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Mike Tyson: The Baddest Man on the Planet
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Ebook284 pages3 hours

Mike Tyson: The Baddest Man on the Planet

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Cresciuto nel quartiere più malfamato di Brooklyn e strappato al riformatorio da un coach di origine italiana, Mike Tyson sembrava aver ottenuto il suo riscatto diventando il più giovane campione del mondo dei pesi massimi. Invece i suoi guai cominciavano ora: la condanna per stupro, la detenzione, il morso all’orecchio a Holyfield e la seguente sparatoria che chiudevano nel 1997 la sua carriera. Le droghe e il sesso sfrenato, uniti alla morte accidentale della figlioletta, sembravano spingere il pugile verso un finale di autodistruzione. Invece, incredibilmente, insieme alla pace familiare Tyson ha trovato una via di uscita diventando attore di se stesso. Questo libro racconta la sua parabola sportiva, ma anche il tentativo di un riscatto morale che non sarà mai completo. Per aiutarci a capire la complessità di un uomo che, come dice lui stesso, ogni giorno della sua esistenza si è meravigliato di essere ancora vivo.
LanguageItaliano
PublisherDiarkos
Release dateMar 15, 2021
ISBN9788836161096
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    Book preview

    Mike Tyson - Fausto Narducci

    Introduzione

    Tutti i Tyson del mondo

    Oggi Tyson è diventato un modo di essere, uno stato mentale e fisico, un sinonimo di violenza gratuita e fine a se stessa. Un ragazzo che picchia un altro dice di «fare il Tyson», un titolo di giornale che racconta di un’aggressione è accompagnato dal paragone «come Tyson», un pubblico scatto d’ira diventa «alla Tyson» e, soprattutto, ritroviamo il suo nome assegnato come fosse un patronimico a bulli di provincia con accanto il luogo di provenienza: il «Tyson della Brianza» o il «Tyson della Pianura padana». Una volta questi attributi, ma in senso positivo, erano riferiti a Ercole, a Sansone o a Carnera, primo italiano campione mondiale dei massimi negli anni Trenta. Ma Mike Tyson è stato anche un pugile, un grande pugile, capace di rinverdire nei pesi massimi le gesta di Muhammad Ali.

    Per carità, nessuno potrebbe mai anche solo pensare che nel cuore degli appassionati di boxe (e non solo) ci potrà mai essere un sostituto di Muhammad Ali. Anzi, per molti suonerebbe quasi come una bestemmia paragonare il Più Grande a colui che al massimo si è meritato il titolo di Più Violento. Nella crisi attuale del pugilato l’unico atleta che gode di vera popolarità, ma più per lo sfoggio del lusso che per gli indubbi meriti sportivi, è ora Floyd Mayweather. Ma, dopo Ali, in termini di popolarità, carisma e riconoscibilità, il miglior nome da spendere per parlare di boxe è ancora quello di Iron Mike, l’ex galeotto ma anche il più giovane campione del mondo della storia dei massimi.

    In una serie di opuscoli biografici pubblicati nell’estate 2003 con la «Gazzetta dello Sport» avevamo affiancato fin dal titolo Muhammad Ali e Mike Tyson, il Buono e il Cattivo, l’angelo del ring che incontra il demonio, le due facce della fede islamica. Ma ad accomunarli, oltre all’estrazione sociale e alla categoria, c’era pur sempre quell’avversario in comune, Trevor Berbick, con cui Ali aveva chiuso la sua carriera nel 1981 e Mike aveva cominciato l’avventura iridata cinque anni dopo. Il salto generazionale oggi appare ancora più stridente visto che l’Angelo, stanco e malato, ci ha lasciati il 3 giugno 2016 e il Diavolo, dopo i cinquant’anni, ha raggiunto un invidiabile stato di forma fisica e mentale tornando sul ring in un’esibizione con Roy Jones il 28 novembre scorso a Los Angeles. «Non credevo di riuscire ad arrivare vivo fino a qui» è la frase che gli sentiamo ripetere in ogni intervista.

