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Basilico e sangue
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Basilico e sangue

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About this ebook

E’ la vigilia di Pasqua in Camargue e Simona Ottonello, capo della sezione omicidi di Genova, si ritrova ad essere testimone di un delitto. Un uomo viene ucciso sotto i suoi occhi nel salotto dell’Hôtellerie du Parc, un piccolo albergo a Pont de Gau, una manciata di chilometri da Saintes-Maries-de-la-Mer dove era arrivata pochi giorni prima in compagnia di un’amica, Luisa Cerutti, giovane avvocato genovese, per concedersi qualche giorno di riposo.In un freddo mattino di febbraio di quindici anni prima, a Francoforte, il corpo di Mario è squassato da dolori. La sera precedente qualcuno ha cercato deliberatamente di investirlo. Lui sa perfettamente chi è stato, e sa che deve scappare se vuole salvarsi. Ma Mario non fugge solo dai suoi assalitori. Fugge da un passato di violenza vissuto all’ombra delle acciaierie di Cornigliano a Genova e, soprattutto, da una storia di sangue che gli ha cambiato la vita. Due vicende apparentemente slegate che corrono lungo il romanzo su tracce parallele che lentamente convergono sino a rivelare i moventi di tre omicidi, svelarne i colpevoli e, insieme, disegnare i contorni di un’esistenza rabbiosa.
LanguageItaliano
Release dateFeb 13, 2013
ISBN9788875638504
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    Book preview

    Basilico e sangue - Andrea Casazza

    Capitolo uno

    Il soffitto sembrava il binario di una ferrovia. Sarà stato, probabilmente, per quell’intonaco grigiastro che ricordava il colore delle pietre della massicciata consunte dal sole e dal vento; o forse per quelle travi in legno massello, pesanti, scure proprio come le traversine che uniscono i listoni di acciaio brunito. E poi, a completare l’atmosfera dell’ambiente, c’era anche quel modello di vecchia locomotiva a vapore lungo più di un metro che troneggiava su un piedistallo proprio a fianco della finestra. Simona se ne stava seduta da circa mezz’ora in salotto. Continuava a sfogliare il libro con la copertina rigida che aveva tra le mani e non ne aveva letto ancora una riga. O meglio, cominciava a scorrere la prima frase, poi si fermava a pensare. E quando i suoi occhi tornavano alla pagina si accorgeva di non ricordare nulla di quanto aveva letto. E così ricominciava daccapo.

    Le dieci meno un quarto. Di là, nel ristorante dell’hôtellerie du Parc, la confusione regnava ancora sovrana. Era la vigilia di Pasqua e almeno quattro grandi comitive, oltre a un numero imprecisato di famiglie, stavano ancora finendo di cenare nell’allegria più totale e il frastuono arrivava fino alla strada. Come al solito, erano gli italiani a guidare la baldoria generale: le loro voci risuonavano ora cristalline, ora basse e roboanti, ma comunque sempre sopra le righe. E Simona si domandò perché mai proprio gli italiani dovessero sempre distinguersi fra tutti gli altri popoli nella capacità di far casino al ristorante. Non erano proprio capaci di parlare sottovoce come invece erano soliti fare, per esempio, francesi e inglesi. I tedeschi, poi, erano dei veri maestri di educazione al ristorante. Almeno quando si trovavano all’estero. In patria un po’ meno: le tavolate dell’Oktoberfest, complice la birra servita in boccali enormi, non erano certo silenziose.

