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Incantevoli stronze
Incantevoli stronze
Incantevoli stronze
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Incantevoli stronze

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Stronze perché... Non vi offendete, le donne per prime definiscono così altre donne: abitualmente le “ex” dei loro compagni, le fortemente indipendenti chiamano così le eccessivamente sottomesse, che ricambiano, e poi tra colleghe di lavoro, compagne d’avventura, “care amiche”… Lo “stronze” del nostro titolo non è un triviale aggettivo rivolto a esseri stupidi o spregevoli, ma alle femmine che oggi tanti uomini desiderano. No? Eppure talvolta scartiamo compagne che vorrebbero cucinare per noi, subire i nostri hobby, trasformarsi a comando in zoccole, crescere i nostri figli... per altre che, dopo averci stregato, non esaudiscono i nostri desideri, ci impongono uno stile di vita scomodo, preferiscono lo shopping a... Insomma stronze, ovvero donne che hanno capito tutto, per nulla disposte a rinunciare per noi alla propria vita: gentili ma forti, competenti ma non noiose, simpatiche ma distaccate, stimolanti ma non puttane. In questo volume illudono, uccidono, tiranneggiano, ingannano, tradiscono, rovinano, sbranano… ma sempre (o quasi) con amore o per amore. Ed è questo che le rende, per quanto stronze, incantevoli.
LanguageItaliano
Release dateJun 17, 2014
ISBN9788875639839
Incantevoli stronze

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    Incantevoli stronze - Armando D'Amaro

    Introduzione

    L’ultimo o penultimo o terzultimo giorno del mese di aprile, a un’ora imprecisata della mattina (la mia memoria inizia a perdere colpi) ricevo una telefonata dal mio editore, Marco Frilli.

    Dopo qualche preambolo incentrato su consolatori falsi complimenti sul reciproco inalterato fascino, mi chiede:

    Hai tempo per due chiacchiere?.

    Quando vuoi rispondo.

    Adesso cosa stai facendo?.

    Nulla di particolare.

    Allora potresti venire subito.

    Dopo qualche minuto (ho la fortuna-sfortuna di abitare a un tiro di fionda dal suo ufficio) siamo seduti allo stesso tavolo.

    Accesa una sigaretta entra in argomento: "Come saprai l’anno scorso ho editato Irresistibili bastardi, un libro di racconti scritti da donne, curato da Adriana Albini".

    Quel gran tocco di scienziata?.

    Precisamente.

    E allora? lo incalzo curioso.

    Vorrei affiancargli una versione maschile, anzi misogina... avresti voglia di occupartene?.

    Va bene rispondo senza pensarci un attimo.

    Allora hai carta bianca: contatta chi vuoi, fatti spedire i racconti, selezionali, cura l’editing, prepara le schede biografiche, l’introduzione e le bandelle di copertina, pensa a un titolo... quindi riversa tutto in un file.

    E tutto questo per quando? chiedo con un filo di ironia.

    Se riesci per i primi di settembre, così usciamo in libreria a novembre.

    Immaginando un divertimento garantito dalla novità me ne sono tornato a casa, ho preso qualche appunto e poi, alle 13.30 (questo me lo ricordo), ho fatto la prima telefonata; alle 14.30 avevo già un racconto in tasca!

    E il buon giorno si è visto effettivamente dal mattino: senza troppi problemi sono riuscito a raccogliere tutti quelli che seguono.

    Spero leggerli vi piacerà quanto a me ha dato soddisfazione incontrarne gli autori e rapportarmi con loro, senza complicazioni o impennate da primadonna... ma questo era scontato, no?

    Sono volutamente diversi per stile, genere e struttura, ma il filo conduttore è lo stesso: le donne, o meglio, il lato negativo o, per essere più precisi, i lati negativi che le caratterizzano.

    In questo volume illudono, uccidono, tiranneggiano, ingannano, tradiscono, rovinano... ma sempre (o quasi) con amore o per amore. Ed è questo che le rende, per quanto stronze, indispensabili.

    Il curatore

    Armando d’Amaro

    p.S. Tra di noi si nasconde un’infiltrata sotto pseudonimo: divertitevi a scoprirla.

    Claudio Balostro

    Gentiluomo

    1. Premessa. Ad uso d’una migliore comprensione

    Non credo d’essere un tipo all’antica.

    Voglio dire: niente per aspetto, modo di vestire o di esprimermi, insomma per atteggiamenti esteriori, mi distingue, credo, da qualunque altro maschio adulto di questa nostra promiscua epoca.

    Forse non sono più un ragazzino, ma conservo una certa implicita giovinezza matura e un fisico coltivato a sport e dissolutezze che mi consente, per un destino benevolo che non finirò mai di ringraziare, di piacere a donne assai più giovani di me.

    Mi permetto questo piccolo inciso presuntuoso, un po’ perché non ci conosciamo e spero vorrete tenerlo per voi, e molto perché possiate comprendere fino in fondo quello che sto per raccontarvi.

    Insomma, non mi considero un tipo all’antica. Eppure mi picco d’essere un gentiluomo, se vogliamo dare a questo termine non il significato d’appartenenza a una classe sociale di parassiti inguantati, ma il senso più alto d’un nobile atteggiamento verso gli accadimenti del mondo, verso le altre persone e in special modo le donne.

    Badate, questo non implica di per sé l’adesione a un retrivo paradigma morale, e meno che mai per quanto riguarda il sesso. Voglio dire, un gentiluomo, come lo immagino io, non è chiamato ad astenersi dalle più oscure perversioni, soltanto, quando decide di parteciparvi, deve farlo da gentiluomo.

    Il modo è il merito.

    Potrei fornire alcuni fantasiosi esempi, che incuriosirebbero i lettori più candidi e parrebbero forse stucchevoli a quelli più navigati, ma ancora non ho terminato questo pur necessario preambolo, e ogni racconto ha un suo limite destinatogli dalla propria intensità.

    Ancora non vi ho detto, infatti, che la mia prima maturità è stata segnata dalle interminabili discussioni con le mie amiche, ultimo baluardo resistente dopo il riflusso mondiale del femminismo.

    È una buona esperienza, avere delle amiche femministe. Lo dico senza ironia (perlomeno, senza quella non strettamente necessaria). Credo d’aver riflettuto su questioni importanti e profonde, e non escludo d’aver persino imparato qualcosa.

    Per dirla in estrema sintesi, ho vissuto a lungo felicemente, lieto d’essere un lussurioso gentiluomo femminista.

    Ma nella vita accadono talvolta cose, anche piccole e apparentemente insignificanti, che hanno il potere di farti ripensare agli schemi che ormai davi per scontati.

    2. Sensualità d’un convoglio

    Il treno partiva da Brescia all’1.48 di una notte gelida.

    Tornavo a casa, dopo un insulso impegno che ora neppure ricordo.

    La stazione era deserta, trafitta di luci troppo chiare per il buio incombente. Nessuno sul marciapiede, nessun altro disperato nel luce-ombra.

    Accesi una sigaretta, confidando nel calore rassicurante della brace e del fumo.

    L’altoparlante gracchiò l’imminente arrivo dell’Intercity 426 proveniente da Venezia Santa Lucia e diretto a Genova Brignole. Casa. La voce registrata era metallica, intermittente, assurdamente asettica. Mi avrebbe fatto piacere, in fondo, ascoltare il tono stanco e annoiato, ma umano, d’un ferroviere assonnato.

    Sbucò finalmente la sagoma nera del treno dal grigio d’una indecisa foschia. Si fermò, per me solo, nel notturno marciapiede deserto, in uno stridio di freni da Ottocento. S’aprirono le porte, forse dalla carrozza di testa scese la sagoma scura del capotreno.

    Nel corridoio della carrozza 5 le luci erano basse, i compartimenti chiusi come talami discreti. E anche qui, nessuno. Neppure una voce.

    Aprii la porta d’un compartimento a caso, il secondo, o forse il terzo. Sì, il terzo. Credo fosse il terzo.

    Dentro tutto era buio, sospeso. Attraverso le tendine abbassate penetrava qualche lama di luce dai fari della stazione, per perdersi nello spessore di tenebra dell’interno. Rimasi un attimo fermo, aspettando che i miei occhi si abituassero all’oscurità, con quella miracolosa capacità animale che consente loro di vedere ciò che prima era invisibile.

    Immobile, sentii la ferma, tiepida densità dell’aria, e un profumo sottile ma diffuso, un sentore di macchia e di fiori selvatici, di una aspra dolcezza femminea.

    Immobile, ascoltai il lieve rantolo d’un sonno di donna.

    Intanto, le ombre incominciavano a definirsi al mio sguardo. Ebbi un attimo di curioso stupore, perché tutti i sedili erano variamente ingombri di valige, bagagli o vestiti, salvo uno strano fagotto che si trovava nel posto accanto al finestrino.