    Oggi l’ex stupratore e specialista in risse ha ricostruito e ripulito la sua immagine. Oseremmo dire che è diventato più buono, se non ci accompagnasse il feroce sospetto che si tratti solo di una smacchiatura di facciata e che nella vita privata Mike possa essere rimasto lo stesso di prima. In effetti chi ha letto le sue due biografie esagerate (True del 2013 e L’arte della guerra del 2017 e lo ha visto riproporre la sua vita perfino a teatro in maniera meno indulgente, fa fatica a riconoscere il vecchio Tyson nella frase con cui ha salutato il suo idolo Ali nel giorno della scomparsa: «Dio è venuto a prendersi il suo campione, lunga vita al più grande». E fatica a riconoscerlo anche nelle sue apparizioni pubbliche, di fronte alle rare domande imbarazzanti degli intervistatori più coraggiosi. A vederlo in giro (i viaggi sono diventati in effetti il principale hobby di famiglia) con l’ultima moglie Lakiha Spicer e con la rappresentanza della sua numerosa prole, si farebbe addirittura fatica a riconoscere nel Tyson di oggi il disperato masticatore di orecchie che scatenò su Evander Holyfield tutte le sue represse frustrazioni.

    A rimettere in sesto le finanze, come leggeremo, sono stati soprattutto i ripetuti impegni cinematografici (quasi sempre a livello di cameo) e la svendita in varie forme della sua immagine. Ora l’ex bancarottiere a quanto pare non se la passa malissimo. Non per niente ha ceduto la sua lussuosa magione di Las Vegas (dove erano alloggiate le sue tigri) a 1,5 milioni di dollari per comprarne una poco più lontano a un milione in più (2,5 milioni di dollari, pari a 2,2 milioni di euro).

    Dopotutto fa anche sorridere che l’uomo con cui nessun genitore americano avrebbe voluto veder sposata la propria figlia oggi sia uno dei volti più cliccati su internet, e potrebbe diventare presto anche un ottimo veicolo pubblicitario, non solo per prodotti destinati a uomini rudi. Nel 2015, in occasione dell’incursione in chiave rap nel video del brano Iconic di Madonna, intervistato dall’edizione americana di «Rolling Stone», Tyson aveva dichiarato di essersi ispirato addirittura al dittatore Benito Mussolini. «Un tipo molto arrogante da cui si può comunque tirar fuori qualcosa di buono: mi è capitato di vederlo in tv e l’ho trovato carismatico e ipnotico mentre muoveva le mani e la testa come se stesse facendo hip hop, molto prima che l’hip hop nascesse».

    La fede in Allah non gli ha impedito, a livello politico di schierarsi apertamente a favore dell’ex presidente repubblicano Donald Trump, che proprio non può considerarsi un uomo di larghe vedute in campo religioso e sociale. In effetti all’apice della fama il campione del mondo più cattivo degli anni Ottanta e Novanta aveva combattuto alcuni dei suoi match più importanti e remunerativi proprio negli hotel-casinò del tycoon ora prestato alla politica. Come per esempio il fulmineo showdown del 1988 con Michael Spinks che, alla Convention Hall di Atlantic City, fece registrare i più alti incassi della boxe fino a quel momento. Quando nel 1992 Tyson fu coinvolto nello scandalo Desirée Washington e condannato a sei anni di carcere, proprio Trump fu tra i pochi personaggi pubblici a prendere le sue difese: «Se una donna si infila di notte nella camera di un uomo sa quello che l’aspetta». Con questa disgustosa dichiarazione, offensiva per tutte le donne, il magnate, senza essere preso nemmeno in considerazione, arrivò a chiedere che al peso massimo fosse concesso di continuare comunque la carriera pugilistica nei suoi casinò durante la condanna. La motivazione con cui Tyson si schiera dalla parte dell’ex presidente americano è un manifesto di vita: «Perché nei confronti di un bastardo come me, nato nel buco più puzzolente del pianeta, ha sempre mostrato grande rispetto e mi ha sempre stretto la mano, cosa che né Obama né i progressisti come lui hanno mai fatto. Quello che importa è che l’America venga governata come un business, dove non contano i colori».

