La villa di Sant'Ilario
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La villa di Sant'Ilario - Andrea Casazza e Max Mauceri
Capitolo uno
Che cosa c’è che non va?
. Gli capitava sempre più spesso di chiederselo. Anche adesso, immerso come era nella pace di quel mattino di tiepido sole.
Che cosa c’è che non va?
e la domanda gli risuonava dentro con una eco profonda. Come il rimbombo di un colpo di bastone sul selciato di una caverna buia. Si guardava intorno alla ricerca di una risposta. No. Non c’era proprio niente che non andasse. Ed era proprio questo il punto! Da dove nasceva allora quell’inquietudine? Da dove traeva forza quel malessere sottile e indefinito che avvertiva dentro? Era come se gli mancasse qualcosa. Qualcosa che non riusciva a definire, che non riusciva neppure a immaginare.
Giovanni lasciò vagare lo sguardo sul mare. Là in fondo, dietro il profilo sghembo delle case di Nervi, sembrava immoto. Neppure una piccola increspatura a macchiarne l’azzurro slavato di quel mattino d’ottobre senza vento. Aspirò profondamente lasciando che il profumo dell’erba gli invadesse le narici. Era felice, lì? Certo che lo era. Ma doveva ripeterselo. Non lo sentiva intimamente. Quel sottile velo di inquietudine che gli opprimeva il cuore lo obbligava a ragionare. Doveva mettere in fila i pensieri, setacciare nella mente tutti i motivi per cui poteva dirsi appagato e tranquillo in quella casa. Una bella casa da far invidia a chiunque, immersa com’era nel verde della collina di Sant’Ilario. E con quella vista! La linea lunga dell’orizzonte sulla quale far camminare lo sguardo con l’incedere emozionato di un funambolo su una corda sospesa. Libero di correre, dal promontorio di Portofino agli spigoli di cemento armato dell’aeroporto e, più in là ancora, verso Arenzano e Capo Noli in un tuffo nel vuoto che mozzava il fiato. Che riempiva il cuore di infinito!
Allora: che cosa c’è che non va?
.
Giovanni si distese sulla sdraio e chiuse gli occhi. Dall’interno della casa giunse un rumore attutito. Francesca, probabilmente, aveva finito di fare la doccia ed era alle prese con l’incredibile armamentario di creme e flaconcini di bellezza che, ogni mattina, facendosi la barba, lui si trovava ad osservare, disposto come un esercito untuoso, sul ripiano del lavabo accanto al suo. Il tepore del sole gli accarezzò il viso. Aspirò ancora con voluttà il profumo dell’erba cercandovi un retrogusto di salsedine. Si afferrò a quel piacere per allontanare da sé l’infido sottofondo dell’inquietudine.
Non aveva nulla da fare, quel mattino. Null’altro se non godersi la pace della collina e del giardino che si stendeva davanti a casa sua sino a un filare d’uva bianca, dolcissima e profumata, che delimitava il confine della fascia separando il suo terreno da quello della villa sottostante. Una grande, vecchia villa in stile liberty che rimaneva deserta per buona parte dell’anno. L’aveva acquistata, qualche anno prima e per una cifra esorbitante, un notaio milanese affascinato dal panorama e sull’onda della passione per una ragazza che aveva almeno una trentina d’anni meno di lui, un corpo da modella e il viso di una tigre in calore. Con lei l’attempato notaio aveva trascorso una manciata di weekend di fuoco riconquistando la vigoria di anni assai più verdi. Poi, la ragazza era sparita e le sue visite in villa si erano via via sempre più diradate. Adesso vi faceva capolino in tarda primavera per pochi giorni, per lo più in compagnia di amici della sua stessa età. Brevi apparizioni velate di malcelata noia e dalla scia dei profumi costosi che avvolgevano le bellissime hostess di cui, lui e i suoi amici, in barba all’età e in ossequio al dio denaro, amavano circondarsi.
Come si chiamava più, il notaio? Oppedisano. Notaio Francesco Maria Oppedisano, coupé Mercedes ultimo modello e occhiali dalla montatura sottile appoggiati su un naso di notevoli proporzioni. Un naso strano: sottile alla base, si allungava sul viso come un picco di montagna per allargarsi in cima, carnoso e possente, come un nodo sul tronco dell’albero d’ulivo che faceva ombra all’ingresso del suo giardino.
