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L’amore non cura, l’amore si cura
L’amore non cura, l’amore si cura
L’amore non cura, l’amore si cura
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L’amore non cura, l’amore si cura

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About this ebook

“Un quaderno collettivo, un dove in cui raccontare l’amore, l’orrido, la vita. La gioia, il proprio punto di vista. Tutto quello che vorremmo dire, che avremmo detto, che teniamo dentro e che nessuno, probabilmente, ha mai ascoltato.” 

“Una corale di voci differenti che si tengono la mano, accomunate dallo stesso filo, donne, bambine, ragazze che si raccontano nella quotidianità della violenza domestica, della vita, della speranza, della ripetizione e di un amore, quasi sempre mancato. Nuove prospettive, rivoluzioni, resurrezioni e prese di coscienza. Figli e figlie estremamente coraggiosi.”

“È nel quotidiano, nei silenzi, nell’abitudine, nelle voci ancora vive che questa stanza di Storie di Lana cerca le parole, persone di qualsiasi età ed estrazione sociale che hanno invertito la rotta, hanno strappato la propria vita da un meccanismo mortifero, difficile e complesso da spezzare, quale è la violenza.”

Essere umano di taglia piccola, meticcia, un po’ strega e un po’ d’autunno. Metà sarda e metà bielorussa, nasce all’alba, settimina e senza guscio, un giorno di fine aprile, nel 1995. Non sa se qualcosa l’abbia capita dalla vita, nel mentre però ha imparato a creare giacigli confortevoli quando niente è a portata di umanità. Crede nella gentilezza e nella parola che cura, bordando la vita, cucendo il dolore, a forma di disegno di bambino molto piccolo. È nell’ascolto, nella lana e nella morbidezza dei fili colorati che ha trovato la sua tana. Nel ricamo della parola. Nelle pizzette al taglio. Non sa parlare a voce alta, salva ancora i lombrichi e le lumache dalla strada.
Anastassìa, con l’accento sulla i, significa resurrezione, probabilmente è la cosa che sa fare meglio. Si commuove per tutto e ride quando non si dovrebbe.
LanguageItaliano
Release dateMay 31, 2022
ISBN9788830664203
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    L’amore non cura, l’amore si cura - Anastassia Caterina Angioi

    Il rocchetto col tuo nome

    Filo su rocchetto. Quello nostro.

    Tieni un capo del filo, con l’altro capo in mano.

    Io correrò nel mondo.

    E se dovessi perdermi tu tira.

    M. Mazzantini

    Tieni forte quando non mi vedrai e sarà buio e non saprò che pensi né che colore dei capelli avrai.

    Tieni forte quando sentirai di scivolare, lasciati portare e non cambiare le cose che non si possono cambiare.

    Tieni forte il nostro filo, quando sarò lontano e tutto ti farà pensare a un mio non ritorno, non crederci, non incolparti, non perdere il percorso, il perché, il tuo speciale come, e nel non senso non provare a trovarne uno, allontanati e abbraccia quel vuoto, il tuo prezioso vuoto, e so che farà paura perché è bastardo e non ascolta, ma tu accucciati, e diglielo che va tutto bene, diglielo che va tutto bene, come facevi quando ti ha lasciato lì davanti, al buio, daglielo il conforto, anche poco ma daglielo… e quando vorrai tira, che io sono qua.

    Tieni forte il nostro filo quando l’alba tarderà ad arrivare, aggrappati, avvolgiti e non lo lasciare, scorre nelle trame la nostra promessa, quella che ogni giorno si rinnova al sole, non dimenticare.

    Che sono dall’altro capo, e stringo insieme a te e non ti lascio. Potrai correre e volare, viaggiare, dimenticare, vivi la tua vita, emozionati, arrabbiati, diffida da chi millanta perfezione, grande amore, traendone le fila come hai sempre fatto tu, veloce veloce, piena di fiducia e di passione, vai piano, lasciati il tempo di capire, di vedere, di vederti e non dimenticare del tuo istinto arguto, del tuo pensiero, che è il più importante, metti te davanti ad ogni cosa, e di me, di me non preoccuparti perché lo sai, son passati tanti anni un po’ di esperienza ora la hai, non sparisco, non ti abbandono, non ti spavento, non ti tradisco, perché questo, questo è il filo del ritorno, di chi resta, di chi ama e non chiede altro che vedere ogni giorno spuntare negli occhi, nei tuoi occhi un sorriso.

    Ti stringo.

