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Indagine al Giambellino: Un delitto di periferia
Indagine al Giambellino: Un delitto di periferia
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Indagine al Giambellino: Un delitto di periferia

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About this ebook

Un ex poliziotto condannato a vivere con un proiettile in testa, ma che grazie a quella ferita ha guadagnato le capacità di un mentalista. Un omicidio difficile da risolvere, in una Milano di periferia che annaspa tra passato e presente. Un giallo che si tinge di nero, scavando nei problemi di una città pronta a esplodere: un’indagine a metà tra Conan Doyle e Maurizio De Giovanni, con un pizzico di Gaber e di buon senso.
A Milano, nelle case popolari di via Bruzzesi, nel quartiere Giambellino, viene ritrovato il cadavere di un pensionato, Aurelio Corona. Il commissario capo incaricato dell’indagine, Antonio Tasca, anche a causa della diffidenza di chi abita in quei casermoni, fa fatica a raccogliere indizi. Si rivolge quindi a un suo ex sottoposto, Michele Russolani detto il Russo, che oggi gestisce un bar poco distante da dove è avvenuto il delitto. Michele è stato congedato dalla polizia per colpa di una ferita che, anni prima, lo ha quasi ucciso e che gli ha lasciato un brutto ricordo: una pallottola nel cervello, in una zona dove non è operabile e che, se si spostasse anche di pochi millimetri, potrebbe ucciderlo all’istante. Ma quello non è l’unico regalo che ha ricevuto: nell’agguato il Russo ha perso la moglie e da allora sua figlia non gli rivolge più la parola. E non è tutto. Michele è restio ad aiutare il suo ex capo, perché ha molti segreti da nascondere e un carico di rabbia e rancore che lo tormenta. Ma è anche un uomo che crede ancora nella giustizia e nella verità.
LanguageItaliano
Release dateApr 19, 2017
ISBN9788869431968
Indagine al Giambellino: Un delitto di periferia

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    Indagine al Giambellino - Matteo Di Giulio

    UNO

    1

    A denti stretti.

    Il destino di un uomo si decide così. A denti stretti. E a lui, che stava per morire, non importava granché. L’unico vero fastidio era l’attesa dello sparo. Un formicolio alla base del collo, come una puntura di zanzara. Si limitava a fissare quell’occhio nero puntato contro di lui. Il primo istinto fu di alzare le mani: più per proteggersi che per arrendersi; ma sentì le braccia come se fossero zavorrate. Lo sforzo gli strappò un gemito.

    La fiammata, invece, lo proiettò nel buio.

    Una detonazione. Un lampo di dolore.

    Michele Russolani si svegliò con gli occhi sbarrati e un urlo strozzato in gola. In sottofondo si sentiva il rumore lontano di diverse sirene.

    «Un incubo», biascicò, «era soltanto un incubo».

    Si voltò verso la radiosveglia sul comodino. I numeri rossi lampeggiavano nell’oscurità.

    «Le cinque e tre quarti».

    Si passò una mano sulla fronte: era madida di sudore. Si guardò intorno, osservò le lenzuola. Sembrava che qualcuno le avesse strappate dal materasso.

    «Anche stanotte».

    Michele non smise di sospirare, mentre si alzava.

    Il silenzio della casa avvolse i suoi movimenti da automa. L’unico filo di luce filtrava, in cucina, attraverso gli scuri di legno. Di fronte al lavello, l’uomo si versò un po’ d’acqua. Bevve, inspirò profondamente. Andò al frigo, prese due arance, le tagliò a metà. Da un cassetto tirò fuori un vecchio spremiagrumi d’acciaio.

    Un rumore alle sue spalle lo bloccò.

    Si mosse rapido, fino alla porta d’ingresso, e la spalancò, senza nemmeno controllare allo spioncino.

    La ragazza, colta di sorpresa, lasciò cadere ciò che aveva in mano.

    «Il suo… giornale», balbettò.

    Michele si chinò a prendere la copia del Corriere della Sera. Resosi conto di essere in pigiama sul pianerottolo, cercò di sdrammatizzare la situazione e si sforzò di sorridere, ma non dovette riuscirgli un granché bene, perché lei arretrò.

    «Grazie», le disse, ma la ragazza s’era già incamminata giù per le scale.