    Speriamo che, sfogliando le pagine che seguono, il lettore possa farsi un’opinione più completa su Mike Tyson: un uomo capace di violenze inaudite, un personaggio incapace di dominare la rabbia, un rissoso condannato per stupro, ma anche il prodotto dell’unica educazione possibile nei peggiori bassifondi di New York (e quindi del mondo) e la vittima di un modello sociale a cui non ha saputo sottrarsi. Soprattutto cercheremo di spiegarvi che, contro tutti e tutto, Tyson è stato anche un pugile formidabile, il più giovane campione del mondo dei massimi a vent’anni e 145 giorni e l’autore di 19 k.o. consecutivi nei primi match da professionista. Nella boxe, né prima né dopo di lui, è esistito un atleta con la sua rapidità di mettere al tappeto l’avversario al primo pugno, spesso al primo round.

    Come inviato e responsabile della rubrica pugilistica della «Gazzetta» ho seguito tutta la carriera di Tyson a partire dalla riconquista del Mondiale dei massimi contro Frank Bruno nella primavera 1996, dopo il carcere. Ho avuto la fortuna di intervistarlo quattro volte a tu per tu, due volte da solo a Montecarlo, e penso di essermi fatto un’idea precisa di chi è stato e di chi è Mike Tyson. Un uomo inaspettatamente intelligente, a suo modo sensibile; ovviamente non istruito ma di smisurata cultura pugilistica, una persona anche ironica e disponibile fuori dai suoi scatti d’ira; uno di quegli americani che sa mettere a proprio agio gli interlocutori evitando gli slang e parlando un inglese comprensibile (a differenza di tanti altri sportivi). Di negativo, fuori dal ring, ci sono la sua visione maschilista verso le donne e l’inclinazione ai vizi, dall’alcool alle droghe.

    Tyson, una volta uscito dal ghetto, ha pensato di potersi permettere qualunque cosa, non diversamente da quanto fanno altri fenomeni negativi del rap o dello sport professionistico. Nelle sue due biografie potrete trovare ogni dettaglio della sua vita, però filtrata da un punto di vista personale in maniera molto faziosa. Libri che non hanno avuto il successo di Open di Andrea Agassi ma che hanno seguito lo stesso filone letterario. Anche loro campioni di incassi. All’interno Tyson ha declamato, con molta indulgenza verso se stesso, anche le sue capacità amatorie, una dipendenza dal sesso che ha motivazioni ataviche essendo sua madre una specie di prostituta: al di là delle tre mogli e dei sette figli, le sue donne sono state migliaia: più di una al giorno e a volte più di una nello stesso momento. Lasciamo a lui questo tipo di descrizioni: io cercherò di darvi un ritratto obiettivo, pugilistico e umano, di uno dei più grandi boxeur di tutti i tempi.

    Su Tyson girano in rete tante esagerazioni, anche paragoni improbabili con Muhammad Ali che gli avrebbe chiesto di vendicare le sue sconfitte. Tyson non è stato amico di nessuno, ha pensato sempre a se stesso e si è sentito spesso abbandonato a tutti. Ci sono tanti aneddoti che possono anche dare il senso della sua arroganza: molte interviste sono state interrotte dalle sue volgarità nei confronti dell’interlocutore che gli aveva fatto una domanda sbagliata. Ho assistito personalmente a due episodi in conferenza stampa: quando si è rifiutato di rispondere alla domanda di una giornalista spiegando che le donne sono buone solo per andare a letto e quando si è rifiutato di rispondere a un giornalista dell’Upi (agenzia giornalistica) perché l’Up (l’azienda di delivery) aveva sbagliato a consegnargli un pacco. E non stava scherzando.

