La mano dell'organista: Melegnano, 1817
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Book preview
La mano dell'organista - Gabriele Prinelli
I tascabili
Il nostro indirizzo internet è:
http://www.frillieditori.com
info@frillieditori.com
editing e impaginazione
Michela Volpe
layout copertina
Sara Chiara
copyright © 2012 Fratelli Frilli Editori
Via Priaruggia 31/1, Genova – Tel. 010.3074224; 010.3772846
isbn 978-88-7563-854-2
Gabriele Prinelli
La mano dell’organista
LogoFratelliFrilliEditori.JPGFratelli Frilli Editori
Questa storia è dedicata a mamma Rosella,
a Giulia, il mio punto fermo nel mondo delle lettere, e a tutti coloro che, in qualche modo,
mi hanno voluto, vogliono e vorranno bene.
Il lettore stia attento...
È tutto frutto della mia fantasia, fatta eccezione per la costruzione del nuovo organo avvenuta nel 1817. Se qualcuno dovesse riconoscersi la colpa è... del caso. A lui lasciamo la scelta, se sentirsi fortunato o meno.
G.P.
Le Tre T
«Cosa ha detto?».
«Ha detto: scentirete che sciapore!».
«Che è? Turco?».
«No! Sciculo».
«Culo che?».
«Sci-cu-lo. Sciciliano».
La dotta conversazione avveniva tra Piero Bertuzzi, detto Malalingua, Tano, soprannominato Le Turc, proprietario dell’albergo, e Gaspare di Treviglio, manovale dei Serassi costruttori d’organo. I tre, vagamente alticci, erano comodamente seduti ad un tavolaccio della locanda la Vecchia posta, da un ventennio, rinominata, vox populi, la taverna Le Tre T.
La locanda era sita di fronte al campo dei Gelsi sulla strada per Milano. Si entrava da una piccola porta e il locale, non fosse stato per una specie di saracinesca, che Tano teneva spalancata dalla mattina alla sera, era completamente allo scuro. La stagione era calda. I tre avevano scelto un tavolo lontano dal finestrone e nascosto nell’ombra, così che potevano adocchiare ciò che accadeva fuori senza essere veduti. L’arredamento era quello tipico delle taverne: il pavimento in terra battuta ricoperto di paglia e segatura, una fila di tavolacci di legno tutti incisi con scritte del tipo La felicita è una gran z... (omissis)
, Carlo cornuto
, Abbasso l’imperatore
, Evviva la f... (omissis)
, Il marchese è un ladro
, Io amo Cecilia
, Tano re
; le relative panche sghembe, un bancone da mescita diroccato e l’immancabile focolare sempre acceso. Il camino non tirava bene e, quando il vento soffiava da oriente, il fumo anziché uscire dal comignolo, invadeva la sala affumicando i clienti. E quando ciò accadeva si era sicuri che la pioggia entro due giorni sarebbe arrivata.
I muri erano scrostati dall’incedere del tempo, ma grazie ad una fresca corrente d’aria che attraversava perennemente la sala, gradevole d’estate e micidiale d’inverno, non vi erano quelle sgraziate e maleodoranti macchie di muffa che, da queste parti, solitamente rivestono le pareti. Un portatorce per ogni lato del salone e un lampadario circolare con infilate dieci candele (che si poteva abbassare con una corda fissata al muro vicino alla porta della cucina) garantivano l’illuminazione notturna. Nell’angolo più buio, una scala di granito, consumata dalle scarpe di tanti clienti, portava al piano superiore dove c’erano le camere del padrone e quelle degli ospiti.
La sala era abbellita con dei dipinti raffiguranti delle marine e con un quadro in cui trionfavano il rosso fuoco e il grigio. Doveva rappresentare, secondo le intenzioni del pittore, il vulcano della Sicilia. Ma il pezzo più ammirato era appeso dietro il banco della mescita: un ritratto di Tano, o presunto tale (era irriconoscibile), con la scritta "Tano sumar[1] dono di un noto burlone della zona in affari con Le Turc. Questi lo aveva convinto che sumar nella parlata locale significasse bello, intelligente, interessante e lui, orgoglioso del dono e del relativo cartiglio, aveva piazzato l’offensivo dipinto in bella vista. Ecco il motivo per cui tutti coloro che entravano ed uscivano da
Le Tre T" erano sorridenti.
L’ora di pranzo era già trascorsa e la trattoria di Tano si era svuotata da un pezzo. Solo i tre personaggi al centro della discussione si attardavano in chiacchiere davanti ad una caraffa di vino rosso. Gaspare era in attesa di cominciare la costruzione del nuovo organo nella chiesa di San Giovanni e in quei giorni era disoccupato. Trascorreva il suo tempo ciondolando per la città oppure seduto, come oggi, nella locanda dove era ospite. Tano e Bertuzzi erano, di solito, i suoi compagni di bevuta: Malalingua non perdeva occasione per scroccare una caraffa di vino buono e Tano, quando si parlava di cucina e buon cibo, era sempre in prima fila.
La parola che aveva dato vita alla discussione di poco prima, pronunciata da Tano e tradotta da Malalingua, era sciauro
. Era riferita al profumo che Gaspare avrebbe apprezzato quella sera quando in tavola sarebbero stati serviti i celebri gamberoni alla Turca.
Meno male che c’era Piero Malalingua. Aveva il dono, unico in città, di capire Tano e di tradurre ciò che diceva a quelli che proprio non lo capivano. Cioè tutti. Era così chiamato, non perché fosse pettegolo, bensì perché, parlando, trasformava le s in sci producendo con la lingua uno strano gorgoglìo.
E parlare con Tano Le Turc
, siciliano immigrato un ventennio prima a Melegnano, era ancora impresa assai ardua perché mai si era abituato alla parlata locale. E si meritò, anni addietro, l’appellativo di Le Turc
in quanto quello che diceva era proprio incomprensibile. Il soprannome era un francesismo lombardizzato in onore del ventennio napoleonico appena trascorso. Ma quando si trattava di soldi, Tano, parlava una lingua universale. Si faceva capire senza ombra di dubbio. A distanza di anni ricordava anche i crediti più piccoli, tanto che si guadagnò un secondo soprannome vagamente allitterante con Tano e Le Turc: