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Il conto da pagare
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Il conto da pagare

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About this ebook

Maria Viani, mentre passa le vacanze nel piccolo paese sull'Appennino, con il marito Francesco, il cane Lampo, la gatta Birba e una famiglia di cinciallegre, si trova catapultata nella crisi sentimentale della sorella Anna. A turbarla ulteriormente è la scoperta del cadavere del nuovo compagno della sorella, ucciso con una modalità che somiglia a una vera e propria esecuzione. Un delitto inspiegabile che la porta a indagare nella Genova degli anni '70 scossa dalle azioni del terrorismo. Maria rivive l'atmosfera di quegli anni di piombo ricostruendo gli avvenimenti del passato e giungendo alla logica soluzione del caso.
LanguageItaliano
Release dateMar 25, 2013
ISBN9788875638733
Il conto da pagare

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    Il conto da pagare - Maria Teresa Valle

    Personaggi principali

    Maria Viani: scrittrice e investigatrice dilettante

    Anna: sorella di Maria

    Laura: nipote di Maria

    Francesco: marito di Maria

    Arnaldo: compagno di Anna

    Umberto: ex-marito di Anna

    Piera: postina

    Ettore Carretta Carta: cercatore di tartufi

    Giorgia: amica di Anna

    Un personaggio anonimo, Rocco, Tony, il Pivello, il terzo uomo, Angelo, Renzo, Cino, Roby: membri di Avanguardia Proletaria

    Antonello: membro della colonna torinese

    Skovich: l’addestratore

    Giacomo Perfetti detto Mezze maniche: il tipografo

    Camillo: padre del Pivello

    Italo Tagliaferri: dirigente Ansaldo

    Dina: moglie di Italo Tagliaferri

    Giovanni: figlio di Italo Tagliaferri

    Gemma: una vecchia signora

    La donna del web

    I personaggi e le situazioni descritti in questo libro sono del tutto immaginari. Nel caso fossero simili a persone o fatti reali la coincidenza è da considerarsi casuale e involontaria.

    Ai giorni nostri - 1

    Mi sono svegliata presto stamattina. Gli uccelli cantano a squarciagola in questa alba di tarda primavera. Nel silenzio della campagna il loro canto buca l’aria. Mi è arrivato attraverso la finestra aperta, insieme a un sentore di miele. Profumo di ginestre.

    Seduta sotto l’unico olmo sopravvissuto, sorseggio il primo caffè della mattina. L’aria è fresca e la terra non ha ancora dismesso le perle del vestito da sera. Dormono ancora tutti, uomini e animali della mia famiglia. Posso stare tranquilla, centellinare il mio smarrimento, elaborare il mio trauma.

    Non è stata una bella sorpresa trovare Arnaldo in quello stato. Davvero non è stata una bella sorpresa.

    Ero scesa a genova per un giro di commissioni e avevo pensato di passare per un saluto. Sapevo che apriva l’ufficio molto presto. Evidentemente non ero la sola a saperlo. Chi mi aveva preceduto, però, non lo aveva fatto per lasciare un saluto, ma per ficcargli una pallottola in faccia. Una vera e propria esecuzione.

    Lo avevo trovato così, seduto alla sua scrivania, come se stesse lavorando. Difficile credere a quell’immobilità innaturale: il capo leggermente reclinato, i gomiti appoggiati al piano del tavolo, il viso, devastato dallo sparo, ridotto a una poltiglia rossa. E il sangue, schizzato tutto intorno come in un film di guerra.

    Il grido mi era salito da dentro, ma si era fermato nella gola, come un boccone male ingoiato e aveva rischiato di soffocarmi. Le gambe erano diventate di piombo e il cervello si era rifiutato di funzionare.

    C’era voluto un po’ di tempo, non saprei dire quanto, prima che un barlume di buon senso tornasse a illuminarmi la mente e il sangue, il mio, riprendesse a irrorare i muscoli e a permettere loro di muoversi.

    Cosa dovevo fare?