    Le dieci meno dieci. Dal salotto dell’albergo, dove si trovava sola a occupare una delle larghe poltrone in pelle intorno a un tavolino dello stesso legno scuro e pesante delle travature del soffitto, Simona poteva scorgere solo uno spicchio del bar che si affacciava, con una serie di larghe vetrate, sul piazzale esterno. Vedeva il soffitto-binario, appunto, poi una fetta del lungo bancone di metallo lucido utilizzato per la mescita delle bevande; vedeva, sul lato opposto, gli schienali delle sedie attorno ai tavolini che completavano l’arredo del locale. Il bar, a quell’ora, era deserto. Solo di tanto in tanto la padrona o una cameriera compariva a passo svelto, si infilava dietro il bancone, e apriva il grande frigorifero dove erano custodite le bevande che servivano anche per il ristorante. Simona poteva immaginarne i movimenti soltanto dai rumori mentre, attraverso i vetri smerigliati della porta divisoria che veniva tenuta chiusa per metà, scorgeva appena la fisionomia della cameriera di turno: un’immagine sfocata, incomprensibile. E non avrebbe potuto dire, di volta in volta, se si trattasse di Jasmine oppure di Margot; di Thérèse oppure di madame Thelmine, l’energica e segaligna padrona che governava albergo e personale col cipiglio di un generale d’armata impegnato nelle grandi manovre.

    Le dieci precise. L’austero orologio a pendolo che forse più di cent’anni prima il nonno o il trisavolo di madame Thelmine aveva appeso alla parete del salotto, scandiva il tempo con una puntualità svizzera. Simona lesse per la centesima volta la prima frase poi chiuse di colpo il libro, lo lasciò cadere sulle ginocchia e cominciò mentalmente a ricostruire le vicissitudini che l’avevano portata fin lì, nel Sud della Francia, nel cuore della Camargue, paradiso dei naturalisti; in quella pensione al Pont de Gau, a un paio di chilometri da Les Saintes-Maries-de-la-Mer. L’idea l’aveva avuta la sua amica Luisa. Trent’anni compiuti da poco, una delusione d’amore alle spalle, un carattere energico e combattivo che tradiva la sua origine milanese, Luisa Cerutti aveva deciso di concedersi quella vacanza per due motivi: festeggiare la sua assunzione come procuratore legale presso l’avviatissimo studio di un noto avvocato genovese, e dimenticare «quel mascalzone di Giovanni» che l’aveva piantata per mettersi con una «sciacquetta della cancelleria civile piatta come il Tavoliere delle Puglie e allegra come una vedova che ha già seppellito tre mariti».

    «Tu devi venire con me...», le aveva detto un giorno che si erano incontrate in tribunale dove Simona era andata a testimoniare al processo contro uno spacciatore di droga che aveva arrestato tre settimane prima.

    E non c’era stato nulla da fare. Luisa aveva organizzato l’opera di convincimento davvero alla grande: telefonate pressoché giornaliere a casa e in ufficio, invio di dépliant che magnificavano la Camargue e la Provenza. Infine non aveva esitato a ricorrere alla psicologia: «Sono due anni che lavori alla squadra mobile senza concederti un solo giorno di festa. Un po’ di riposo non può farti che bene. E poi non vorrai mica lasciarmi andare sola in questo momento così difficile per me... Se non si può contare sulle amiche nei momenti del bisogno...».

    Alla fine Luisa l’aveva spuntata. Così, la mattina del venerdì santo erano partite di buon’ora sulla Golf di Luisa. Programma: un’intera settimana a mezza pensione all’hôtellerie du Parc. Una settimana per immergersi nella natura selvaggia della Camargue, per osservare da vicino tori, cavalli e tante specie di uccelli di cui non sospettava neppure l’esistenza.

    Simona era appena al secondo giorno della vacanza e già era un po’ pentita. Le mancava l’animazione della città, specie la sera quando restava sola perché Luisa andava a letto alle nove in punto.

    «Ne approfitto perché devo recuperare il sonno perso dietro il Giovanni», diceva sbadigliando appena finito di cenare. E a Simona, che era abituata a non coricarsi mai prima dell’una, non restava altro che munirsi di un libro e andarsi a sedere, sola, su una di quelle grandi poltrone di pelle del salotto.

    Ma invece di leggere la sua mente vagava libera come cullata dai rumori delle posate, dalle voci, dalle risate che sembravano, di momento in momento, sempre più lontane. Un rumore confuso, sordo, indistinto che le ricordava gli alberghi di altre città nei quali aveva vissuto per inseguire il suo sogno di diventare, un giorno, capo della squadra mobile. Città e alberghi che alla fine diventavano tutti uguali e nei quali lei si ritrovava, la sera, sempre sola, a fare gli stessi gesti, ad avere gli stessi pensieri malinconici. Forse, perfino il libro che rigirava nelle mani senza riuscire a leggere era lo stesso di sempre.