Giovanni sorrise fra sé nel figurarsi quel naso importante. Il notaio Oppedisano sì che poteva ritenersi fortunato! Sotto l’ombrello di quel naso i profumi dell’inquietudine certo non potevano piombargli sul cuore! Sorrise ancora e si sentì improvvisamente meglio. Andava tutto bene. Lui sì, poteva dirsi davvero fortunato. Che cosa gli mancava? Che cosa poteva chiedere di più alla vita? Aveva quarantanove anni, un fisico ancora in forma, nessun problema di soldi, un lavoro che lo impegnava non più di quanto volesse e una casa da sogno. Francesca? Una bella donna, affascinante e simpatica. Soprattutto una donna che non gli creava problemi, che capiva quando era il caso di andarsene via e quando era giunto il momento di ritornare. E, in ogni caso, con lei aveva subito chiarito la situazione. Nessun ménage matrimoniale. Che non si mettesse in testa delle idee strane. Lui una moglie l’aveva avuta, anzi l’aveva ancora e, se aveva rotto con quella, non era certo per iniziare di nuovo daccapo con lei. Francesca l’aveva capito o, almeno sino ad ora, sembrava averlo accettato. E andava bene così. Se si fosse messa in testa di accampare diritti, se avesse iniziato a imporre la sua presenza nel suo spazio vitale più di quanto lui non fosse disposto ad accettare, beh allora…
Beh, allora i ciottoli del vialetto che conduceva al cancello del giardino erano sufficientemente bianchi da essere scorti a qualsiasi ora del giorno e della notte. La avrebbe salutata con un bacio chiedendole di non tornare. Lui era stato chiaro fin dall’inizio e lei aveva capito. O no? Ma sì, ma sì: Francesca era una donna intelligente.
«Giovanni, amore, sono quasi pronta. Faccio un salto giù a Nervi. Ti va di accompagnarmi?».
Si tirò su dalla sdraio per poter volgere lo sguardo verso la casa, dietro di lui. Francesca era affacciata alla finestra del primo piano, proprio sopra la tettoia ricoperta dalla pianta di gelsomino ormai sfiorito che ombreggiava la porta di ingresso. Giovanni si beò ancora una volta della bellezza della sua casa. Una casetta a due piani, il tetto di tegole rosse, la facciata, di un verde pallidissimo, macchiata dai riquadri blu scuro che incorniciavano le finestre.
SANT’ILARIO – Villetta unifamiliare. Centocinquanta metri quadrati divisi su due piani, sottotetto mansardato, posto auto, mille metri quadrati di giardino con alberi da frutto e vista panoramica. Trattativa riservata
.
Quando aveva letto l’annuncio sulle pagine del Secolo XIX
dedicate al mercato immobiliare aveva avvertito dentro di sé scattare qualcosa. Come se qualcuno avesse bussato alla sua coscienza per dirgli: «Quando ti decidi a cambiare vita? Questa è casa tua, che aspetti a comprarla?». Gli era bastato vederla per capire che era proprio così: quella era davvero casa sua. Lo stava aspettando. Era lui che doveva comprarla. E così aveva fatto dopo una trattativa, breve e riservata, in cui non aveva discusso granché sul fronte dei soldi, naturalmente parecchi e pagati sull’unghia, quanto sulle garanzie che lì attorno non ci fossero progetti di costruzione in via di approvazione o, peggio ancora, in procinto di partire. Quanto tempo era passato? Non più di tre anni anche se gli sembrava una vita fa.
«No, Francesca. Non ho nessuna voglia di scendere a valle. Me ne sto qui a godermi il sole».
La sua voce, al contrario di quella di lei, limpida e squillante, aveva un timbro scuro. A volte gli capitava di esserne quasi sorpreso. Come se non fosse suo quel tono severo, incapace di ammorbidirsi neppure nelle situazioni più banali. Neppure quando ordinava un caffè al Bar Gino, giù in passeggiata a mare, dove era solito far colazione, in tarda mattinata, prima di andare in centro, in ufficio.
Si riaccomodò sulla sdraio sentendo il rumore della finestra che si chiudeva. Il sole d’inizio ottobre era fin troppo caldo. Per un attimo pensò di spostarsi all’ombra dell’albero di albicocche che copriva, con il suo ampio ombrello, il centro del giardino. Poi si riaccoccolò riprendendo il corso dei pensieri.
Quando l’aveva detto a sua moglie, alla sua ex-moglie, che se ne sarebbe andato, lei lo aveva guardato con meraviglia pensando che stesse scherzando. Ma come? Che cosa era successo? Lui si era limitato a dirle che lui, a quasi cinquant’anni, non aveva voglia di buttare via il resto del tempo che gli rimaneva continuando a fare quella vita senza senso: casa-lavoro-casa, fine settimana al cinema o a cena con gli amici, gli stessi di sempre, le due settimane di ferie in Sardegna a giugno e le altre tre di vacanza in campagna, nel paesino dei genitori di lei. Eppoi era giusto guardarsi in faccia e dirselo una volta per sempre: fra di loro era tutto finito da un pezzo. Si conoscevano da più di trent’anni, erano sposati da oltre venti; sapevano tutto l’uno dell’altra. Anzi: sapevano troppo l’uno dell’altra, così da non riuscire a sorprendersi mai, in nessuna circostanza. I loro giorni annaspavano nella noia della routine e la tenerezza che avvolgeva i loro gesti aveva la consistenza di una patina vischiosa d’indifferenza.