    C:\Users\Massimo\AppData\Local\Temp\lu74544p7djb.tmp\lu74544p7dm4_tmp_f4e069f0a00d8715.png

    Lettere di un manicomio

    Venire al mondo

    FILO SU NON TE L’HO CHIESTO IO. EPPURE VIVO.

    Eri linea curva. Poi la presi io.

    È da lì che ci perdemmo.

    Nel gelo, le lacrime, la violenza.

    E ora cammino, passo dopo passo, dolente e dolorante, ma uno dopo l’altro, ogni piede mi dice che esisto. Lì dove quella me e quella te si possono finalmente incontrare. Lì dove si sono lasciate, come se il mio arrivo avesse spento la vita, invece che farla brillare.

    Ti porto sui leggins tagliati che non ho più paura di usare, sulle ore passate sui tacchi che non ho usato mai. E sui quali niente mi può fare del male.

    Su quanto questi piedi e questo baffo Nike hanno sofferto e parlato, mai.

    A mille di queste catwalk per te, per questo raro luogo in cui sentirmi viva e con orgoglio, me.

    Che per vivere c’è davvero bisogno di tanta cipria e molto coraggio. Anche dopo anni, per rimettere questi vestiti e non vomitare.

    Ma prepararsi per una passerella e brillare.

    Ci sono anche i bambini nei manicomi.

    Ci sono solo i bambini, nei manicomi.

    Quei bambini mai visti, i bambini dalle crepe profonde, quelli dagli incastri consunti e soffocati dagli adulti.

    I manicomi sono popolati dai bambini, quei bambini che non rientrano nella fila indiana creata da chi punta il dito su di loro, quelli che vivono sulla fila indiana aspettando il proprio turno per respirare, posso?

    Per respirare prova dopo, stai pretendendo troppo, non è il tuo turno.

    I manicomi sono popolati dai bambini, quelli che abitano le mura di una casa in cui non c’è spazio per loro.

    Bambini che si sentono la causa della morte dei loro padri, quelli che mai si son presi la propria responsabilità, la causa della morte delle loro madri, che in egual modo si son sottratte alla vicenda complicata che è la vita, riversando se stesse verso orme non ancora solcate, quelle di chi mettono al mondo.

    Resto qui, venuta al mondo, sulla piastrella accanto al camino, dove il caldo mi cinge le ossa e gli abbracci li sogno, ogni giorno, da dare io, ai miei piccoli attorno al fuoco. E chiedo aiuto, e non lo trovo e ci riprovo, e non mi trovo. Non mi vedono. E se mi vedono dimenticano subito, a distanza di anni, non ho mai visto né sentito. Chi sei tu? Urlo, in braccio a loro, chiedo, non rispondono. Chiusa la porta, dimenticano, ti rispondono non so, non è la vita loro.

    Smetto.

    Perché anche in manicomio, a ogni età, i bambini sognano, e li vedrebbero tutti se solo guardandoli ognuno abbandonasse il proprio tracotante ego.

    I bambini nei manicomi muoiono.

    Perché siamo presi a fare altro, ma ci dispiace, poi, per la tragedia. Non sapevo.

    I bambini muoiono di morte lenta, in manicomio, che nessuno, né io né loro, avevano mai chiesto.

    I bambini in manicomio piangono, senza lacrime, in luoghi chiusi al mondo e aperti solo a chi un giorno, sai già non li riconoscerà mai più. Eppure, li hanno visti, li hanno tenuti per mano, li hanno annusati, cambiati ogni giorno.

    Ma dimenticare i loro occhi è più facile che fermarsi a guardarli, siamo tutti impegnati, siamo tutti presi dalle nostre stronzate, a nessuno piace restare senza mutande il giorno di Natale, in piazza Maggiore, col panettone e I re Magi, mentre per mano cantiamo la nostra

    di vita

    scintillante

    zuccherosa

    promessa iraconda. Fuori nevica, le case crollano, edulcorati dalla sola vergogna, fatta di coperta, seta calata sulle spalle, ridiamo compiaciuti, sappiamo tutto, da anni, ma ce ne frega quanto guardare le crepe sui muri. So che cos’è, ma non me ne importa. In fondo questa facciata di muro è la mia ed è intonsa, tu occupati della tua.

    Non della mia, e della tua non ho voglia.

    Ma i bambini muoiono. Nei manicomi. Ne hai incontrato uno anche tu, ieri. E non lo hai riconosciuto.

    Sua madre ti chiedeva aiuto, quando ancora gli uomini si giravano a rallentatore, per poterle togliere i leggins di dosso.

    Ma tu hai preferito dire non so. Dimentico. E ti presento il conto. Uno tutto mio, a distanza di anni e di morti, che me ne frega se da quella crepa è crollato tutto il muro.

