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Arrivederci Igor
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Arrivederci Igor

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Vittorio e Igor da ragazzi sognavano avventure in paesi lontani, fianco a fianco, contro tutto e tutti, come due moderni pirati a caccia di donne, buon rum e soldi facili. Ma mentre Vittorio ha accettato la sfida ed è partito, Igor ha dapprima preso tempo e poi rinunciato. A distanza di anni i due si ritrovano.
Vittorio è segnato dalle sue scelte e da vent’anni trascorsi in bilico, sul filo del rasoio; Igor è sempre lo scrittore malinconico, in perenne crisi di risultati e identità. Quando il suo vecchio amico gli chiede di aiutarlo, Igor per poterlo tirar fuori dai guai dovrà affrontare nemici e ricordi che dormivano tranquilli da più di vent'anni, gente dura, violenta che lo costringerà a guardare la morte in faccia e conoscere il lato più oscuro di se stesso.
LanguageItaliano
Release dateOct 9, 2013
ISBN9788875639129
Arrivederci Igor

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    Arrivederci Igor - Fabio Garzero

    PROLOGO

    Il sole è tramontato da un pezzo, e fa freddo, molto freddo.

    Quattro ragazzi immobili.

    Le sciarpe sul viso. Nelle mani le armi improvvisate di quel pomeriggio da pazzi. A terra i segni, i resti dell’ultima battaglia, vetri, sassi e aste spezzate di vecchie bandiere.

    Intorno a loro il nulla. La città sembra chiusa per lutto. Non passa una macchina, non si sente un rumore. La gente osserva spaventata dalle fessure delle persiane sprangate l’ultimo atto di quella che, nell’immaginario collettivo, doveva essere una grande, esaltante giornata di sport.

    Quattro ragazzi immobili.

    A un centinaio di passi da loro, un muro di scudi, caschi e manganelli. Poco più indietro i cinquecento arrivati da Torino. Le loro sciarpe bianconere a coprire le ferite del primo assalto, quello di un’ora prima, quando ancora le forze dell’ordine non si erano organizzate a dovere e il contatto fra le tifoserie era stato durissimo... Ne arriverà un secondo, ma non adesso. Non c’è fretta.

    Quelli della Fossa si stanno riorganizzando. Si cercano le pietre, si spaccano i marciapiedi per aver qualcosa da lanciare, si impugnano le spranghe e i bastoni, si portano nelle prime file le bombe carta; serve ancora qualche minuto per la prossima carica.

    Quattro ragazzi immobili.

    Osservano la scena da una posizione defilata. Sono cani sciolti, non si riconoscono in nessun gruppo organizzato, forse non sono nemmeno tifosi, il calcio è solo un pretesto. Non prendono ordini da nessuno, fra di loro c’è chi decide per tutti. Ha un bomber verde militare, una sciarpa rossoblù a coprire dei lineamenti duri, spigolosi, vissuti.

    Il volto di un diciassettenne che ha già conosciuto il morso della vita. Le braccia distese lungo il corpo, un paio di guanti scuri avvolti intorno alle due estremità di una spranga di ferro tenuta orizzontalmente. Con quell’arma ha già colpito, ma la giornata, per lui, non è ancora finita.

    Gli altri tre ragazzi della banda osservano il numero sempre crescente di cellulari e ambulanze. I caschi dei celerini brillano, sferzati dalle luci lampeggianti e da una pioggia impalpabile portata dal vento. Le forze dell’ordine sono in tal numero che i tifosi avversari alle loro spalle quasi non si scorgono più.

    I tre ragazzi non parlano, lasciano cadere lo sguardo alternativamente sul loro capo e sui nemici, quegli sbirri bastardi che, schierati, li attendono poco lontano.

    La Fossa è pronta a partire. Sono molti di meno rispetto alla prima carica e i ragazzi sanno che, al lancio dei primi lacrimogeni, molti di loro si disperderanno senza più tornare, proprio come il fumo denso dei candelotti. Il più basso di loro si guarda alle spalle, poi avanza di un passo e cerca di valutare da una miglior posizione lo schieramento dei tifosi del Genoa.

    Ci sono anche i Granata... laggiù, vicino ai capi! dice con una certa enfasi. Guarda il suo capo desideroso di un cenno, ma non ottiene nulla. Al suo fianco arriva un altro del gruppo: è biondo, alto e spesso come una montagna. Anche lui valuta attentamente la situazione... e vede gli Ultras, i Granata, i cugini.