    Nel periodo d’oro intervistare Tyson era un’impresa: a parte le parolacce, bastava sbagliare tono della domanda per prendersi rispostacce. In conferenza stampa Tyson rispondeva a una domanda su tre. A me è andata bene quando a Montecarlo, intercettato nella hall del suo albergo prima della partecipazione al Festival di Sanremo del 2005, gli ho consegnato il libriccino della «Gazzetta» che avevo scritto su di lui e Muhammad Ali. Quando l’ha aperto per sfogliarlo (senza capire ovviamente l’italiano) la sfortuna ha voluto che il suo occhio cadesse sul nome Naomi Campbell con cui aveva consumato un rapporto sessuale in taxi. «Se è un libro di boxe perché hai scritto di Naomi Campbell?», mi ha chiesto a brutto muso. Poi mi ha inviato a sedermi su una poltrona della hall e in quel momento ho pensato che fosse pronto a darmi un pugno, come avevo sentito dire fosse accaduto a qualche giornalista maldestro. Invece, dopo avermi soppesato per qualche minuto, è scoppiato in una grande risata: non gli è mai importato nulla di salvare le apparenze, non gli interessava l’immagine che noi giornalisti volevamo dare di lui. L’intervista successiva si è sviluppata senza incidenti, come quella di circa dieci anni dopo, sempre a Montecarlo, in occasione di Sportel, la convention internazionale sullo sport audiovisivo.

    In Italia Tyson è venuto tre volte: leggerete della maratona nell’aprile 1991, della partecipazione a Sanremo del febbraio 2005 e del passaggio da Milano nel 2010 per la promozione di un film. Ci sarebbe anche una vacanza in barca a Porto Cervo nell’agosto sempre del 2005 dove rimediò una (falsa) accusa di stupro, ma possiamo considerarla una toccata e fuga. Senza contare la primavera del 2000 in cui era tutto pronto per la presentazione del suo match con Savarese nel capoluogo lombardo, ma la conferenza stampa saltò all’ultimo momento e il match si fece poi a Glasgow. Ma sono tanti i motivi che legano Tyson al nostro Paese: il locale di Basilio Falcinelli a Brooklyn dove da ragazzo la pizza gli veniva servita attraverso un vetro antiproiettili, i marchi di moda (da Versace ad Armani a Dolce & Gabbana) che sono i suoi preferiti in assoluto, i pugili italiani che aveva conosciuto all’Olimpiade di Los Angeles quando la nostra boxe era in cima al mondo, la stretta di mano con Francesco Damiani nel 1988. Non c’è da vantarsene ma la nostra cultura, non solo gastronomica, si è incuneata nella vita di Tyson come in quella di quasi tutti gli americani. Ma ci sono soprattutto le origini del suo padre putativo e scopritore Cus D’Amato a cui è dedicata la seconda parte della sua biografia, L’Arte della Guerra, dove Tyson si immerge nella cultura italoamericana, sia pure vissuta di riflesso.

    Il vero Tyson è quello che si racconta con una punta di autoironia molto american nello spettacolo teatrale Undisputed Truth, che purtroppo non è arrivato in Italia ma ora è visibile attraverso la trasposizione cinematografica di Spike Lee su Sky. Nell’immaginario di quelli che non seguono attentamente la boxe Tyson rappresenta soprattutto la forza bruta e la violenza verbale. Cercherò di dimostrarvi che dietro a King Kong e Iron Mike c’è soprattutto un grande pugile, vittima principalmente di se stesso.

    Prima del gong

    Prima di cominciare il nostro viaggio, round per round, nella vita del pugile più cattivo del pianeta dobbiamo raccontarvi l’ultimo Tyson, l’uomo che visse due volte (ma anche tre o quattro). Capace di sorprendere il mondo e anche noi.

    Il 28 novembre 2020, dopo i rinvii dovuti all’emergenza Covid, il più giovane campione del mondo dei pesi massimi è tornato sul ring a quindici anni dall’ultima volta. Solo un’esibizione a porte chiuse, allo Staples Center di Los Angeles, ma così attesa e così intensa da potersi paragonare, sul piano delle emozioni, a un match vero. Merito anche dell’avversario, Roy Jones Jr., il più grande derubato della storia della boxe (all’Olimpiade di Seul 1988, dove era stato argento dei superwelter) capace di scalare da professionista tutte le categorie iridate dai pesi medi ai massimi.