    Le dieci e un quarto. Questo fu l’unico particolare di cui, successivamente, fu certa. Aveva appena guardato l’orologio da polso quando tutto accadde in un attimo. Un uomo dalla corporatura robusta e dal collo largo come il fusto di una quercia comparve di colpo nello spicchio di spazio compreso tra lo stipite e la porta soccchiusa. Indossava una giacca bianca e un grembiule dello stesso colore: «Il cuoco o qualche inserviente di cucina», aveva pensato istintivamente Simona. Ma invece che dirigersi dietro il bancone del bar per prendere qualcosa dal grande frigorifero, come sarebbe stato logico, quell’individuo si avviò di corsa verso l’uscita del locale.

    Poi esplosero due spari. L’uomo fu come sospinto in avanti da una mano invisibile, e senza un grido né un lamento stramazzò a terra. Simona restò a bocca aperta. Prima ancora di realizzare completamente quello che stava succedendo, scorse un’ombra attraverso il vetro smerigliato della porta. Ma fu solo un attimo: immediatamente la figura arretrò e scomparve. Simona si alzò di scatto facendo cadere il libro a terra e giunse nel bar appena un attimo prima delle cameriere e di alcuni clienti che avevano udito gli spari. Si chinò su quel corpo immobile e riconobbe l’aiuto cuoco. Ne tastò il polso e capì subito che l’uomo era morto. Morto ammazzato con due pistolettate alla schiena. Praticamente sotto i suoi occhi.

    Capitolo due

    13 febbraio 1992, Francoforte

    In Friedrichstrasse il vento faceva dondolare la cima degli alberi. Tigli nodosi, dal tronco ingrigito dai gas di scarico delle automobili, i rami contorti protesi verso un cielo grigio perla. Faceva freddo, molto freddo. Mario alzò il bavero del giaccone e lo strinse facendo un nodo alla sciarpa di lana blu. C’era poca gente in giro. Qualche raro passante, la testa insaccata negli abiti pesanti, il passo veloce di chi ha fretta di rientrare a casa o di raggiungere il lavoro. Le auto scorrevano veloci, fendendo il vento e lasciando dietro di loro un vapore azzurrognolo, un alito di smog. La saracinesca della pizzeria Bella Napoli era ancora abbassata. Mario guardò l’orologio. Non erano ancora le sette e mezza del mattino e Toni non avrebbe aperto prima di due ore. Sempre che la sera prima non avesse fatto tardi al bar dell’angolo tracannando boccali di birra e arringando la folla dei tiratardi del quartiere con quel suo tedesco impastato di calabresità. Un guazzabuglio di frasi rabberciate che, contro ogni aspettativa linguistica, risultavano comprensibili ai più e riuscivano a scatenare un’ilarità alcolicamente contagiosa.

    «Un tipo in gamba, Toni... E un bravo cristo, anche», pensò Mario.

    A Francoforte Toni era arrivato una decina d’anni prima con pochi soldi in tasca, la fame negli occhi e nello stomaco e una disperata voglia di fare. Aveva seguito la lenta trafila degli emigranti italiani del sud in Germania: lavapiatti, cameriere, aiuto cuoco, pizzaiolo. Mangiando «pane e sputo», come era solito ripetergli, vivendo «come un topo» in umidi scantinati e mettendo da parte «sino all’ultimo pfennig» di mancia, alla fine era riuscito ad aprire la sua pizzeria. L’insegna Bella Napoli che con il suo tricolore spiccava nel grigio dei palazzi della Friedrichstrasse, era il vessillo del suo riscatto così come la grossa Mercedes nera con la quale, in agosto, rientrava a Corigliano Calabro, era il segno tangibile che ce l’aveva fatta. Quella luccicante berlina con gli interni in pelle chiara che si faceva largo a stento nelle anguste viuzze del suo paese natale costruite per i carri trainati dai buoi, dava l’annuncio del suo successo. Come l’altoparlante gracchiante del camion che, posteggiato nella piazza del paese, chiamava le donne a raccolta promettendo a prezzi risicati vestiti d’alta moda, quella sua Mercedes era il megafono che diceva a tutti che Antonio Cafiso di fu Giuseppe, bracciante a giornata, e di fu Maddalena Cespi, sposa e madre integerrima, in Germania si era fatto la posizione. Che lassù, a Francofurt, era uomo stimato, proprietario di ristorante. Ristorante italiano, naturalmente, «che ne volevano sapere di cucina quelli là, i tedeschi, che più che wurstel non sapevano mettere in padella? La birra, però... Beh, per la birra bisogna lasciarli stare».

