Sutra del diamante: Vajracchedikā Prajñāpāramitā Sūtra - Il Sūtra della Sapienza che è andata al di là della dualità agendo come il fulmine
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Sutra del diamante - Zorba e Coriolano
Introduzione e note storiche
Di cosa si tratta? Per quel che si sa, questa opera appartiene ad una serie di cosiddetti Sūtra brevi che fanno parte della sconfinata letteratura cresciuta e sviluppatasi intorno al Prajñāpāramitā Sūtra. Attorno a questo testo, si struttura ciò che potremmo definire uno dei principali mondi buddhisti di tradizione Mahāyāna. Nell’accostarsi a questa vastissima scuola buddhista, per l’importanza dei concetti e per la varietà delle opere prodotte, occorre, per prima cosa, affrontare alcune questioni preliminari. Innanzitutto, la centralità dei Sūtra. In un certo senso, è necessario considerare il fatto che un Sūtra rappresenta la parola diretta, nel senso che è stata pronunciata direttamente, o indiretta, nel senso che è stata percepita attraverso modulazioni energetiche, di un principio energetico chiamato Buddha, cioè il Risvegliato. Quando in ambito Mahāyāna parliamo di Buddha deve essere chiaro, fin dal principio, che intendiamo solo relativamente fare riferimento al signor Siddhārtha Gotama detto Śākyamuni, cioè il Buddha storico. In realtà, con questo termine, si intende indicare uno stato della coscienza visibile dal punto di vista dell’io come una forma e, intrinsecamente, dal punto di vista assoluto, privo di realtà sostanziale. Quindi, il Sūtra, quando è emesso dalla voce diretta del Buddha storico, rappresenta, in qualche modo, un documento attraverso il quale si esprime un determinato aspetto del Dharma¹, mentre, quando è percepito su di un piano energetico sottile, rappresenta una filtrazione elaborante del Dharma in senso fisico. Il panorama dei Sūtra Mahāyāna è di una vastità enorme e la struttura stessa di questi testi tende ad allontanare chi vi si avvicini con intenti logico-categorizzanti (aristotelici). Una delle trappole più comuni che incontriamo leggendo i Sūtra è la noia. Questa ci coglie se non sappiamo comprendere il fatto fondamentale che la lettura di un Sūtra è una pratica. Tale pratica, poi, può essere intesa sia in senso religioso sia in senso filosofico sia in senso spirituale o, finanche, mistico. Spesso, nei monasteri buddisti, nei tempi antichi, era possibile udire il salmodiare dei monaci che recitavano i Sūtra e ognuno di essi, generalmente, non possedeva che uno o due Sūtra che, ben presto, imparava a memoria. Il senso di questa pratica era un supporto alla meditazione quasi che il Sūtra fosse un trampolino di lancio e un ponte capace di collegare il singolo praticante alla propria radice intellettuale.
I Sūtra Mahāyāna hanno una lunghezza che varia da poche parole, in certi casi un solo carattere, a dimensioni enormi rappresentate da testi di centomila versi.
Il Sūtra che stiamo commentando, come detto, appartiene alla tradizione della letteratura chiamata Prajñāpāramitā. Gli studiosi da anni si dedicano alla ricerca intorno alle origini di tale fenomeno letterario. Ciò che di certo si può dire, è che i più antichi Sūtra Mahāyāna sono i Sūtra della Prajñāpāramitā. A mio parere e rimandando il lettore interessato alle numerose opere generiche sul buddhismo Mahāyāna citate in bibliografia, è importante comprendere che le idee fondamentali espresse da questo movimento di pensiero e cioè, la non esistenza di un intrinseco oggetto esistente e la coincidenza tra Samsāra e Nirvāna, rappresentano idee che possiamo ritrovare nella tradizione dello Shivaismo Kashmiro e, in particolare, nell’opera del suo più grande rappresentante Abhinavagupta.