Non le aveva detto esattamente così. Non se l’era sentita di ferirla sino a quel punto. Ma era stato comunque fermo, categorico. Aveva deciso, ormai. La loro strada insieme era giunta a un bivio e le loro vite si separavano lì. Lui avrebbe provveduto a versarle dei soldi per aiutarla a tirare avanti. Sapeva perfettamente che il piccolo negozio che gestiva non poteva darle le risorse sufficienti per vivere senza problemi. Non ne faceva una questione di soldi. Per lui era una questione di vita, non di soldi. Non poteva pensare di continuare a sprecare la sua esistenza in quel modo, accanto a lei.
Sua moglie si era lasciata cadere sul divano che avevano appena comprato riarredando il salotto di casa, e si era presa il volto fra le mani. Non aveva pianto. Si era come nascosta, accarezzandosi lentamente il viso. L’aveva lasciata così, in silenzio, uscendo di casa e accostando piano la porta. Quella sera era andato a dormire in una pensioncina del centro e vi era rimasto alloggiato per l’intera settimana seguente. Giusto il tempo per sistemare le ultime cose nella casa di Sant’Ilario e prendere gli abiti e le poche cianfrusaglie che intendeva portarsi via dall’appartamento della moglie. Per avviare le pratiche di separazione ci sarebbe stato tempo. Maria, sua moglie, meglio la sua ex-moglie, superata la sorpresa dell’annuncio, lo aveva coperto prima di insulti, poi di domande, infine di richieste. Soldi, soldi, sempre più soldi. Come se volesse riempire con quelli il vuoto lasciato dalla frana del loro matrimonio. Lui non aveva opposto resistenza. Aveva pagato quanto l’avvocato aveva stabilito senza battere ciglio, sottoscritto l’atto in cui si impegnava a versare alla sua ex-moglie una quota mensile di tutto rispetto, ceduto i diritti su metà dell’appartamento che avevano acquistato insieme nel quartiere di San Teodoro. Aveva firmato tutto, senza fare una piega. Era il prezzo della sua libertà e lo aveva pagato volentieri, con un senso di sollievo.
«Ciao amore, io vado».
Francesca gli posò un bacio sulla fronte prima di allontanarsi verso il cancello del giardino. Lui la seguì con lo sguardo. Aveva un corpo slanciato, modellato dalle sedute in palestra, le spalle dritte e quadrate sul fisico minuto e un culo alto e sodo che scattava ad ogni passo, messo in risalto da un paio di jeans aderentissimi. I trent’anni di Francesca guizzavano ancheggiando, lasciandosi dietro una delicata scia di profumo.
«Ciao, divertiti».
La donna, ormai con una mano sul cancello, si voltò lanciandogli un bacio. Giovanni rimase immobile ad osservarla sino a quando lei non sparì dietro la siepe che avvolgeva la recinzione che separava il giardino dalla strada. Si risistemò sulla sdraio con la faccia dritta al sole. Andava tutto benissimo! Tutto dannatamente bene! L’inquietudine di poco prima? Sparita. Dimenticata.
Capitolo due
Si svegliò di colpo col respiro mozzo. Si sollevò sulle braccia e rimase così, ansimante, per almeno mezzo minuto. La bocca spalancata a cercare l’aria che sembrava essere improvvisamente sparita dalla stanza, il corpo sudato, le orecchie che ronzavano, i lunghi capelli castani ridotti a un groviglio informe appiccicato al volto.
Un sogno. Un brutto sogno
. Francesca cercò di convincersene mentre ascoltava in silenzio il cuore che le batteva impazzito nel petto e che non voleva saperne di rallentare il ritmo.
Un incubo
. Ma per quanto si sforzasse non riusciva a ricordare. Quale mostro partorito dalla sua mente poteva averla ridotta in quello stato? Quale orrore aveva sfiorato il suo subconscio durante il sonno tanto da fermarle il respiro fino a ridurla sull’orlo di un collasso?
Sollevò il lenzuolo con un gesto di rabbia e restò seduta sul letto con gli occhi chiusi. Poi allungò la mano sul comodino e afferrò la bottiglia dell’acqua minerale. Ne bevve avidamente due sorsate lasciando che un rivolo di liquido le colasse sul lato della bocca, sul mento e poi giù, fino in mezzo ai seni. Fece una pausa. Poi bevve ancora per togliersi il sapore amaro che aveva in bocca. E solo in quel momento si accorse che riusciva a respirare meglio e che la folle cavalcata del cuore stava finalmente rallentando.
Si alzò dal letto e mosse i primi passi con cautela, quasi con paura. Pensò di aprire la finestra, di sollevare le tapparelle e di far entrare nella stanza il giorno fatto che si intuiva dalle sottili lame di luce che filtravano attraverso le tende. Ma non lo fece. Arretrò di qualche passo e si sedette sul pouf di fronte alla toilette Art Déco che, insieme al grande letto e a una poltrona, costituiva