    Toni godeva di quel trionfo e del sole del suo paese non più di due settimane l’anno. Più o meno dall’8 al 24 agosto, a seconda di come cadevano sabati e domeniche. Poi stipava il bagagliaio della sua Mercedes di caciocavallo, soppressata, pasta e passata di pomodoro «come solo zi Marietta sapeva fare», e se ne tornava al nord, a Francofurt, a lavorare sodo per poter rinnovare, l’anno seguente, il rito del ritorno a casa. Magari, uno di quegli anni, pensava ogni volta mettendo in moto, assieme al caciocavallo, si sarebbe portato via anche una ragazza del paese. Ce n’era più di una che gli aveva messo gli occhi addosso. Era un buon partito e, modestia a parte, non poteva certo dirsi brutto con i suoi 44 anni di solida reputazione tedesca. Certo, la pancia gli si era un po’ gonfiata per via della birra, ma l’amore mica si fa con la pancia, no?

    Quante volte, negli anni in cui aveva lavorato nella sua pizzeria, Mario glielo aveva sentito dire.

    «Questa estate, Mario, è la volta buona. Vedrai che a fine agosto me ne torno su con una ragazzina del mio paese, che appena la vedi svieni. E allora attento a te! Occhi bassi, perché rispetto esigo per la mia signora!». Al che Mario lo provocava: «E chi sarà mai. La madonna di Lourdes! Attento a te, piuttosto, che le vostre donne terrone, con quelle facce da acque chete...». E finiva a finte legnate con Toni che lo rincorreva fra i tavoli brandendo il matterello della pasta e lui che si sgolava chiedendo aiuto a Fritz, l’altro cameriere: «Fritz, questo è pazzo, questo mi vuole ammazzare!». Il tutto, naturalmente, la mattina presto prima che arrivassero i clienti, o la sera tardi quando il locale era ormai semivuoto con pochi tavoli ancora occupati da clienti fissi, amici o quasi.

    Per tre anni Mario aveva lavorato alla Bella Napoli. C’era approdato dopo aver vagabondato per mezza Germania, cercando di tenersi lontano dagli sbirri e sopravvivendo facendo lavoretti saltuari o rubacchiando qualcosa in giro. Toni gli era subito piaciuto, al primo incontro. Era arrivato a Francoforte da qualche giorno e aveva trovato alloggio in casa di un ragazzo di Roma che studiava lì e che aveva conosciuto una settimana prima, ad un concerto a Berlino. Era una sera di maggio e in tasca non gli era rimasto neppure l’ombra di un marco. Aveva girato per tutto il giorno in cerca di lavoro. Inutilmente. Alla fine, in Friedrichstrasse, quando ormai era deciso a rientrare a casa dell’amico romano con la pancia vuota e la testa piena di incertezze, aveva visto l’insegna della Bella Napoli. «Tentiamo ancora lì», si era detto. Ed era entrato, guardandosi attorno con quell’aria fra lo strafottente e il sospettoso che la vita aveva impresso sui suoi 21 anni.

    Dei dieci tavoli del locale solo tre erano occupati da altrettante famiglie con figli bercianti al seguito. Nonostante il tempo trascorso in Germania, sentire urlare in tedesco, come stava facendo un padre rivolto a uno dei suoi figli che stava correndo per la pizzeria, continuava a trasmettergli una certa inquietudine. Lo catapultava all’interno di un film in bianco e nero pieno di SS e di cani lupo dai denti affilati.