Questo personaggio, che possiamo con il Pereira definire il sovrano della teologia induista, fiorisce intorno al 1000 d.C. come interprete principale di quella che sembra essere la più grande e strutturata corrente teologica nell’oceano infinito del pensiero induista. Le idee fondamentali esposte da questa scuola di pensiero sembrano suggerire il paradosso che la perfezione includa in sé l’imperfezione. Mentre la coscienza è unica, il che la rende perfetta e assoluta, essa ha bisogno di concepire l’imperfetta molteplicità, altrimenti mancherebbe di qualcosa e sarebbe imperfetta. Similmente, la libertà è l’incapacità di essere condizionati da limiti esterni o da elementi in sé limitanti, cosicché si può dire che libertà coincida con pienezza, quindi, che sia assoluta. Invece, la libertà implica una capacità di essere ciò che si desidera essere, anche se non lo si è. Così, deve essere possibile vuotarsi della pienezza e perdere unità: un’altra imperfezione. In questo modo, la realtà che è coscienza ha bisogno di essere multipla e non è concepibile unità senza molteplicità. La coscienza, per Abhinavagupta, è vibrazione che si sposta tra assoluto e relativo, tra immobilità e movimento. Movimento che provoca auto-oscuramento e auto-svuotamento della pienezza e immobilità che, vedendo se stessa, immediatamente si scinde perdendo unità. Grazie a questa vibrazione, il tessuto della coscienza si struttura di meraviglia che diventa essenza della coscienza. Proprio queste idee sembrano permeare il testo della Vajracchedikā Prajñāpāramitā. Se consideriamo che questa Scuola nasce a partire dalla corrente Kula intorno alla fine del IV secolo d.C. in Assam e si sviluppa nel corso del VII secolo fino a raggiungere la sua maturità con Abhinavagupta, ci rendiamo conto di quale possa essere la vicinanza spazio temporale con gli autori del nostro Sūtra, il quale sembra risalire ad un periodo che sta comunque dopo il 400 d.C. in un area geografica, come vedremo, molto vicina al Kashmir. Ad oggi non vi è alcuna notizia di un contatto diretto tra il mondo dello Shivaismo Kashmiro e la scuola buddhista della Prajñā, ma i temi e le argomentazioni ci fanno inclinare verso un’ipotesi di possibilità, oltretutto in un mondo culturale dove le contaminazioni tra scuole non rappresentarono mai un problema. Comunque sia, la struttura di pensiero del Sūtra risulta assolutamente più chiara ed accessibile se si tiene conto di ciò che poteva essere l'energia culturale del tempo e del luogo in cui è stato composto.
Ciò farebbe quindi pensare ad un origine nord-orientale dei Sūtra della Sapienza. Edward Conze, a tutt’oggi il più grande studioso occidentale di Prajñāpāramitā, ha individuato quattro fasi nello sviluppo della letteratura Prajñāpāramitā. Esse si sviluppano nell’arco di circa un millennio a partire dal 100 a.C. fino al 1200 d.C. In questo lungo periodo, da un testo base, il più antico, intitolato Aşţasāhasrikā Prajñāpāramitā Sūtra Il Sūtra della Sapienza che è andata al di là in ottomila versi, si sviluppa, in una seconda fase, la versione più lunga in centomila versi e quelle medie in venticinquemila e diciottomila. Dopo il 400 d.C., si sviluppò una nuova formulazione delle idee fondamentali di questa scuola in Sūtra brevi tra cui la Vajracchedikā e, contemporaneamente, fu prodotta un’opera esegetica dal titolo Abhisamayālańkara² che diventò il testo su cui i tibetani studiarono da sempre la Prajñāpāramitā. In ultimo, fu prodotto un testo intitolato Adhyardhśatikā Prajñāpāramitā Sūtra Il Sūtra della Sapienza che è andata al di là in centocinquanta versi. Questo schema, fornito dal Conze, è generalmente condiviso da larga parte degli studiosi, sebbene vi siano controversie sulla datazione proprio della Vajracchedikā che risulterebbe essere uno dei testi più antichi, certamente anteriore al 500 d.C.
Non è argomento di questo libro addentrarsi in questioni di carattere filologico, giacché la cosa senz’altro più interessante, dal punto di vista del nostro gruppo di studio, riguardo a questo testo, rimane il fatto che da una delle sue strofe il patriarca Hui Neng abbia potuto intuire la Realtà.
