scottarsi — aveva un’anima da bambina.

    Io l’ho visto, ai giardini pubblici, bagnarsi tutto il suo dignitoso vestito scuro per riacchiappare una barchetta di carta che s’era troppo allontanata verso il centro d’una vasca e rasciugare così le lacrime d’un frugolo disperato.

    Non lo avevo incontrato più da tre anni e m’era stato, del resto, anche impossibile incontrarlo. Subito dopo ottenuta la laurea, sono partito. Ho studiato sei mesi a Liegi e un anno a Pittsburg. Ho fatto il mio tirocinio inghiottendo polvere di carbone e bruciandomi i polmoni negli alti forni della città officina nella quale, entro lo scarlatto perenne di una fiammata spaventosa che arroventa il cielo giorno e notte, due milioni di giganti neri si divincolano come in un inferno per fornire all’America più della metà del ferro lavorato che le serve. Dopo sono andato a costruir ponti nelle Montagne Rocciose e adesso fabbrico de’ grattacielo in California. Ero un po’ stanco, avevo bisogno di riposo e ho pensato che con duemila dollari — li guadagno, laggiù, in una settimana — potevo far il signore in Italia per tre mesi. L’ho data vinta alla nostalgia, mi sono concesso un po’ di vacanza, ho comperato un biglietto per il primo piroscafo in partenza da New-York, mi son fatto accreditare telegraficamente presso una banca di Genova per una trentina di mila lire e sono tornato a casa.

    Ho incontrato a Torino, a Milano, a Genova i miei compagni d’università che, dopo tre anni di laurea, stanno ancora lottando per carpire un impiego da ottocento lire il mese — trentacinque dollari; a Frisco non bastano per campare un giorno — e molti non riescono a carpirlo perchè non hanno ancora raggiunto la ottocentesima raccomandazione — ci vuole una raccomandazione per ogni lira —; a Boston gli impieghi da cinquemila dollari il mese — circa centomila lire — si trovano con un annuncio di due righe in un giornale.

    Uno di questi miei vecchi compagni mi ha chiesto cento lire in prestito. Gliele ho date e, nemmeno a farlo apposta, a mo’ di compenso, mi ha subito dato un dolore:

    — Sai… Manfredini… il nostro Manfredini, è impazzito.

    — Impazzito?! Sei pazzo??

    — No, io no; lui.

    — Ma in che modo?…

    — Non so… Ricchieri ha potuto parlargli… Non è internato perchè è innocuo… vive in casa, ma ha dovuto sospender le lezioni e non si sa se potrà riaversi… pare che si tratti di una manìa, di una fissazione… Del resto, vai a trovarlo… Ricchieri, ti dico, c’è stato… Sua moglie, ha piacere che qualcuno vada a vederlo nei periodi di lucidità… Si distrae… Io non ho potuto per le mie preoccupazioni, ma andrò anch’io… appena posso.

    Ne sapevo abbastanza. Feci cenno alla prima vettura pubblica che passava, mi congedai dalle mie cento lire e detti al cocchiere l’indirizzo di Manfredini: Via Statuto, trentotto.

    È l’ho rivisto.

    È com’era. Pare strano che dieci molecole del cervello, spostandosi, possano uccidere una intelligenza o renderla sterile e inutile, senza che questa morte della ragione influisca per nulla sul resto del corpo.

    È com’era; non è punto invecchiato.

    Alto, solenne e bonario nella sua solennità; il gigante michelangiolesco che abbiamo ammirato tutti, al politecnico; che ricordiamo tutti.

    Mi ha ricevuto nel suo laboratorio ampio, arioso. Ho capito subito che egli aveva seguitato durante gli ultimi tre anni ad occuparsi di quegli studi sulla luce ch’eran già il suo lavoro e il suo martirio de’ tempi ne’ quali io potevo godere della sua familiarità.

    E mi son ricordato che una volta mi aveva detto, con un tremito nella voce: «Solo dalla luce ci può venire la Luce. Se tu pensi che la luce occupa poco più di otto minuti primi a percorrere la spaventosa distanza che

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