    Mentre chiudeva la porta di casa Michele diede una scorsa alla prima pagina del quotidiano.

    «Un’altra crisi di governo», mugugnò.

    Stava per tornare alla sua spremuta quando udì la radiosveglia. La sigla del notiziario delle sei lo strappò definitivamente ai residui di sonno. Ascoltò i primi titoli, quindi alzò il volume e si rifugiò sotto la doccia.

    Orrore nel comasco, stava annunciando lo speaker, un imprenditore si impicca nel suo ufficio. Nel biglietto d’addio l’uomo, oberato dai debiti, incolpa il fisco di averlo costretto al gesto disperato.

    Sotto l’acqua gelida, mentre si insaponava, Michele eseguì il suo rituale mattutino. Andò a cercare con l’indice l’increspatura alla base del cranio. Sfiorò con il polpastrello il diametro della piccola cicatrice. Non provava più alcun dolore, ma era sufficiente il ricordo di quell’incubo che lo tormentava ogni notte per provocargli un brivido lungo la schiena.

    La voce metallica non si arrestò: Milano. Arrestati stamattina dai carabinieri alcuni esponenti della ’ndrangheta collegati alla famiglia calabrese dei Carone. Indagati anche, nell’ambito dell’inchiesta, due assessori accusati di corruzione e associazione a delinquere di stampo mafioso.

    Una volta che si fu asciugato, Michele si rimirò nello specchio.

    «Stai mettendo su pancia».

    Sottolineò il concetto con un paio di sonore pacche sul ventre. Da mesi si proponeva di rimediare, ma era schiavo di una pigrizia che, dentro di sé, sapeva di non voler debellare.

    Quando aprì le finestre il gelo invase la cucina; poi fu il turno degli scuri in legno e il pallido sole dell’alba gli augurò un buongiorno sommesso. Michele si perse a fissare l’orizzonte di tetti bassi che si stagliava di fronte a lui. Le sirene di poco prima avevano cessato di ululare.

    «Oggi piove», disse, alzando gli occhi al cielo di piombo. O forse quel colore era soltanto colpa dell’inquinamento, pensò, osservando i comignoli che buttavano fuori fumo a pieno ritmo.

    Tornato in camera da letto, sistemò alla buona le lenzuola, quindi si vestì. Jeans, una camicia di flanella e un maglione liso sui gomiti che non si decideva a buttare via.

    Erano le sei e venti quando uscì da casa.

    Scese tre piani e tirò su la serranda del bar Gaber.

    2

    Nel Giambellino, confine sud ovest di Milano, la gente cominciava a uscire di casa molto presto. Era un quartiere popolare, sovrappopolato di lavoratori e di immigrati. Alle sei e mezza, formiche ordinate in file parallele, i passanti si affrettavano sui marciapiedi, chi sbadigliando, chi imprecando. Gli autobus e le macchine s’incolonnavano lungo le strette vie della periferia.

    Il primo cliente entrò nel bar alle sei e trentuno.

    «Ciao Mohammed, come va?».

    «Si tira avanti. Mi fai un caffè?».

    L’uomo, un egiziano alto e secco, fu subito raggiunto dal suo compagno di cantiere, che era pugliese.

    «Andiamo o facciamo tardi».

    Mohammed cercò nella tasche gli spiccioli per arrivare agli ottanta centesimi del caffè.

    «Me li dai domani», gli disse Michele.

    Lo osservò salire sul Ducato bianco, pieno d’ammaccature e graffiti. Il pugliese, al volante, si era acceso la prima delle venti sigarette della giornata. «Muoviti che ci rubano il posto».

    Michele controllò l’orologio. Le sei e trentasette.

    Ritirò la tazzina sporca. Con la coda dell’occhio controllò la temperatura della macchina del caffè, quindi cominciò a ordinare sul piano di fronte a sé una serie di piattini insieme ai cucchiaini; e a pulire l’espositore dei cornetti che stavano cuocendo nel forno.

    La prima ondata di clienti entrò insieme alla cameriera.

    «Sono in ritardo, scusami», gli disse Nina.

    Subito corse dietro al bancone, si tolse la fede e s’infilò il grembiule.

    «Cosa vi porto?», disse, e cominciò a prendere le ordinazioni.