    Stupida! Che stupida! Dovevo telefonare alla polizia, è logico.

    113? No, no 114. O forse 115?

    118 no, sicuramente. Quello è il numero della guardia medica. Certamente non era quello di cui aveva bisogno Arnaldo. In fondo lui non aveva più bisogno di nulla, ma c’erano delle cose che andavano fatte.

    Ho chiamato il 113. Mi sembrava che fosse il numero giusto.

    E infatti mi hanno detto che sarebbero arrivati subito. Che non mi dovevo muovere da lì.

    E chi si muove?

    Mentre aspettavo avevo in mente Anna: E ora cosa le dico!.

    Marzo 1979 - Felice

    Cino si affaccia alla finestra, fa l’ultimo tiro e lancia la cicca in strada. L’arco luminoso va a spegnersi sul marciapiede. È quasi buio, la sera di un giorno come tanti. I lampioni sono già accesi sul traffico del rientro. Il bus vomita gente che torna nel quartiere dormitorio dopo una giornata di lavoro. Anche Cino è appena rientrato dal turno in fabbrica. La fatica è un pugno in mezzo alle reni, dove si aggruma nei muscoli e trae sollievo solo dallo scorrere dell’acqua calda sulla schiena. Quello che ci vuole è una bella doccia, ma il bagno è occupato. La convivenza con gli studenti, con cui divide l’appartamento, non è pacifica; a cominciare dagli orari. Vanno a letto quando lui si alza per andare al lavoro e si svegliano quando torna. Fanno baldoria quando vorrebbe riposare, lasciano la cucina in condizioni pietose.

    Si sdraia sul letto, ma con la riunione che lo aspetta non può rischiare di scivolare nel sonno. Si alza e passeggia nervosamente nel corridoio.

    Una biondina esce dal bagno ridacchiando. Stringe intorno al corpo un asciugamano tentando inutilmente di contenere seno e natiche che esibisce allegramente sotto il suo naso, mentre passa, prima di infilarsi nella camera di uno degli studenti.

    Finalmente Cino può farsi la doccia. Quando ha appena terminato di insaponarsi, un getto di acqua gelida lo fa rabbrividire: l’acqua calda è finita. Imprecando allunga la mano verso l’asciugamano. Lo avvolge intorno ai fianchi e riattraversa il corridoio.

    – Ehi! Quell’asciugamano è mio.

    Una bruna alta e prosperosa, comparsa all’improvviso, gli rivolge uno sguardo, tra il seccato e il divertito, indicando l’indumento.

    – Se lo vuoi te lo do, ma, ti avverto, sotto sono nudo!

    Non ha voglia di scherzare, è incazzato e in imbarazzo, il suo tono è seccato.

    La ragazza ci resta male, fa un gesto con la mano e si rifugia in cucina.

    Cino la raggiunge di lì a poco. Vuole mangiare qualcosa, prima di andare alla riunione. E vuole anche scusarsi per il gesto di poco prima. Ha in mano l’asciugamano da restituire.

    – Mi chiamo Felice, per gli amici Cino – dice allungando la mano.

    – Angela.

    – Scusa per prima, ma qui c’è troppo movimento per i miei gusti. Alle volte perdo la pazienza.

    – Capisco. Anzi, scusa tu. Sono venuta con la mia amica che conosce Stefano. Il nostro scaldabagno è rotto e lui ci ha offerto una doccia qui da voi.

    Cino ha messo su l’acqua per la pasta.

    – Studi?

    – Terzo anno di architettura.

    – Mangi con me?

    – Non vorrei disturbare.

    – Non disturbi.

    – Intanto aspetto Giulia...

    – La biondina che si è infilata nella camera di Stefano?

    – Lei. E tu cosa fai?

    – L’operaio.

    – E ti piace?

    – Figurati! Al mio paese non c’è lavoro. A me non andava di farmi mantenere dai miei. Così sono venuto su e ho preso il primo posto che ho trovato.

    – Da dove vieni?

    – Calabria

    – Non si direbbe dall’accento.