    Tyson, cinquantaquattro anni e 100 chili, contro Jones, quasi cinquantadue anni e oltre 95 chili: uno show che ha forse aperto una nuova era del ring dove, in tempi di crisi, saranno le vecchie glorie a fare spettacolo e a prendersi fette dei budget pugilistici, sia pure per beneficenza. Proprio gli scopi umanitari hanno animato il ritorno di King Kong che nel più acclamato ritorno della boxe di oggi ha messo in mostra sprazzi del vecchio repertorio e una forma fisica invidiabile, dopo essere arrivato a pesare 170 chili e averne persi 45 nell’ultimo anno con una ferrea dieta vegana (poi abbandonata).

    L’esibizione è durata otto round (anziché dodici dei match titolati) con riprese da due minuti (anziché tre) e guantoni ammorbiditi di 12 once (anziché 10), ma Tyson ha piazzato ganci e montanti veri contro un avversario-amico che ha legato troppo e si è dimostrato presto a corto di fiato. Non c’era da scegliere un vincitore ufficiale, ma i tre ex campioni che hanno giudicato da casa in via virtuale (Christy Martin, Vinny Pazienza e Chad Dawson) hanno emesso un simbolico verdetto di parità che non corrisponde al dominio assoluto del pugile di Brooklyn. Quasi un gioco, come per gioco i due protagonisti hanno finto di reclamare la vittoria e si sono scambiati complimenti reciproci.

    Quel che conta è che il pugile maledetto, capace di sorprendere se stesso per essere ancora al mondo, vive e lotta con noi anche sul ring. Significativo che il match sia stato acquistato in pay-per-view negli Usa (al prezzo di 50 dollari a famiglia) da un milione e 200 mila persone, superando ampiamente gli 850 mila accessi a pagamento registrati a febbraio dal vero Mondiale dei massimi fra Tyson Fury e Deontay Wilder. In Italia gli abbonati a Sky hanno dovuto aggiungere 9,99 euro per vederlo a casa.

    Le vecchie glorie rendono più delle glorie attuali quando si parla di Tyson. Conta anche che la borsa da 20 milioni di dollari (circa 16,8 milioni di euro) che hanno guadagnato a testa i due pugili non prenderanno la via di casa ma quella di tutte le famiglie disagiate a cui saranno devoluti.

    Ho intrattenuto le persone che mi guardavano in streaming e ho dato spettacolo. In quindici anni sono cambiate tante cose, adesso ho più determinazione nel fare ciò che devo. Non pensavo che sarebbe successo e invece sono qui. Quando mi metto in testa una cosa riesco sempre a farla. Per combattere ho lasciato di nuovo la dieta vegana nutrendomi soprattutto di carne d’alce e di bisonte. Certo che ho ancora paura ma ora combatto per il futuro di altre persone ed eseguo la volontà di Dio.

    A livello più terreno Tyson ha creato il sito web Cameo per videomessaggi personalizzati che solo nelle prime sei ore di lancio ha raccolto 20 mila dollari. Ed è stato fatto il riepilogo dei suoi tatuaggi, oltre a quello tribale del volto che è il più evidente: il rivoluzionario argentino Che Guevara sul fianco sinistro, il rivoluzionario cinese Mao Tse-Tung sul braccio destro con tanto di nome, il tennista morto di Aids Arthur Ashe sul braccio sinistro, l’ex moglie Monica Turner sull’avambraccio sinistro, un drago sul braccio destro. Ma ce ne sono sicuramente altri più nascosti.

    Questa storia, iniziata all’inferno, è finita in paradiso. Allacciate le cinture, ora si parte davvero per la più incredibile avventura della boxe.

    Primo round

    Viaggio nell’inferno del ghetto

    Eravamo nella primavera del 1996 quando andai alle origini dell’inferno, il quartiere dei dannati che aveva generato non proprio la nascita ma era alle radici della violenza del pugile più cattivo del mondo, al secolo Mike Tyson.

    Il 16 marzo avevo assistito alla riconquista della corona Wbc dei massimi a Las Vegas quando, sulla strada del ritorno in

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