    C’erano anche oggi pomeriggio, un centinaio circa. Sogliola mi ha presentato il capo... sono gente tosta, dei duri, se ci accodiamo a loro possiamo riuscire a passare dall’altra parte. Dei quattro è l’unico ancora a volto scoperto, dei quattro è l’unico che un’ora prima ha usato il coltello, alle spalle, per ferire nei glutei un tifoso della Juve.

    Manca il quarto, il più alto. Rimane indietro. Non parla. Il cappellino di lana da portuale che porta sulla testa si sta inzuppando d’acqua e così la sciarpa del Toro che porta stretta sul viso. Ha preso una bastonata nella schiena che gli farà male per almeno una settimana, ha i jeans strappati sopra il ginocchio e piccole striature di sangue gli scendono lungo la tibia, quasi fino alle scarpe. Ha steso con un pugno e una testata uno juventino con i baffi e una panza da tricheco, prima di dover affrontare altri due brutti ceffi contro i quali ha chiuso con un onorevole pareggio. Lui non guarda lo schieramento di polizia poco distante, non studia il suo assetto antisommossa, e nemmeno le centinaia di ragazzi della Fossa alla sua destra, e nemmeno i Granata, spostati ai margini della carica... Guarda in basso. Guarda quel tubo dell’acqua stretto nella sua mano, il leggero schiacciamento poco prima del piccolo raccordo a gomito con cui finisce, frutto di un colpo a vuoto nel muro di una casa. Osserva con curiosità le gocce di pioggia scivolare lente sulla sua superficie metallizzata, scura, intaccata dagli anni, le guarda mentre colano ritmicamente a terra formando una piccola pozza vicino alla ruota di un’auto in sosta.

    Lui sa quel che sta per accadere.

    La carica è un suicidio di massa. Una pazzia.

    I lacrimogeni disperderanno i più deboli e i timorosi, quelli che ancora rimangono nel gruppo per guadagnare punti agli occhi degli amici, anche se, in cuor loro, si augurano che tutto si risolva in un nulla di fatto, per poi gridare in ritirata minacce fragili come bolle di sapone. Ma il fronte dei duri non arretrerà di un passo. La reazione sarà violenta, arriveranno le pietre, i bengala e le bombe carta.

    Gli scudi difenderanno le prime file dalla sassaiola, i celerini arretreranno di qualche passo ma resteranno compatti, coperti dal fumo dei lacrimogeni. Fra urla e insulti, la Fossa partirà alla carica.

    Il primo impatto sarà durissimo, poi l’organizzazione e la superiorità numerica delle forze di polizia respingeranno gli assalitori e molti di loro cadranno feriti o arrestati, e se lui non getterà quel tubo di ferro, non volterà le spalle a quell’inutile mattanza e tornerà a casa, anche lui farà quella fine.

    Tutti e quattro faranno quella fine.

    Ma lui non è come gli altri tre. Lui non è un rifiuto, un emarginato della società. Lui ha qualcosa da perdere su quella strada. Lui ha una famiglia, una casa, degli amici, dei valori.

    Non dovrebbe trovarsi lì. Non avrebbe dovuto prendere quel treno per Genova e accodarsi a quel gruppetto di pazzi. Prendendosi a bastonate con altri animali e con la polizia, non ha placato quel continuo desiderio di conflitto che sente crescere ogni giorno dentro di lui. Quel pomeriggio non gli ha lasciato nulla oltre alle ferite. Non si sente appagato. Non è quella la strada che deve seguire, serve ben altro per saziare la sua voglia di lotta e i suoi diciassette anni.

    Cercherà altrove... cercherà ancora.

    Mentre gli altri tre avanzano verso la zona degli scontri, lui lascia cadere la sua arma. Il rumore metallico costringe i suoi compagni a voltarsi. I loro sguardi s’incrociano per un tempo che sembra infinito.

    Allo sguardo veloce di un passante, quell’immagine poteva ricordare la scena di un duello costruito dalla mano sapiente di Sergio Leone.

    Lui, abbassa la sciarpa e si toglie il cappellino che affonda nella tasca del giubbotto.