    – Sono qui da cinque anni.

    – E non sei ancora riuscito ad avere una casa tutta per te?

    – Manca poco.

    – Allora, buon appetito.

    I due mangiano gli spaghetti, senza parlare, seduti al tavolo, uno di fronte all’altro. La ragazza ogni tanto fa filtrare tra le ciglia uno sguardo. Lui tiene gli occhi incollati al piatto, come se non ci fosse altro al mondo.

    Quando ha finito di mangiare si alza.

    – Io devo andare. È stato un piacere. Se hai bisogno di fare la doccia, non fare complimenti.

    – Grazie.

    La ragazza sorride.

    Cino pensa che è proprio bella.

    Marzo 1979 - Roberta

    Dalla finestra entra una luce pallida. È un giorno come tanti. Roberta si alza dal letto. Raggiunge il bagno camminando con gli occhi semichiusi e tastando il muro come i ciechi. Ha il risveglio difficile. Insieme a lei si sveglia il mostro rabbioso che ha dentro. Una bestia privata di qualcosa che qualcuno le ha negato. Per evitare la madre, si chiude nel bagno. Si siede sulla tazza e aspetta che il cervello, cominciando a funzionare, renda più accettabile la sua giornata.

    Si spruzza il viso con l’acqua fredda e si guarda allo specchio. Gli occhi sono ancora appannati, ma il sangue comincia a circolare, l’ossigeno ad arrivare, la coscienza a tornare. Lo specchio le rimanda l’immagine di una ragazza comune, non fosse per quegli occhi grandi e obliqui che le danno un’aria quasi esotica. Gli zigomi alti aggiungono personalità al viso dove naso e bocca sono anonimi. Soprattutto gli occhi brillano di una luce famelica, selvaggia, che ipnotizza gli uomini e preoccupa la madre.

    – Roberta, sei lì?

    La donna bussa alla porta del bagno.

    – Sì. Cosa vuoi? – risponde sgarbatamente.

    – Ti ho sentito alzare... Ti ho preparato la colazione.

    – Lo sai che la mattina non ho fame.

    – Ma devi mangiare qualcosa.

    Apre di scatto la porta del bagno.

    – Mamma, piantala di trattarmi come una neonata. Mangerò quando avrò fame.

    – Cercavo di essere gentile. Siamo solo io e te in questa casa. Da quando tuo fratello abita con la sua ragazza non lo vedo più e tuo padre è sempre via...

    – Lascia stare la solita lagna, per favore. Federico ha fatto bene a togliersi dalle palle. Appena posso lo faccio anch’io. E, quanto a papà, sapevi quello che ti aspettava sposando un militare.

    – Sì, sì, hai ragione. E sono contenta che abbia fatto una bella carriera. Ma per me è stata dura.

    – L’abbiamo condivisa quella vita, non ricordi? In quanti posti abbiamo abitato? Quante caserme abbiamo girato? Quante scuole ho dovuto cambiare? Quanti amici lasciare?

    – Non ti arrabbiare. Dicevo così per dire.

    – Parli sempre a vanvera, come se quella vita l’avessi fatta solo tu. Sin da quando ero bambina ho visto solo caserme, uomini in divisa e armi. La nostra vita era disciplinata come se fossimo anche noi dei militari. E adesso lasciami stare che devo andare a vestirmi.

    – Sì. Hai ragione, scusa. Allora il caffè e latte non lo vuoi? Ti avevo preparato anche una fetta di torta. L’ho fatta ieri. È buona.

    – Mangiatela tu.

    – Già. È quello che faccio.

    – Cosa hai detto?

    – Niente. Niente. Io cucino, cucino, poi nessuno viene a cena e quello che ho cucinato resta lì. Allora io che faccio? Mangio. Mangio e ingrasso. Ingrasso e mangio. E tuo padre non viene a casa quasi mai. Cosa credi che non lo sappia che va dalla sua amante? Non mi va bene. Certo che non mi va bene, ma cosa posso fare? Non posso lasciarlo. Non ho un lavoro. Non ho più nessuno della mia famiglia. Alla mia età dove vuoi che vada? Ora che non lo seguiamo più in giro per il mondo e che abbiamo una casa, me ne sto qui. A cucinare e a mangiare. A mangiare e a cucinare.