    Dove siamo? chiese una voce femminile, morbida eppure sensualmente arrochita dal sonno. Ma non attese una mia risposta, perché il fagotto si srotolò in una forma flessuosa di donna, e un braccio sollevò per un solo attimo la tendina che oscurava la finestra.

    Un lampo di luce, uno solo, illuminò per un attimo due occhi verdi, sottili, deliziosamente felini.

    Brescia disse, rispondendosi da sola. siamo ancora lontani.

    Poi, finalmente accorgendosi della mia presenza, in un soffio musicale: Deve scusarmi, ho ingombrato tutto con i miei bagagli. Le dispiace sedersi accanto a me? Io non occupo molto posto.

    Non mi dispiaceva.

    Ho sonno disse, e c’è tempo prima dell’alba. Si acciambellò dolcemente nell’angolo verso la parete, con una lenta morbidezza, e nell’ombra pareva un gatto, o meglio un giovane puma, nella languida beatitudine del riposo.

    Sedetti nello spazio rimasto libero accanto a lei, cercando d’assumere un’aria il più possibile rilassata e naturale. Si udirono le porte del treno chiudersi, un fischio nel silenzio, poi il convoglio prese un lento abbrivio uscendo dalla stazione, verso la notte assoluta.

    Stavo fermo, la testa appoggiata, composto, gli occhi ora chiusi, ora aperti a una uguale eppure diversa oscurità, cercando di intravedere la forma circolarmente languida accanto a me. Respiravo, sempre più denso e sempre più avvolgente, quel profumo che cominciavo a trovare d’una sensualità torrida.

    Era la situazione ideale per le mie ambizioni di gentiluomo.

    Perché il gentiluomo, come un sincero uomo di Dio, non s’accontenta della correttezza dell’agire. No, egli ricerca, combattendo i propri mostri interiori, se non un’impossibile assenza di tentazioni, perlomeno una nobile purezza di intenzioni. Così, se era inevitabile essere avvolto in quest’aura di femminile tentazione, e se era, d’altro canto, ovvio che mai avrei tentato qualche goffo o volgare approccio, ecco che la mia parte femminista di gentiluomo mi costrinse a chiedermi se, oggettivamente, nutrissi un qualche interesse per quell’essere non come possessore di un conturbante corpo con annesso profumo, ma semplicemente come persona. Diciamo, per capirci, se avevo o meno interesse a conoscere il di lei parere sulla ciclicità della storia.

    Oggettivamente, non ne avevo.

    La risposta era encomiabilmente sincera, ma poneva un grosso limite etico alla concretizzazione di alcuni possibili e auspicabili sviluppi che avevo colpevolmente immaginato nel buio dondolio del treno.

    Seguendo il filo complesso del ragionamento, me ne uscii con una frase che doveva per forza suonare illogica alla mia sconosciuta vicina.

    Stia tranquilla, può dormire serena. Buonanotte.

    La vidi nel buio alzare un poco la testa, e un lampo di luce che entrò per un attimo fuggevole attraverso il finestrino, mi consentì di intravedere un sorriso, un tenero candore di denti.

    Però sei un tipo carino disse. Buonanotte anche a te.

    Trovai corretto non aggiungere altro, non provare ad attaccare un qualche discorso vacuo con un fine insincero.

    3. Inquieta immobilità

    Trascorsero due ore tra tentazioni e purezze, mentre il treno avanzava con una marcia diseguale nelle campagne deserte, fischiando ogni tanto nelle stazioni abbandonate alla nebbia, periodo nel quale alternativamente passai da una frustrante lucidità a uno stato di torbido dormiveglia. Mi assopivo di tanto in tanto, abbandonandomi a sogni, o quasi sogni, dai quali d’improvviso mi sradicava la mia coscienza gentilonesca.

    Non so se credete ai miracoli, al destino, alle congiunzioni astrali o a qualcosa del genere. Ma qualcosa di strano stava accadendo. Perché neppure a Milano Centrale entrò qualcuno nel compartimento, a reclamare un posto e a rovinare un’aria magica. Nessuno, neppure il fantasma di un conduttore.

    Lei continuava a dormire, con un respiro regolare, lento, che sollevava i contorni del suo corpo nel buio.

    Solo quando la carrozza venne sballottata nella manovra d’aggancio ebbe un gemito, e alzandosi un poco dalla sua tana sollevò un lembo della tendina.