    Io torno a casa dice faticando a tenere un tono di voce distaccato buttarsi contro quell’esercito è un suicidio, ed io non voglio finire in Questura... Me ne torno a casa.

    Il capo lo guarda fisso negli occhi. Anche lui abbassa la sciarpa. Adesso impugna la spranga con una sola mano. Lasciandola oscillare, il suo vertice spigoloso graffia l’asfalto.

    I secondi passano lenti, i due ragazzi continuano a guardarsi, fotografando un istante che rimarrà marchiato a fuoco nelle loro menti.

    Proprio in quel momento, i celerini incominciano a battere i manganelli contro gli scudi. È il segnale, e la Fossa risponde. Partono i primi bengala e una fitta sassaiola. Sale fino al cielo il rumore della sfida, l’inconfondibile tuono artificiale che precede la tempesta. Ai margini degli schieramenti i primi contatti precedono lo scontro, mentre alle spalle degli agenti, il tonfo sordo dei lacrimogeni dà inizio ufficiale alla battaglia.

    Andiamo! dice il ragazzo biondo lascia perdere quell’infame!.

    I due si stanno ancora guardando. Prima di voltarsi il capo gli sorride e gli punta contro la spranga. È un sorriso glaciale il suo, freddo come l’arma che impugna, un sorriso che ti passa da una parte all’altra come la lama di un coltello. È una promessa, una minaccia... è l’inizio della fine.

    Quando il capo rialza la sciarpa a coprire il viso, il sorriso è ancora lì, al suo posto, freddo e cattivo, chiaro, inequivocabile.

    Il ragazzo alto ne sostiene il peso, lottando con tutte le sue forze per dominare un vistoso tremore alle mani.

    I tre si allontanano. Lui rimane a guardarli.

    Li vede affiancare i Granata, poi li perde di vista. Li cerca nel cuore degli scontri, li vede comparire e sparire in mezzo alla massa e al fumo dei lacrimogeni. Li vede cadere e rialzarsi, li vede lottare, vincere e poi soccombere. Li vede a terra. Li vede trascinati via…

    Solo allora si volta e cammina verso la stazione, dando per sempre le spalle a una delle pagine più stupide e folli di tutta la sua vita, una pagina che avrebbe potuto segnare dolorosamente tutta la sua esistenza. Una pagina che ancora non sa, dovrà rileggere e rivivere molti anni dopo, per poterla poi strappare, con rabbia, dolorosamente... e definitivamente.

    Venti anni dopo... o giù di lì

    Ci sono cose di una città che si possono vedere solo dal finestrino di un treno, di notte, con la tua immagine debolmente riflessa sul vetro e un senso di angoscia, o di malinconia, che ti attanaglia lo stomaco con il passare lento dei minuti.

    Genova di notte, vista dal finestrino del treno, è orrenda.

    Il degrado, gli uomini e le donne che si muovono come spettri, le scritte sui muri e le strade che costeggiano i binari poco trafficate come mai ti è capitato di vedere. E poi gli scorci di abitazioni a ridosso della ferrovia, così vicine che ti sembra di poter toccare il bucato steso. A quell’ora della notte le case sembrano tutte dello stesso colore, come se una patina le avesse avvolte una dopo l’altra. Poi uno squarcio di luce. Improvvisamente una finestra illuminata, forse una cucina, una sala. Qualche volta si scorge un uomo sul balcone, una sigaretta in bocca, la barba di qualche giorno e lo sguardo apparentemente perso nelle luci della città. Incuriosito lo osservi riflettere, mentre davanti a lui, scorrono le immagini della sua vita e di un treno che viaggia nella notte. Il tuo treno.

    Quel treno che ti porta al lavoro, perché dopo tante battaglie e strenui tentativi, anche tu, Igor Sestri, scrittore, hai dovuto accettare un lavoro come tanti, perché non puoi vivere facendo il letterato, perché in Italia non si vendono libri, la gente non legge e guarda tanta tv o forse, molto più semplicemente, perché non sei abbastanza bravo per vendere decine di migliaia di copie e adesso, dopo anni di lotta, lo devi ammettere e ti devi rassegnare.

    Ma comunque potrai sempre dire che il tuo non è un lavoro per tutti. Non sono molti quelli disposti a fare la notte in un albergo ad ore, all’inizio dei vicoli, con le porte sprangate e una mazza da baseball sotto il bancone. Cinque notti alla settimana, da solo, con un libro in mano e gli occhi che lacrimano per il sonno. Cinque notti in compagnia di te stesso e di una fauna notturna varia, scolorita e disperata.