Perciò, occorre considerare il fatto che addentrarsi nella lettura e nella pratica della Vajracchedikā rappresenta difficoltà sia di ordine logico sia di ordine lessicale, dal momento che, necessariamente, la lettura dei non parlanti sanscrito abbisogna di traduzione. Se recitassimo il Sūtra nella sua versione sanscrita, certamente ciò rappresenterebbe un affascinante esercizio di recitazione di un mantra³, ma, tuttavia, sarebbe impossibile entrare nella struttura di pensiero che attraverso il testo è capace di illuminare alla stregua di un K’ung an, o come direbbe un giapponese, Ko’an⁴.
In realtà, le difficoltà di cui si parla, si possono superare senza alcuno sforzo nel momento in cui si adotti un’ottica di totale superamento della discriminazione, di qualsiasi tipo essa sia. Ciò non arresta il discorso, non lo rende vano, come generalmente si crede. Il pensiero che si manifesta attraverso il gesto scrittorio è, certamente, già presente nella mente dello scrivente e nel passaggio tra la mente che lo crea e l’essere scritto esso scade di significato. Proprio come i nostri sensi non riescono a cogliere gli oggetti nella loro totalità, così la lingua non riesce a espletare in modo completo la sua funzione. D'altro canto, tutta la tradizione ch'an, di cui questo testo rimane un pilastro di estrema importanza, baserà le sue modalità di insegnamento e trasmissione del Dharma proprio sulla capacità di cogliere il senso al di là della parola, adoperando l'armonia tra tutte le funzioni psichiche da cui nasce l'intuizione piuttosto che la logica in senso stretto.
Resta, appunto, la questione della logica interna al discorso contenuto nel testo. Risulta impossibile determinare una sequenza logica di argomenti, dividere in sezioni o organizzare il testo in modo preciso⁵. Tranne l’incipit, che è quello comune a molti Sūtra Mahāyāna, e la conclusione⁶, tutto il resto è l’inseguimento di una pratica logica.
In effetti il Buddha si pone in posizione paryańka⁷, prima di iniziare il suo discorso. Ciò rappresenta un riferimento al mondo culturale in cui e da cui il pensiero del Buddha storico si sviluppa e accenna alla diffusione della pratica yogica nell’ambiente culturale in cui è stato scritto il nostro testo.
Non dovremo, allora, forzare in alcun modo il pensiero alla comprensione logica dello scritto, ma lasciare che le idee contenute in esso, che sono quelle che leggiamo, sorgano in maniera del tutto naturale e intuitiva in noi.
Esiste, poi, come si ricordava sopra, un altro ordine di problemi riguardanti la trama di significati che si stendono a creare il discorso. Certamente, questo tessuto è quello proprio dell’espressività iniziatica, mistica, comune anche all’ambiente gnostico (due esempi, a livello di linguaggio, in occidente: Eraclito e Nietzsche).
Purtroppo, questi termini hanno, per alterne e differenti vicende, assunto significati che, dal un punto di vista del potere costituito e del suo rigore accademico-logico-scientista, sono, quantomeno, preoccupanti. Tutta la tradizione mistico-iniziatica viene regolarmente posta in non cale fin dal suo sorgere. Ciò da parte della cultura propria del potere costituito, il quale, man mano che si muta e si arricchisce di motivazioni nel corso della storia della società umana, tende, sempre di più, a eliminare e emarginare forme di conoscenza che non siano razionalmente concepibili.⁸ Così l’unico punto di vista accettabile è quello oggettivo e ogni forma di intervento della soggettività viene condannata all’inesplicabilità. Questa tendenza, in Grecia, si manifesta solo in casi ben determinati e nei confronti di fenomeni decisamente eccessivi riguardo alla preservazione stessa di uno stato sociale dell’umanità. In questo senso, possiamo riferirci a fenomeni quali certi rituali particolarmente cruenti, provenienti da fasi di sviluppo della società primitive dove già si formava un senso di iniziaticità dell’espressione, in particolare di quella scritta.⁹ D’altronde non bisogna dimenticare che il fenomeno mistico, rappresentato,