    – Se parli mentre sono in bagno non sento quello che dici.

    – Non ti preoccupare. Niente di importante. Parlavo da sola... Esci? Dove vai?

    – Mamma, piantala di farmi queste domande. Guarda che forse stasera non torno. Ciao.

    Roberta sta per chiudere la porta.

    – Anche tu!

    – Come?

    – Niente. Niente.

    Ai giorni nostri - 2

    Anna è mia sorella. Una sorella piccola. Almeno lo era. La mia sorellina piccola. Amore e odio per tutta l’infanzia. Ora solo amore.

    Provo un senso di protezione nei suoi confronti, anche se spesso mi fa incazzare. È impulsiva, irrazionale, insensata, almeno quanto io sono razionale e lucida. Fredda, ma non è vero. E lei lo sa.

    Arnaldo è il suo compagno, il suo nuovo compagno. Ha lasciato il marito pochi mesi fa. Una separazione burrascosa, nella quale Anna mi ha tirato dentro con tutti i piedi.

    Tutto è cominciato dopo la crisi di Laura. La mia bella e adorata nipote era arrivata a casa mia in preda a un malessere che aveva sconvolto la sua vita di studentessa di prima liceo. Con molta pazienza e un po’ di determinazione avevo scoperto che il suo stare male dipendeva dall’essere caduta in una rete di pedofili senza scrupoli. Questi cacciatori di immagini pedo-pornografiche si servivano dei compagni più grandi per indurre le ragazzine a contatti sessuali in cambio di pochi euro o di ricariche per il cellulare. Filmate e ricattate non avevano il coraggio di uscire dal giro, finché una di loro aveva messo in atto un gesto estremo togliendosi la vita. Da quel momento l’indagine della polizia aveva permesso di individuare i responsabili e mettere fine alla faccenda. Se Laura e le sue compagne non porteranno i segni di questa esperienza sarà solo per l’amore dei loro genitori e la competenza di un gruppo di psicologi.

    Anna in quel frangente ha assicurato alla figlia il suo appoggio, dedicandosi totalmente a lei; ma quando tutto è finito e Laura è partita per un lungo soggiorno all’estero, si è trovata a fare i conti con la propria crisi, solo momentaneamente accantonata.

    Mi aveva scritto lunghe lettere deliranti, che mi avevano gettato nel panico.

    La prima è arrivata in un mattino di pioggia che l’orto beveva avidamente dopo due giornate di caldo tropicale in anticipo sull’estate. Ero felice di vedere le verdure rialzare la testa dopo la dura prova alla quale erano state sottoposte. Se ne stavano lì a prendersi la pioggia che scorreva salvifica sulla superficie delle foglie.

    Non era altrettanto contenta della pioggia la postina, che sale raramente a Sezzella, spesso, come in questo caso, per consegnare un’unica lettera. Nel piccolo paese non restano ormai che pochi abitanti. E nessuno di loro riceve molta posta, tranne le bollette e qualche volantino pubblicitario.

    La postina, infagottata in una cerata che la faceva sembrare ancora più corpulenta, era scesa dalla macchina gialla e blu e aveva infilato la lettera nella mia cassetta.

    L’avevo avvisata che non lo doveva fare, ma se ne era evidentemente dimenticata.

    Ero scesa più in fretta che potevo richiamata dallo strepito proveniente dalla cassetta. Avevo fatto appena in tempo ad acchiappare la busta, lanciata fuori attraverso la fessura.

    Mamma cincia aveva messo in atto una efficace strategia difensiva non avendo gradito quell’inaspettato oggetto piombato sulla testa dei suoi futuri piccoli, impossibilitati a difendersi, ancora chiusi nel loro uovo.