    Michele si mise alla macchina, mentre Nina memorizzava e gli riportava la sequenza di cappuccini, caffè, marocchini, macchiati, corretti, decaffeinati, con e senza schiuma, tiepidi, caldi, chiari, con latte freddo, cacao o cannella.

    Un’ora e mezza più tardi, l’orda era stata accontentata. Il bar Gaber cadde di nuovo nel silenzio. L’unico rumore, fuori, era quello del traffico.

    «Il peggio è passato», disse Nina. «Dov’è Battista?».

    «Oggi arriva un po’ più tardi», rispose Michele.

    Preparò un espresso per sé e uno per la donna. Sul piattino di quello di Nina appoggiò uno speculoos.

    «Tu mi vizi», disse la donna. Scartò il biscotto al burro. «E mi vuoi far ingrassare».

    Michele le sorrise. Passò lo straccio sul bancone.

    «Le donne devono avere un po’ di carne», s’intromise uno dei clienti rimasti, seduto in un tavolo d’angolo a leggere il giornale, «ché a noi uomini non ci piace toccare le ossa». Era uno degli abituali, uno dei tanti vecchi che popolavano il Giambellino da cinquant’anni, fedeli al quartiere in cui erano nati e cresciuti.

    «Se ti sentisse parlare così tua figlia», disse burbero un uomo sulla soglia. Arrivava quasi a toccare con la testa lo stipite della porta. «E poi ricordati, ciaparàt, che il giorno in cui Nina lascia suo marito la precedenza è nostra».

    La cameriera arrossì. Prese una scopa e spazzò via le briciole davanti al bancone. Gettò un’occhiata di sfuggita a Michele, quindi al nuovo entrato. A colpire, di lui, non era soltanto la stazza, quanto il fatto che pur essendo oltre la sessantina il suo corpo sprigionava ancora così tanta energia.

    Michele gli allungò una tazzina fumante. «Ecco il tuo caffè, Battista».

    «Grazie, Russo».

    Un metro e novantacinque e il fisico di un trattore: la sua presenza riempiva il locale. Sfoggiava un cranio liscio e lucido: soltanto i folti baffi bianchi testimoniavano la sua vera età.

    «Che si dice?».

    «Nulla di che», rispose Michele.

    Battista annuì e sorseggiò il caffè. «Niente nuove, buone nuove».

    «Che ci prepari oggi?», gli domandò a voce alta il cliente di prima, alzando lo sguardo dal giornale.

    «Minestra di fagioli e brasato», disse Battista, dopo aver riflettuto un po’. «Ti sta bene?».

    «Cibo da caserma. Semplice, ma buono. Mi sta bene, sì. Tienimi una porzione da parte che torno dopo».

    L’uomo ripiegò il giornale e se lo infilò sottobraccio. Il suo cagnolino, un piccolo bastardino dal pelo nero che si era accovacciato sotto al tavolino, si svegliò sbadigliando. Battista gli concesse una carezza, poi andò in cucina e si mise ai fornelli.

    In quel momento entrò un’altra persona.

    «Cosa le porto?» chiese Nina. Appoggiò la scopa al muro e si affrettò dietro al bancone.

    «Niente».

    La voce nel nuovo arrivato era molto roca, quasi afona; ma Michele la riconobbe al volo. Si voltò e quando guardò l’uomo in volto impallidì. Gli occhi dello sconosciuto brillarono per un momento.

    «Cercavo proprio te, Russo».

    3

    La voce suonò perentoria.

    «Seguimi».

    L’uomo obbedì. Camminò a testa china, seguendo il dito dell’altro, che gli indicava una sedia.

    «Mettiti là».

    L’uomo non fiatò. Non poteva permetterselo. Non con una pistola puntata contro.

    «Se si tratta di soldi…».

    Lo sconosciuto bloccò sul nascere quel tentativo di protesta.

    Si avvicinò e colpì il suo prigioniero con la canna della pistola. Il rumore sordo dell’acciaio contro l’osso risuonò nella stanza.

    «Non fiatare».

    Lo sconosciuto appoggiò l’arma sotto il mento dell’uomo, quindi la spinse verso l’alto.

    «Guardami».

    Sulla testa del prigioniero stava sbocciando un ematoma. Due lacrime rigarono le sue guance, facendosi strada lungo i peli ispidi della barba.