    Passi il tempo specchiandoti dentro il tuo imminente fallimento, pensando e ripensando a quelle scelte, a quegli errori, a quelle sconfitte che hanno contribuito al crollo delle tue illusioni e ti hanno costretto a dire: ‘Non sarò mai uno scrittore!’.

    Già, uno scrittore.

    Un uomo la cui fantasia è in perenne movimento, alla ricerca di idee, ambientazioni e personaggi suggestivi. Un uomo che quando ti guarda hai la speranza inconfessabile che possa metterti nel suo prossimo libro. Un uomo che sembra in grado di leggerti negli occhi qualsiasi debolezza o inconfessabile segreto. Un uomo che viaggia, e periodicamente sparisce per poter mettere tutto il suo sapere nero su bianco. L’uomo che hai sempre sognato di essere e purtroppo non sarai mai, e mentre si aprono le porte del treno e senti il freddo della notte entrarti nelle ossa, ti chiedi per quanto tempo ancora riuscirai a vivere in compagnia di questa delusione... e quando smetterai di presentarti alla vita come Igor Sestri, scrittore.

    Qualche mese dopo…

    Una notte di settembre, ancora calda e carica di profumi estivi e buoni propositi. L’inverno sta per arrivare, Varazze presto cadrà in quel letargo da cui, un giorno, rischia di non risvegliarsi nemmeno con l’arrivo dell’estate.

    Questa notte non lavoro, ma il fato mi obbliga a tornare sul luogo del delitto. Genova, che per anni ho cercato d’ignorare, adesso mi attira, mi incuriosisce, mi sfida a lasciarla e, cosa ancor più incredibile, mi sconfigge, costringendomi a tornare.

    Siamo partiti in tre. Io al volante, Gian a farmi da copilota e Toto sui sedili dietro alle prese con una canna lunga come una grondaia. Tre vecchi amici, compagni di tante battaglie.

    Siamo partiti per la città convinti di andare incontro a qualcosa di speciale. Dovevamo fare, provare, incontrare. Dovevamo venir travolti e trascinati via. Dovevamo inabissarci per poi riemergere. Doveva essere una di quelle notti che quando le racconti vedi intorno a te sguardi rapiti e sognanti. Credevamo di andare incontro a qualcosa d’importante... ma abbiamo commesso un errore spaventoso: ci siamo fidati di Toto e della sua capacità innata di vivere una vita parallela, molto, ma molto lontana dalla realtà. Una vita nella quale incontra una ragazza che gli sorride e questa diventa, non si sa come, tenutaria di un bordello nel centro di Genova, nel quale lui e i suoi amici, verranno accolti da uno stuolo di donne d’incredibile bellezza, pronte a soddisfare ogni più segreta fantasia.

    Devo ammetterlo, io e Gian siamo partiti da casa con i nostri boxer migliori e la speranza che, per una volta, Toto non ci avesse riempito di cazzate. Quando il sogno si è frantumato in mille pezzi, ci siamo trovati al tavolo di un bar qualsiasi, con tre scarti, tre autentiche sporcaccione che non avrei nemmeno preso in considerazione in una notte maledetta di pioggia e vento teso. Hanno bevuto in un paio d’ore cinquanta euro di intrugli colorati davanti all’espressione allibita e vagamente disgustata di Gian, alla mia rassegnata e stanca e a quella vogliosa di Toto, che non riusciva a sollevare gli occhi dalle loro tettone.

    Hanno organizzato un’ammucchiata dalla quale io e Gian ci siamo serenamente defilati.

    Lo abbiamo aspettato in macchina, mentre lui, al grido di ‘dannati finocchi’, si buttava in mezzo a quelle due tonnellate e mezza di carne molla, alcol, profumo dolciastro e sudore. Tre donne contro una ruspa del sesso dozzinale, un artista del trash, un’inarrestabile macchina da guerra.

    Noi abbiamo ingannato il tempo ascoltando vecchie cassette e un paio di CD di musica ‘occitana’, comparsi come per incanto nel mio portaoggetti. È stata un’attesa lunga e particolarmente dolorosa.

    Toto è riapparso ben oltre le due, sbrindellato, spettinato e sporco, con due occhietti porcini, tondi e sporgenti e le pupille dilatate a dismisura.

    Il ritorno a Varazze è stato un suo monologo.

    Avvolto da un odore nauseante che ha portato in dono con se nell’abitacolo della mia auto, ha mimato posizioni, insulti e grida di dolore che hanno costretto Gian, in almeno un paio d’occasioni, a togliersi gli occhiali e pulirli con cura, quasi a volersi sincerare della realtà di quelle immagini da film dell’orrore che gli scorrevano davanti agli occhi. Prima del casello di Genova Aeroporto, ha simulato un amplesso disgustoso, colpendo con forza il bracciolo in mezzo ai sedili, dando certi colpi di bacino capaci di scuotere la macchina come nel cuore di un tornado.

    All’altezza di Arenzano, improvvisamente, il nostro eroe è crollato, preda di uno sfinimento che solo una lotta senza esclusione di colpi poteva giustificare, e con lui Gian, al mio fianco, la testa incastrata fra lo schienale e il finestrino e la bocca aperta in un’espressione da fotografare. Con Toto riverso sui sedili posteriori, immerso nella sua bava, Gian boccheggiante, ed io, con un occhio chiuso e uno aperto, non potevamo che finire facile preda del più classico dei posti di blocco al casello di Varazze.

    La puntuale, l’amata, l’adorabile Stradale.

    Addirittura due auto, nonostante i tagli governativi e la conseguente penuria di carburante. Tre uomini e una donna, bionda, con una coda di cavallo fino a metà schiena, quasi un miraggio dopo la notte da incubo confezionataci da Toto... peccato la divisa.

    Dell’allegro gruppetto fa parte anche Richy, assistente capo della Stradale, residente a Varazze e compagno di bevute in diversi locali varazzini.

    Siamo salvi!... Probabilmente, ammesso che Toto continui a dormire.

    Richy mi vede, non si muove e continua a parlare con un suo collega. Non servono parole, è bastato uno sguardo. Verrà solo se necessario, altrimenti rimarrà al suo posto e non dovrà giustificare certe amicizie.

    La bionda si avvicina e mi saluta portando velocemente la mano alla visiera. Sorrido, ravvio i capelli e incrocio le dita.

    Patente e libretto.

    Nessun problema.

    Mentre le porgo i documenti, mi esce un Igor Sestri… scrittore.

    Non so nemmeno io il perché di questa inutile presentazione, forse volevo distogliere l’attenzione dalla mia patente, lavata il mese prima insieme a un paio di jeans.

    Legge, controlla, gira intorno alla macchina e porge i documenti al collega. Adesso parlottano, ci guardano.

    Gian si è svegliato. Ha un ciuffo importante sulla testa, un sorriso immobile e la bocca impastata.

    Toto russa.

    Richy controlla tutto a distanza.

    La bionda torna.

    Anche i documenti dei suoi amici… grazie!.

    Gian estrae prontamente una patente in cui sembra a malapena suo cugino. La bionda la ritira e resta in attesa.

    Svegliare Toto è un’impresa non da poco.

    Borbotta qualcosa. Crede di essere a casa sua, poi a Genova con le tre vacche, quindi sputa sotto il sedile, si strofina gli occhi con forza e vede la poliziotta.

    Minchia che fica! esclama a gran voce.

    Siamo morti, penso mentre cerco di farmi dare un documento e farlo tacere. Non ottengo né una cosa, né l’altra.

    Toto non dà i documenti a quella cavalla... non mi fa paura, al contrario, dille di arrestarmi e violentarmi in Questura. Solo allora parlerò.

    Mi volto di scatto… forse non ha sentito.

    Dammi un documento idiota! Uno qualsiasi, va bene anche la tessera del video club!.

    Non porto documenti con me, non mi servono. Tutti conoscono Toto! Anzi, adesso che mi ci fai pensare è da un pezzo che non vedo la mia carta d’identità... la mia patente ce l’hanno questi fenomeni. Ricordi quella volta che mi hanno trovato con la macchina a cavallo dell’aiuola davanti al comune? Se la sono tenuta loro!.

    Cerco di spiegarlo alla bionda ricamando il tutto con un bel sorriso.

    Passa qualche minuto. Torna con il suo collega.