    – E brava mamma cincia. Per fortuna c’eri tu dentro il nido a difendere la tua prole.

    E ancora pensando alle dodici uova depositate in quel nido insolito, avevo cominciato a leggere.

    "Cara Maria,

    ti scrivo perché ho bisogno di confidarmi con qualcuno. E tu sei l’unica persona che mi vuole abbastanza bene e che è in grado di capirmi. Almeno lo spero. Lasciami sfogare, ti prego, abbi pazienza. Voglio spiegarti cosa mi passa per la testa.

    Non ci ho mai pensato. Forse neppure tu. Eppure è così logico. È così naturale. La trasmissione è diretta. Dalle labbra, dalla lingua attraverso fibre nervose sensibilissime sale subito al cervello. Per poi scendere come una colata di lava, portando calore e foga giù, giù fino alla pancia. Ecco a cosa serve un bacio.

    Sentire dentro la bocca un nocciolo così caldo dà l’innesco al misterioso processo del desiderio. Una sensazione che vorrei ancora sentire. Che quasi non ricordo più.

    Da tempo, quando Umberto mi bacia, e solo quelle poche volte che lo fa, sento in bocca un pezzo di carne morta. Tiepida e molliccia. Inanimata e incapace di animare. Mi mette una tale tristezza che a tutti e due manca il coraggio di continuare. Certo sarà anche colpa mia. Capisco che dipende anche da me. Forse l’abbigliamento, i tre o quattro chili che ho accumulato sul girovita. E magari anche la pelle che va cedendo qua e là e mostrando un po’ di buccia d’arancia sulle cosce. Qualche ruga. Un po’ di cellulite, neanche troppa.

    Ma soprattutto non aiuta la mancanza di entusiasmo verso le effusioni che non siano semplici espressioni di affetto e solidarietà. È passato così tanto tempo! I gesti si sono ripetuti così tante volte da diventare scontati. Automatici. Svuotati da ogni contenuto erotico. Passata la passione che supera l’inesperienza. Passata persino l’esperienza che rende superflua la passione. Passato tutto quello che poteva passare non resta che l’affetto. E forse può bastare. È bastato.

    Poi un giorno non è bastato più.

    Non so dire quando, né come e perché.

    È successo.

    Forse è questa primavera che non si decide ad arrivare, mentre il sangue la desidera. Questo sole che si fa aspettare, mentre la pelle lo vuole. Questa aspettativa tradita che smuove un desiderio più profondo, più intimo. Hanno fatto scatenare una crisi di astinenza che tende i nervi fino al limite del parossismo.

    E sto male. Per questo mi sono decisa a scriverti.

    Non è solo un disagio interiore. È un malessere fisico che non avevo mai provato e che mi riempie di sgomento. Mi capita all’improvviso, mentre sto facendo cose di nessuna importanza, mentre lavo i piatti, mentre faccio la spesa, mentre guardo il cielo attraverso i vetri della finestra. A un tratto mi copro di sudore gelido, mi tremano le mani e mi sento incapace di muovere un passo. Sono convinta che morirò. Che il cuore non riuscirà a reggere il martellare furioso dei suoi battiti. Le arterie scoppieranno sotto la pressione del sangue. I polmoni prenderanno fuoco a causa del calore che mi brucia in petto. Le ginocchia si piegheranno sotto il peso del macigno che porto sulle spalle. Poi così come è venuto il malessere passa lasciandomi esausta e spaventata. Mentre non si placa l’infelicità che mi divora.

    Mi domando cosa mi stia succedendo. Cos’è questa smania che all’improvviso mi prende e mi rende inquieta? Cos’è questo desiderio ignorato, dimenticato, non più frequentato, che salta fuori ora? Così fuori luogo. E mi costringe a ricordare. E mi costringe a guardarlo in faccia. A farci i conti.

    Neppure so più il sapore che avevano i baci. E prima ancora, la sottile eccitazione dell’aspettativa. Il tormento del cuore nel dubbio. Il piacere di scoprire che lui c’è. È venuto all’appuntamento. E

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