    «Sai chi sono?».

    L’uomo negò, scuotendo la testa. Quel movimento gli strappò un gemito.

    «Ascoltami bene, allora».

    Lo sconosciuto parlò a lungo. Mentre raccontava la sua storia, gli occhi dell’uomo si spalancarono sempre di più.

    «Io non volevo», lo supplicò quando l’altro ebbe finito.

    Lo sconosciuto alzò la pistola e la poggiò sulla fronte dell’uomo.

    «Inginocchiati».

    L’uomo, tremando, obbedì.

    «Saresti dovuto morire molto tempo fa».

    Una macchia scura si allargò all’altezza del cavallo dei pantaloni dell’uomo. Stava piangendo.

    Anche la mano dello sconosciuto tremava. Dovette tenere la pistola ferma con l’altra.

    «Mi dispiace», biascicò l’uomo. Provò ad alzare le mani verso l’arma.

    Fu inutile. Lo sconosciuto premette il grilletto.

    4

    «Sono chiusi nel retro da più di un’ora», disse Nina.

    Battista, che era stato cacciato dalla sua cucina per fare spazio ai due, si limitò a incrociare le braccia muscolose e a sbuffare.

    «Chi è quell’uomo?» chiese la cameriera.

    «Non ne ho la più pallida idea».

    «Hai visto la faccia di Michele?».

    Battista non disse nulla.

    «Forse ha bisogno del nostro aiuto».

    «Il Russo sa quel che fa», disse il cuoco.

    «Lo sai che non mi piace quel soprannome», borbottò Nina.

    «A lui sta bene, quindi sta bene anche a me».

    L’anziano con il cagnolino entrò di nuovo nel bar e li strappò ai loro pensieri.

    «Scusate. Ho dimenticato il cappello».

    Nina, che lo aveva messo da parte, gli disse: «Glielo prendo subito, signor Ugo».

    «Ti fai un bianco con me, Battista?».

    Il gigante stappò un Ribolla Gialla e ne versò per entrambi.

    «Hai saputo?», disse il vecchio.

    Battista gli rivolse uno sguardo interrogativo.

    «Di cosa è successo in via Bruzzesi. Ne parla tutto il quartiere».

    «Ho visto le auto della Polizia mentre venivo qui. Sarà mica la solita storia degli sgomberi?».

    «No», disse il signor Ugo, abbassando il tono della voce. «Pare sia qualcosa di grosso».

    La porta alle loro spalle si spalancò, sbattendo contro il muro. Il rumore spaventò il cane, che cominciò a ringhiare. Lo sconosciuto che si era barricato nel retro con Michele uscì da solo. Si voltò per un momento.

    «Se cambi idea, sai dove trovarmi».

    Chiuse la porta dietro di sé e prima di andarsene lasciò un biglietto sul bancone. Battista posò il bicchiere di vino per dare un’occhiata. Un nome e un numero di telefono.

    Il gigante lasciò passare qualche minuto, quindi si avvicinò alla porta.

    Nessun rumore.

    «Russo?».

    Il signor Ugo nel frattempo provava a tenere a freno il suo cane, senza riuscirci.

    «Piantala, testone!».

    Vedendo che non c’era verso di avere ragione sull’animale, lasciò due monete nel piattino di fronte al registratore di cassa e uscì dal bar.

    «Russo?», ripeté Battista.

    Non ricevendo risposta, si diresse in cucina.

    Nina rientrò proprio in quel momento dallo sgabuzzino, dove tenevano gli oggetti smarriti. Aveva un brutto presentimento. Si avvicinò anche lei alla cucina e, quando Battista aprì la porta, sbirciò dentro.

    Lo spettacolo la lasciò senza parole.

    5

    Quella notte la telefonata arrivò al Commissariato alle quattro e quarantatré, quando la città ancora dormiva. La prima volante disponibile fece un sopralluogo dieci minuti più tardi.

    «Ho sentito un boato dall’appartamento 44/C, in via Bruzzesi», aveva detto la voce anonima al telefono.

    L’apparecchio del centralino non era riuscito a visualizzare il numero del chiamante, che aveva messo giù subito.

    L’agente Sacchi, tre anni di servizio, da poco trasferito al Commissariato Lorenteggio in via Primaticcio, era stato il primo a ricevere la chiamata. Lasciò il collega in doppia fila per salire da solo.