    Toni lo aveva squadrato da dietro il bancone della pizzeria appena aveva varcato la soglia del locale. I suoi occhi neri, incisi nella spigolosa faccia da calabrese, lo avevano passato al vaglio come un metal detector dell’aeroporto. Evidentemente non aveva trovato niente di sospetto nel suo aspetto, perché gli aveva sorriso. E aveva capito subito.

    «Che posso fare per te, compaesano?», gli aveva chiesto in italiano.

    Era iniziata così la sua avventura come cameriere della Bella Napoli. Toni aveva messo subito i puntini sulle i: lo avrebbe assunto in prova per un paio di settimane. Se in quel periodo non avesse fatto casini, se avesse dimostrato di saperci fare fra i tavoli e con i clienti, sarebbe rimasto. Se no, «amici come prima e salutammo». La paga non era granché, «di più non posso offrirti, amico mio», ma con qualche mancia avrebbe potuto tirare avanti più che dignitosamente, trovarsi un alloggio tutto suo e ricominciare da capo. Era più di quanto Mario potesse sperare e aveva fatto in modo di non perdere l’occasione, lasciando a casa, la mattina, il suo carattere scontroso e la voglia di sfasciare il mondo che lo aveva portato sin lì, fuggiasco a Francoforte.

    In quei tre anni con Toni non aveva mai avuto da ridire. E se non si poteva dire che fossero diventati proprio amici, certo andavano d’accordo e qualche birra insieme, dopo il lavoro, qualche sera se l’andavano a bere. E alla fine – non era un segno d’amicizia, quello? – nove volte su dieci il conto lo pagava Toni.

    Il rombo di un autobus lo scosse dai suoi pensieri. Non poteva aspettare lì in strada che Toni aprisse la pizzeria. Quei due bastardi potevano rifarsi vivi. Entro qualche ora, probabilmente, sarebbero andati all’ospedale e, non trovandolo, il primo posto in cui lo avrebbero cercato sarebbe stato proprio lì, alla Bella Napoli. Era un peccato non poter aspettare perché Toni, certamente, gli avrebbe dato una mano o quantomeno i soldi delle due settimane che aveva già lavorato quel mese. Andarlo a cercare a casa non era possibile. In tanti anni, si rese conto in quel momento, non lo aveva mai accompagnato a casa, né gli aveva mai chiesto dove abitasse. Lì vicino, certamente, perché era capitato che qualche volta lasciasse la pizzeria per andare a prendere qualcosa a casa e tornasse nel giro di non più di mezz’ora. Ma vai a sapere in quale di quella selva di palazzi abitasse.

    Mario batté con forza le mani fasciate dai guanti di lana l’una contro l’altra alla ricerca di un po’ di calore, risistemò la cinghia del sacco-valigia sulla spalla e si mosse in direzione della stazione. Le gambe gli facevano male e la spalla sinistra era percorsa da una fitta pungente che a tratti gli faceva contrarre le labbra per il dolore. Fece mentalmente l’inventario delle cose che aveva messo in fretta e furia nel bagaglio, toccando il rigonfiamento del giaccone all’altezza del cuore: il passaporto francese era lì assieme alla busta con trecento marchi. E questo era l’essenziale. Nel borsone aveva infilato un paio di calzoni pesanti e uno leggero, cinque camicie, la biancheria, il maglione a collo alto rosso di lana pesante e quello a v verde, più leggero, la giacca di pelle nera e un paio di scarpe da tennis. Le cassette? Sì, le cassette le aveva prese tutte. E anche il coltello a serramanico. Non si sa mai. Altro non c’era stato e, d’altronde, non poteva certo andare in giro con due valigie, malmesso come era. Meglio viaggiare leggeri e mettere più chilometri possibili e il più in fretta possibile fra lui e Francoforte. Il resto l’avrebbe visto giorno per giorno.