    Ho cambiato casa. Lì non ci abita più nessuno.

    Ti porto sui leggins tagliati che non ho più paura di usare, sulle ore passate sui tacchi che non ho usato mai. E sui quali niente mi può fare del male.

    Mi hai messo al mondo dimenticandoti che io non te l’ho chiesto.

    Volevo solo un po’ di rispetto, cosa che non ho avuto.

    E quando si poteva fare qualcosa, non mi ha mai visto nessuno.

    Come Mowgli su Marte. Facile, sottrarvi ora.

    Non è la vostra vita.

    Che vi importa.

    Sono nata in manicomio e so cosa vuol dire ti prego, non girarti dall’altra parte, non lasciarmi qui, non lasciateci qui, chiusa questa porta.

    C:\Users\Massimo\AppData\Local\Temp\lu74544p7djb.tmp\lu74544p7dm4_tmp_cc4cf91408c1dfe2.png

    Lascia

    Lascia stare

    Filo su quiete. Un cuoricino giallo,

    di riso rosa raso

    Molla, come si molla per dormire e sognare, eh, la fai facile tu, che la chimica ti viene ad aiutare. E hai un letto, anche se duro, su cui poggiarti.

    Lascia.

    Lascia stare, lascia che tutto si distrugga, che si sfaldi e si sbricioli come deve, smetti di tenere, di trattenere, di salvare, di pensare.

    Lascia, come si lascia il filo del palloncino che tieni a fatica tra le dita, nel tuo giorno più bello, lui che spinge per salire su, è la sua natura, mentre tu vuoi ancora tenerlo a te, per avere l’impressione che l’aria, quell’elio racchiuso sia un po’ anche il tuo, in quel tentativo presuntuoso e umano di fissare per un attimo in un involucro l’eterno, mentre la sua forma tonda ed appagante, colorata e senza spigoli ti regala la leggerezza di cui manchi e non può biasimarti.

    Lascia, lascia stare lascia, che le cose vadano, che facciano, che si uccidano, che si affidino al Padre Eterno, ai miracoli per chi ci crede, lascia.

    Che tutto si smonti, che si frantumi in particelle piccolissime tanto piccole da non vederle più.

    Tieni il tempo degli aquiloni, delle spighe di grano e delle ali delle farfalle, quelle che non hai mai rincorso.

    Non c’era tempo, nemmeno per mangiare.

    Sorridi, come seta che scivola sulla pelle, quel momento di sale e maestrale, di abbandono e di niente. Fiocchi di raso e rosa blush sul naso.

    Sei bella quando sorridi e pure quando piangi, è come se qualcosa di te, senza che tu voglia, si lasciasse andare e tu, no, non te ne accorgessi, le labbra si distendono, e gli occhi sorridono, e le odi quelle labbra che non ascoltano, quando hai paura, loro che tremano, da sempre, da che ti ricordi, per i giornali, insieme alle gambe, i piedi, le ossa, e non sai come fare, eppure vorresti dire loro che è tutto bene, che va tutto bene, che non si muore, quando avrebbero bisogno di sentirsi coccolate, e al sicuro, e allora prova, provaci, ad abbandonare, quel senso di panico e tenuta, fortissima, forte cemento duratura.

    Fosse solo per un paio di secondi oggi, tre domani, cinque dopodomani. Come puoi e quando riuscirai.

    Pensa alla rinuncia, allo spazio.

    Pensa alla pioggia.

    Lascia che sia, lascia, come le briciole dalla tovaglia sul  balcone, i piedi bambini, con le fibbie ed i laccetti, sulle altalene i pomeriggi estivi.

    Lascia cadere gli aghi, da sotto le unghie, e i cristalli perfetti, quelli tanto invidiati, incastonati nelle rughe del pregiudizio che hai tra le mani.

    Lascia che niente pesi, lascia che niente ti pesi, gli zaini, le valigie, i mattoni e le tegole tumefatte dalla muffa e dalla recriminazione. Che te ne fai, ancora, di robacce sporche pesanti, non tue.

    Lascia che si abbatta, si disfi, si snodi, non spiegare, non protrarre, non fare.

    Quel che sceglie, quel che attecchisce senza sforzo, quel che è destinato a restare resta, resta comunque, anche se tu non fai niente di speciale. Perché non serve fare qualcosa di speciale, di speciale ci sei già tu.

    Se puoi, scegli, scegli di vivere con meno, scegli il poco peso. Scegli il poco costo, una felicità che costa tanto, attenzione, no, non è felicità, non è di buona qualità.

    Quel che vorrà vivere troverà il modo, del resto, poco puoi fare.

    Se non che pensare a prenderti cura delle tue pieghe, ed aprire le ali, piccole, grandi, pennute, pelose, nude, spelacchiate che siano, e come uccelli aggraziati, sui pesi, sulle cose, sulle tempeste, tenerti forte al maestrale, mollare, planare.

    E lascia, davvero lascia stare.

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    Sogliola Céline

    Subenti onnipotenti

    FILO SU MARE E SU TERRA

    Céline si credeva onnipotente.

    L’impotenza della sua infanzia, quella soffocante di stare a guardare e non poter fare niente, di subire e non poter fare niente, di sopportare e non poter fare niente, di non riuscire a fare niente che non fosse assorbire in silenzio e arrangiarsi, le aveva dato in risposta tre modi per cavarsela, per sopravvivere.

    La dimenticanza del dolore, la gioia del ritorno a qualsiasi prezzo, e l’onnipotenza, appunto. Tre cose scomode che creavano salvezza come incastro, uno letale.

    Al tempo stesso, a modo loro, tutte e tre l’avevano salvata, le avevano dato il permesso di poterci stare nei mari, di poterci essere davanti ad A. a raccontare, e di questo doveva ringraziare se stessa.

    Ciò che ora era orrore, appiccicato alla schiena, al naso, quel peso di anni che schiaccia ogni sogliola dalla loro comparsa primordiale, quella palla nera da guardare con tenacia e farci i conti faccia a faccia, nocciolo contrito brutale brutto ed inguardabile era, in realtà, una fonte preziosa, una dote, una risorsa non da poco.

    Ma andava preso tra le pinne e con pazienza e dolore, articolato, perché era da un po’, anzi da troppo tempo, che si era fatto troppo pericoloso. Aveva troppe volte scampato la fine. Non se ne poteva più.

    A spasso con un sintomo.

    Questi adattamenti cuciti insieme da dimenticanza, da gioia e onnipotenza che sin da piccina e tonda, da mingherlina e lunga, da sogliola grandetta e da sogliola grande la tenevano, a detta sua, in vita, le presentavano sempre un conto bello salato.

    Davanti al sintomo asciutto non si poteva più lisciare e non fermarsi.

    Pulito tutto attorno dalle alghe, e dai cocci di guscio, restava lui. Nero.

    Come in scultura, che togli, togli togli, fino ad ammirare l’opera che resta. Meravigliosa. Anche in questo caso, anche se non si direbbe mai un sintomo meraviglioso, perché sa di malattia, di lontana guarigione, grigiore, smarrimento, perché il sintomo non rende vita facile, fa male. Il suo peso sul dorso fa affondare negli strati di sabbia in cui l’ossigeno non penetra. E metterci mano è dura, ma è l’unica cosa che si può fare. È un momento difficile da raccontare, quel trovarsi lì davanti a lui, dopo anni di lavoro. Lo guardi, ti guarda, e fa male.

    Ma non sei sola. Non è sola, Céline. Sola ma non da sola, si ricorda? Accanto a lei.

    Anche con poche primavere sulle guance, sogliola Céline, si sentiva mancante e in colpa di non poter fare niente per cambiare le cose, per toccarlo quel qualcosa che nuotava più in alto, si sentiva di non avere gli strumenti. Allora gli strumenti decise di crearseli da sola, facendo quel che poteva, anzi, sempre molto di più di quel che reggere poteva. Molto, molto oltre. Così. Zitta e ascolta, zitta e ascolta, bassa bassa sotto le pieghe del mare, zitta e interpreta nascosta tra le alghe grandi, sogliola lesta tra la sabbia più grossa, sfoderando l’arma del non essere, trasformandosi nella maga del percepire. Meno mi si vede meno mi rendo complice e contribuente di una vita già difficile. Non voglio creare disturbo.

    Ma giorno dopo giorno questo schiacciato nuotare era diventato una condanna, una morsa alla gola, allo stomaco, sabbie mobili tra le pinne.

    Ma cosa puoi fare, davanti agli squali, se ancora non sai nuotare?

    Davanti al sangue che fare, se ti sono appena spuntate le pinnette e non le sai usare? Ma tu le usi uguale perché sei grande, sei nata già da tre primavere, sei molto grande.

    Ogni volta che la mamma si divertiva a lasciarla da sola dicendole che avrebbe cambiato mare a causa sua, la lasciava col minestrone sul fuoco, e le diceva, gestisciti. Io non ti sopporto più. Me ne

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