    «Se ci sono problemi, ti avviso».

    Il dedalo delle case popolari di via Bruzzesi gli fece perdere la bussola un paio di volte, prima di raggiungere la porta giusta.

    Bussò, senza ricevere risposta.

    Provò ad aprire la porta, ma era chiusa.

    Chiese al poliziotto rimasto in macchina di rintracciare il custode.

    «Non c’è nessuno nella guardiola».

    L’uomo era assente per malattia, avrebbero scoperto qualche ora dopo, e l’Aler, l’ente pubblico che gestiva quel complesso, non aveva fondi a sufficienza per assumere un sostituto.

    Dopo un altro tentativo a vuoto di farsi aprire, Sacchi stava per desistere, pensando a cosa scrivere nel rapporto, se falso allarme o denuncia verificata, quando la testa di una vicina fece capolino dalla porta affianco.

    «Chi siete?».

    «Polizia, signora». L’agente, colto di sorpresa, quasi scattò sull’attenti. Si riprese subito: «Conosce la persona che vive qui?».

    La donna parlava a voce bassa. Per udirla, Sacchi si dovette avvicinare. L’accento siciliano non aiutò l’agente, che era veneto. «Certo, e come no? Lo conoscono tutti al Corona».

    «Corona? E di nome?».

    «Aurelio. Corona Aurelio».

    «Senta, è stata lei a chiamarci?».

    «Nossignore. Io non ho nemmeno il telefono».

    Sacchi provò a bussare un’altra volta all’interno 44/C.

    «Che è successo?» domandò la donna.

    «Probabilmente nulla», le rispose il poliziotto. «Senta, non ha udito stamattina un forte rumore?».

    «Io tenevo la tv accesa. Sa, mi fa compagnia. I miei figli non vengono mai a trovarmi».

    Sacchi interruppe subito quel tentativo di sermone: «Alle quattro e quaranta, ha sentito niente?».

    «Un rumore forte, dice? Può essere, sì. Mi stavo prendendo il caffè. Mi è quasi caduta la tazzina di mano, ora che mi ci fa pensare».

    Avuta la conferma che cercava, l’agente ribatté: «E non si è insospettita?».

    «Io mi pensavo che erano quelli della mondezza, che quando raccolgono il vetro fanno un caos del diavolo».

    «Grazie, signora, rientri pure in casa».

    «Ma che è successo?».

    «Nulla, non si preoccupi», disse Sacchi, poi avvisò la centrale chiedendo l’intervento dei pompieri.

    6

    Michele era accasciato contro una parete. Il viso pallido, gli occhi chiusi.

    «Russo, tutto bene?».

    Battista gli si avvicinò, gli afferrò un braccio. Glielo girò e piantò il pollice sul polso. Premette, mettendo in risalto il reticolo di vene.

    Nina, alle sue spalle, tremava. «È… è…».

    «Svenuto», tagliò corto il cuoco. «Aiutami a tirarlo su».

    In due, afferrarono Michele per le braccia e lo adagiarono su una sedia.

    «Prendi un po’ d’acqua».

    La cameriera corse al lavabo e riempì un bicchiere.

    Battista lo rovesciò sul volto di Michele, cui scappò un’imprecazione. La sua voce era impastata, come quella di un ubriaco. Nina gli si avvicinò. Il cuoco le lanciò un’occhiataccia.

    «Va’ di là, dai clienti».

    Quindi tornò a dedicarsi a Michele: gli mollò un paio di schiaffetti sulle guance.

    «Stai bene?».

    L’altro, lentamente, riprese colore. Riaprì gli occhi e strizzò le palpebre più volte, prima di recuperare del tutto i sensi. «Cosa… dove… sono?».

    «Al bar», disse Battista.

    Michele provò ad alzarsi di scatto, ma una vertigine lo bloccò a mezz’aria.

    Il gigante gli posò i palmi sulle spalle. «Con calma. Sta’ seduto». Prese quanto rimaneva del bicchiere d’acqua e glielo offrì. «Bevi, va’».

    Russo obbedì.

    «Aspettami qui». Battista uscì dalla stanza e tornò subito. «Quel ciaparàt ti ha lasciato questo».

    Michele prese il biglietto da visita e lesse

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