    Richy continua a tenerci d’occhio… da distante.

    Il poliziotto ha un’altra cera rispetto alla collega, sembra particolarmente stanco e nervoso. Ci riconsegna i documenti, ma vuole conoscere meglio il mio passeggero.

    Toto scende dalla macchina. Puzza come un caprone e ha dipinta sul viso un’espressione strafottente, insopportabile.

    Questo in breve il colloquio.

    Signor...?.

    Chiamami Toto!.

    Signor? ripete l’agente aumentando un po’ il tono della voce.

    Salvatore Catena… ma puoi chiamarmi Toto, preferisco.

    Come mai è senza un documento?.

    La mia faccia è il mio documento.

    Teoria interessante….

    Ne ho molte altre se è per questo.

    Non ne dubito. Cosa fa nella vita signor Catena?.

    Perché devo dirlo a lei? Sono forse sospettato di qualcosa?.

    Ancora no.

    Volevo ben vedere.

    Le ripeto la domanda. Cosa fa nella vita?.

    Il torero.

    A quel punto scivolo via lentamente e raggiungo Richy.

    Lui mi sorride… mi stava aspettando, il bastardo.

    Sei mio ospite al Drake per tutto il mese se mi metti nelle condizioni di richiudere Toto in macchina, legarlo, imbavagliarlo e buttarlo davanti al portone di casa sua, prima che il tuo collega lo finisca con un colpo alla nuca gli dico con un filo di voce.

    È quello che voleva sentirsi dire.

    Richy raggiunge il capannello dalla mia macchina.

    Sembra uscito da un telefilm, tutto ben ordinato e pettinato con cura. Sorride, parla con i colleghi, la poliziotta divertita se la ride, mostrando una fila di denti non certo impeccabili.

    Intanto Gian risale in macchina e Toto cerca di farlo passando dal finestrino, poi apre la portiera e mentre si china per entrare, Richy lo spinge dentro con una certa energia e chiude lo sportello. È fatta, ma mi costerà una cifra. Lo sbirrazzo è ospite fisso al Drake, soprattutto nei fine settimana e non salterà un giro. Glielo leggo in faccia quando mi saluta.

    Ci allontaniamo velocemente, mentre alle mie spalle, Toto urla qualcosa d’indecifrabile che si perde nella notte.

    Scarico i miei compagni davanti alle rispettive abitazioni e decollo verso la mia, nell’entroterra, al riparo dai rumori della mattinata di sabato che si avvicina ad ampie falcate. Voglio dormire fino al primo pomeriggio.

    Quando mi corico ancora non so che quella sarà, per parecchio tempo, la mia ultima serata tranquilla... per così dire.

    Il risveglio è stato come tanti altri in questo periodo. Ogni cosa mi costa una fatica indicibile. Scendere dal letto, lavarmi e prepararmi, brucia le energie a mia disposizione per l’intera giornata.

    La casa è in ordine, non per merito mio naturalmente, ma per la generosa e infaticabile mano di mia madre, che saltuariamente, decide di controllare la sua casetta di gioventù e lo stato di conservazione dell’immobile. Quando rientro dopo le sue visite, mi sembra di essere in una clinica. Tutto brilla e risplende di luce propria, soprattutto la camera da letto, dove, dopo un mese di degenza, si riesce a malapena a scorgere la spalliera dietro i cuscini. Conoscendola, affronta i primi minuti con un forcone e un paio di robusti stivali da pioggia... i commenti e le maledizioni che mi manda posso solo immaginarli.

    È una bella giornata e come detto, non ho voglia di fare una mazza.

    Mi succede tutti gli anni, a settembre.

    Eppure è un mese che adoro. I turisti sono tornati nelle loro città, il mare è finalmente pulito, i colori sono caldi e l’afa di agosto, vinta da una brezza da nord quasi costante, è soltanto un brutto ricordo.

    Eppure è un mese che non riesco a godermi fino in fondo.

    Sento arrivare l’autunno, e ancor prima che scavalchi l’Appennino, il mio umore e il mio fisico si chiudono a riccio, guardinghi, in difesa, timorosi di quegli spifferi che, a breve, taglieranno in due la casa e di quelle giornate di vento e pioggia che mi obbligheranno per giorni alla noiosa convivenza con me stesso.

    Il suono del campanello mi sorprende con le persiane ancora

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