    Così potei intravedere il suo viso, che mi parve dolce e regolare, e notai che indossava una specie di tuta intera, nera, morbida, che le consentiva di essere buio nel buio, morbido nel morbido.

    Siamo ancora a Milano! disse, e riabbassò la tendina. Poi, felinamente stiracchiandosi: Sto scomoda disse, ti dispiace se mi appoggio a te?.

    Non mi dispiaceva affatto.

    Il treno uscì rollando dagli scambi della stazione, e si gettò verso il sud.

    Io, seduto diritto e composto, sentivo la sua testa appoggiata alla mia spalla e la vicinanza eccessiva del suo corpo dal profumo notturno.

    Passai mezz’ora di tormentata beatitudine.

    A Pavia, come continuando a dormire, si lasciò scivolare lungo il mio petto, e posò la testa sulla mia coscia. Appoggiò una mano, con noncuranza, sul mio ginocchio, come una continuata, distratta carezza. Sentivo il contatto ormai intimo con il suo corpo, e il calore della sua guancia e della sua mano.

    Le luci della stazione illuminarono una ciocca di capelli chiari che le ricadeva in disordine sul viso. Ebbi, fortissima, la sensazione di sistemarla, carezzevolmente.

    Ma rimasi immobile, per via della circolarità della storia e di tutto il resto.

    È nell’affrontare gli ostacoli più impervi che emergono le vere qualità e le profonde convinzioni.

    4. Folgorazione

    Passarono i minuti, con una lentezza ferroviaria; il treno arrotò chilometri su chilometri, fino a imboccare la galleria dei Giovi, verso casa. Ci saremmo lasciati alle spalle le nebbie della pianura, il buio della notte, i turbamenti dei sogni.

    Ero esausto.

    Quando già avevamo oltrepassato le ultime coste dei bricchi, la mia compagna si sollevò, con un sospiro di soddisfazione, come si alzasse dal più morbido dei letti, e aprì del tutto la tenda all’alba che stava arrivando.

    Ora, finalmente, era in luce e potei vederla bene: la sua bellezza mi parve dolorosa.

    Ora disse, siamo quasi arrivati. È stato un bel viaggio. Per favore, vuoi aiutarmi con i bottoni?.

    E così dicendo si alzò, con un gesto di allegria, e si pose di fronte a me, subito voltandosi con consapevole noncuranza.

    La tuta era completamente sbottonata e lasciava scoperta e nuda una schiena flessuosa e ben modellata. Il bianco della sua pelle spiccava assoluto nel contrasto con il nero della stoffa.

    In basso, dove la linea della colonna s’incurvava dolcemente verso la pienezza intravista delle natiche, due fossette deliziosamente insopportabili segnavano un limite e un confine.

    Alzai le mani, lentamente, verso i primi bottoni, quelli più vicini all’abisso e alla perdizione.

    Ma quelle, come se avessero una loro propria volontà, continuarono il movimento, più su, più avanti, fino a fermarsi nel gesto d’una carezza sensuale a pochi millimetri dalla pelle di lei.

    Non so dire quanto sia durato quel gesto immobile. Forse pochi impercettibili istanti, forse molto, molto di più. Non so se lei si sia accorta di questa sospensione del tempo e del desiderio. Quello che è certo è che non disse nulla, non si mosse. Aspettò.

    Fu una grande lotta.

    Ma alla fine le mie dita, gentili ma corrette, afferrarono i bottoni più in basso, quelli più vicini all’abisso e alla perdizione, e li chiusero in un gesto tranquillo, come non ne avessero neppure un rimpianto.

    5. Triste epilogo

    Il treno si avvicinava a Genova; si cominciava a vedere il mare e i traghetti della Tirrenia nel porto indolente del primo mattino.

    Scendo a Principe disse. Grazie della compagnia. E sorrideva d’un sorriso che non sapevo se dolce o beffardo.

    Anch’io scendo qui mentii.

    La aiutai a trasportare il suo disordinato bagaglio fino ai taxi di piazza Acquaverde.

    Solo qui compresi che non potevo lasciare che se ne andasse così.

    Aspetta supplicai. Andiamo insieme a fare colazione. Vorrei parlare un po’ con te.

    Ero sicuro che prima della fine del cappuccino avrei saputo tutto della sua opinione sulle teorie vichiane.

    No rispose, sempre con quel sorriso che ancora mi tormenta. Ora è tardi.

    Aspetta supplicai. "Dimmi come

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