    Allungò il passo attraversando la strada inseguito dal bip bip del semaforo giallo. Una fitta all’anca gli fece cedere la gamba sinistra, rischiando di farlo cadere. Raggiunto il marciapiedi si fermò un attimo per riprendere fiato, accarezzandosi la coscia. Sotto i guanti, le mani scorticate gli bruciavano e il medio della destra gli doleva quasi volesse spezzarsi. «Brutti bastardi», imprecò fra sé. Come diavolo avevano fatto a trovarlo?

    L’indirizzo del fermo posta? No, non poteva essere. C’era stato attento, mica era nato ieri, lui. L’indirizzo che aveva dato non era certo quello di Francoforte. I soldi dovevano mandarglieli a Wiesbaden, e così avevano fatto, regolarmente. Certo per lui non era comodissimo. Gli toccava ogni volta farsi quasi un centinaio di chilometri per andarli a ritirare, ma era il prezzo da pagare per starsene sicuro al calduccio nella sua tana di Francoforte. In quel modo sapevano in quale zona della Germania si trovava, ma da lì a batterla a tappeto per trovarlo ce ne passava. E poi, quei due bastardi avevano di che pagare e senza troppe difficoltà. Stavano bene, loro! Da sempre. Da sempre c’era stata fra loro una differenza abissale. Per loro la banda era un modo per ammazzare la noia, per sentirsi grandi, per infrangere le regole. Non un modo per ottenere quanto, altrimenti, lui non avrebbe mai potuto avere. Quando loro la sera tornavano a casa trovavano famiglie per bene ad accoglierli. Il papà ingegnere e la mamma sorridente, del tutto incapaci anche solo di immaginare come aveva passato il pomeriggio loro figlio. Per lui no, era diverso. Quando rientrava a casa, la sera, spesso non trovava nessuno, e quando, a volte, sentiva dei rumori in casa... Beh, quasi sempre provenivano dalla camera da letto dove quella troia di sua madre stava scopando con l’ultimo dei suoi occasionali amanti. No, stavano bene loro e non avevano problemi a pagare. Ed era giusto che pagassero. Non giusto: sacrosanto! Se no... Se no lui avrebbe parlato. Eh sì, spiacente, lo avrebbe fatto. Stufo di fare ancora una volta da parafulmine.

    E ora che cosa gli era saltato in testa a quei due? Venirlo a cercare sin lì, scovarlo e cercare di ammazzarlo! Investirlo come un cane! Li avrebbe fatti sputare sangue, quei bastardi! Il doppio, il triplo avrebbero dovuto pagare. Anche il suo silenzio si era fratturato, come la spalla che continuava a fargli un male cane. Anche il suo silenzio doveva essere curato.

    «E le cure costano... Ah, se costano! Se ne renderanno presto conto», bofonchiò gettando fuori l’aria in un sibilo salendo i gradini della stazione.

    Nonostante l’ora, l’atrio era gremito da un gran viavai di persone. Pendolari che arrivavano come un fiume in piena che si divideva nei rivoli delle strade di Francoforte per defluire in negozi e uffici. Mario ne fu quasi travolto. Imprecò fra sé e si fece largo, camminando controcorrente, sino a raggiungere il tabellone con l’elenco dei treni in partenza. Ce n’era uno per Bilbao via Parigi alle 8.08. Guardò l’orologio della stazione: segnava le otto in punto. Valutò se aveva soldi a sufficienza e decise di sì. Corse verso la biglietteria fendendo la barriera grigia e cisposa dei pendolari. Poteva farcela.

    Capitolo tre

    Simona bevve un sorso di caffè e fece una smorfia di disgusto. I tre cucchiaini di zucchero che ci aveva rimescolato dentro non erano riusciti ad addolcire la bevanda. Ma, a pensarci bene, più amaro del caffè era il ricordo della notte e la sottile ironia del tenente Armand Duvivier, della Police Nationale di Arles, che era venuto al Pont de Gau per le indagini. «Polissiotta della squadra mobbil de Gênes», aveva ripetuto almeno un centinaio di volte con quel suo italiano stentato e ridicolo. E tutte le volte il suo sguardo, i muscoli del viso e perfino i baffi

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